Dietro le parole delle canzoni. In dialogo con Fabrizio Berlincioni Non sempre la grandezza dell’arte viene compresa o colta, dai più. Eppure, provate a immaginare un mondo senza i colori dei quadri, senza le forme delle piazze e dei palazzi, senza le storie racchiuse in un libro, in un film, in una canzone. Pensate a un mondo senza arte, e avrete qualcosa di molto vicino all’inferno. Un inferno fatto di individui solitari che, come massimo sforzo comunitario, si dedicano a trovare cibo per garantirsi la sopravvivenza, poiché l’arte, oltre a colorare, a emozionare e a meravigliare le esistenze degli uomini, rende questi ultimi consapevoli del fatto che la loro forza sta nella loro unione. Cos’è un paroliere, Fabrizio? Il paroliere è colui che riesce a sintetizzare in tre, quattro minuti una storia che ha un inizio e una fine. Le canzoni sono, nella loro essenza, racconti in rime. L’obiettivo di chi scrive canzoni è quello di emozionare chi ascolta già dalla prima volta che sente un brano. A mio avviso, una canzone non deve essere ermetica e spingere l’ascoltatore a chiedersi cosa voglia dire. Ciononostante, ci sono parolieri straordinari che restano ermetici. Ma non è questo il mio stile. Io ho un modo diretto, cerco immagini nuove per raccontare un sentimento. Sono un poeta prestato alla musica. Oltre a dedicarti alla musica, hai avuto anche un’importante carriera nell’ambito sportivo. Come si sono conciliate la musica e lo sport? Cos’hanno in comune? Apparentemente, non hanno nulla in comune. Tuttavia, lo sport mi ha aiutato a scrivere. Grazie a esso ho girato il mondo e ho vissuto esperienze straordinarie. Per esempio, ho trascorso un lungo periodo a Parigi, dove allenavo la squadra francese di serie A e dove ho avuto l’occasione di vivere esperienze di vita molto importanti. Poi, però, lo sport è disciplina, mentre la scrittura, per me, è ispirazione. Non sono uno scrittore disciplinato, per me il tempo dell’arte è indeterminato. Solo sotto scadenza divento disciplinato. Ovviamente, con il passare degli anni, sono diventato un professionista, e questo mi ha aiutato molto. Le canzoni che nascono, però, in modo spontaneo, dal bisogno irrefrenabile di raccontare una storia hanno un’altra potenza. Come ci si approccia alla professione di paroliere? Lo dico sempre nelle masterclass che tengo: senza un pizzico di fortuna, non succede nulla. Avevo diciannove anni, ero ispirato da Baglioni. In quel periodo, scrivevo canzoni a tempo perso. Una volta scrissi questa canzone, Non lo faccio più, che raccontava di un primo spogliarello. L’avevo fatta sentire ai miei amici, ai compagni di squadra, e tutti loro mi dissero di farla ascoltare a qualcuno. Mi feci convincere, registrai un’audiocassetta e la portai a un musicista di Napoli, tramite alcune amicizie comuni. Mi chiamò dopo mesi e mi disse che avrebbe portato la mia canzone a Sanremo. Vinse. Che dire? Inizialmente ero incredulo. Ero così incredulo che non andai a Sanremo, ma guardai la competizione da casa, in tv. Quando dichiararono la mia canzone vincitrice, cantata da Peppino di Capri, rimasi a bocca aperta. Mia madre pianse quella sera. Una delle canzoni a cui sei più legato? Senz’altro Mi manchi. L’ho scritta per mio fratello, che ho perso nel 1982. Quali sono le caratteristiche di un buon paroliere, secondo te? Cosa dovrebbe cercare dentro di sé chi volesse approcciarsi a questo tipo di professione? La scrittura è qualcosa che sgorga da dentro e non ti spieghi perché accade. A mio avviso, un conto è scrivere poesia, un conto è scrivere musica. Per esempio, la rima baciata è considerata un po’ vecchia. Inoltre, la canzone ha alcuni canoni da rispettare, occorre la rima, le parole devono avere una certa musicalità, altrimenti sono difficili da cantare, in certi casi le assonanze possono avere una certa forza.
A cura di Irina Turcanu Francesconi |