Cesare Pavese, «Non ci capisco niente. Lettere dagli esordi»

È di recente uscito il volume Cesare Pavese. «Non ci capisco niente». Lettere dagli esordi (L’Orma editore, 2021). Cantore dell’adolescenza e editore di genio, Cesare Pavese (1908-1950) ha fotografato con malinconico e militante realismo il proprio tempo, imponendosi fin da subito come una delle voci cruciali del Novecento italiano. Le sue turbolenti lettere giovanili, spesso autoironiche in maniera sorprendente, compongono un ritratto dei tremori e delle esuberanze di un artista in erba che cerca a «pugni e calci» di trovare la propria strada nel mestiere della scrittura.
Cesare Pavese studia a Torino dove si laurea con una tesi su Walter Whitman. Sin dagli anni Venti legge i maggiori autori americani e inizia a tradurre le loro opere. Fra il 1935 e il 1936, per i suoi rapporti con i militanti del gruppo «Giustizia e Libertà» viene arrestato, processato e inviato al confino a Brancaleone Calabro. Tornato a Torino inizia a collaborare con la casa editrice Einaudi nel 1934 per la realizzazione della rivista «La Cultura», che dirige a partire dal terzo numero. Nel 1945-46 dirige la sede romana della medesima casa editrice. Dopo la Liberazione, si iscrive al partito Comunista. Seguono anni di lavoro molto intenso, in cui pubblica le sue opere di maggior successo. Viene trovato morto, per una dose eccessiva di sonnifero, il 27 agosto 1950. Tra le sue opere ricordiamo: Paesi tuoi, Feria d'agosto, Il compagno, Dialoghi con Leucò, La casa in collina, La luna e i falò, Il mestiere di vivere, La bella estate, Tra donne sole, Vita attraverso le lettere.
Federico Musardo, curatore del volume Cesare Pavese. Non ci capisco niente. Lettere dagli esordi,è dal 2015 direttore editoriale di «Culturificio», per cui ha curato un numero cartaceo (2019). Scrive di critica letteraria e letteratura su diversi spazi online. Dopo una collaborazione con Armillaria edizioni, da ottobre 2019 a gennaio 2020 ha frequentato il Corso principe per redattori editoriali di Oblique Studio. Sta lavorando alla stesura di quattro appendici critiche ad altrettanti romanzi inerenti a Pavese, in corso di pubblicazione per Garzanti.

«Il mio carattere era timido e riserbato: macché, io l’ho saputo sforzare alla vita moderna e tutti i giorni ne imparo di più poiché vivo in mezzo ad essa, sempre teso in me stesso, gioendo della mia personalità che sente, comprende, raccoglie». Cosa ha offerto Cesare Pavese al novecento italiano?

È una domanda parecchio difficile che richiederebbe forse una conversazione a voce o un saggio a sé, purtroppo non so dare una risposta soddisfacente. A me Pavese prima di tutto ha ricordato che cosa significa lavorare sodo, credere in quello che si fa, impegnarsi giorno dopo giorno e pensare sempre. Un’etica del sacrificio, insomma, insieme a una dedizione viscerale – la passione da sola non basta, e la vocazione non esiste. Forse la parabola esistenziale di Pavese ci potrebbe insegnare anche questo: prima di votarsi ai libri, suoi e degli altri, da lettore, editore, correttore di bozze, traduttore, narratore e così via, Pavese era un giovane alla ricerca di qualcosa. Sembrerà un rigurgito romantico o peggio decadente, però credo che per Pavese la letteratura sia stata sul serio una ragione di vita. Una formica editoriale, dunque, con quell’intelligenza curiosa e testarda che ha solo chi affronta le ambiguità della vita e non teme la sofferenza. D’altro canto, e basta sfogliare Non ci capisco niente per rendersene conto, quando scrive lettere Pavese ha una creatività spettacolare, intellettuale oltre che linguistica, ironica, a tratti caustica. Sul piano della storia letteraria, come notava già Calvino, non ha avuto grandi epigoni. Calvino scrive su di lui parole speciali. Diciamo che il mito Pavese non ha niente a che fare con Pavese, come ogni mito. Molti scrittori che si sono senz’altro confrontati con la sua eredità, anche fosse e contrario, poi ne hanno preso le distanze – penso soprattutto a Pasolini. Non saprei dire quanto è cambiata la rappresentazione delle traiettorie spaziali, dei paesaggi, dei luoghi della narrativa italiana dopo Pavese. Oppure i dialoghi, le conversazioni dei personaggi. Tra chi ha assimilato la sua lezione, ricorderei almeno Arpino. Forse è curioso sottolineare che all’estero due scrittori molto diversi, Ernaux e Canetti, entrambi con implicazioni autobiografiche, hanno riflettuto su Pavese (e sul gesto del suicidio).

Quale criterio ha adottato per selezionare alcune tra le centinaia di lettere scritte da Cesare Pavese?

L’adolescente che lettera dopo lettera prova a varcare quella soglia che lo separa dalla maturità. All’inizio l’idea era di concentrarsi soltanto sul rapporto tra Pavese e i primi tentativi di scrittura, come peraltro suggerisce il sottotitolo del libro (Lettere dagli esordi), poi grazie a una buona intuizione degli editori abbiamo pensato di proporre più percorsi di lettura, sempre fondati sull’idea di scoperta (umana, esistenziale, letteraria, intellettuale, sentimentale). Spetta al lettore, quindi, scegliere come aprire il pacchetto.

Cesare Pavese e Mario Sturani, Tullio Pinelli, Augusto Monti, Alberto Carocci. Ebbene, quale idea della creazione artistica emerge già?

Immagino che siano stati rapporti unici, con valori condivisi da una parte e scontri dialettici dall’altra. Ma è una mia fantasia. Mi immagino appunto tanti discorsi sugli argomenti più disparati. Monti, di un’altra generazione rispetto a Pavese, era un po’ il perno, e alcuni dei protagonisti di questo pacchetto sono stati parte della confraternita di intellettuali che si riunivano intorno al vecchio professore. Sturani, tra le altre cose, sarebbe diventato un abile ceramista, Pinelli un uomo di teatro e di cinema, Carocci un libro vivente, un ideatore di riviste. C’è un’eterogeneità sorprendente, e la loro creatività si è espressa attraverso linguaggi, forme, codici anche molto diversi. Queste però sono banalizzazioni di circostanza, forse servirebbe un altro pacchetto per ciascuno di loro – o una piola per parlarne, con un bicchiere di grignolino – Pavese, stando a un necrologio, beveva solo vino bianco – e un piatto di plin al sugo d’arrosto.

Leggendo questa raccolta di lettere s’incontra un uomo esuberante, vitale, autoironico. Da cosa sarà fagocitato successivamente?
Già qualcuno l’abbiamo fatto pubblicando il pacchetto, non facciamo troppi pettegolezzi…

Pavese e il suo tempo: quale ruolo svolge nel passaggio tra la cultura degli anni Trenta e la nuova cultura democratica del dopoguerra?

Anche questo è un discorso da fare davanti a un piatto di plin. Un ruolo decisivo, comunque: come poeta (anche e non solo grazie a Whitman) e come narratore, supera la cosiddetta prosa d’arte ed elabora un linguaggio tutto suo. Da un punto di vista narratologico sperimenta molto più di quanto non sembri a una prima lettura (sia per la trama che per lo stile). Certe soluzioni oggi ci sembrano naturali, le abbiamo interiorizzate, allora però non lo erano affatto. In questo senso Paesi tuoi, il romanzo d’esordio, merita una cura che stranamente finora non c’è stata granché. Un romanzo bellissimo, necessario, importante, e tutti gli aggettivi assertivi che ti vengono in mente, che quando uscì (1941) scandalizzò molti, non senza alcune terribili stroncature – quelle dei critici fascisti furono grottesche. Niente pettegolezzi sul rapporto tra Pavese e la politica, anche perché bisognerebbe iniziare un discorso sul rapporto tra politica e cultura e sarebbe impossibile. Consiglio quindi Paesi tuoi, simile per certi versi a La malora di Beppe Fenoglio (Alba, 1º marzo 1922 – Torino, 18 febbraio 1963), altro grande piemontese. Ci risentiamo tra qualche tempo, che so, nel 2033?







A cura di Giusy Capone
(n. 9, settembre 2021, anno XI)