«Credo nell’utopia di una letteratura libera e cosmopolita». Parla Fabio Stassi

«Mi piacerebbe essere in qualche modo considerato uno scrittore siciliano, tunisino, cartaginese, albanese, sudamericano e forse anche romeno, un uomo che appartiene al nostro tempo meticcio. Continuo a credere, in maniera infantile, nell’utopia di una letteratura che abbia ancora al centro il personaggio-uomo, e che sia libera, e cosmopolita, sguardo molteplice e senza gerarchie, fiume che scorre in un mondo senza confini e senza frontiere». Lo sostiene Fabio Stassi, che si presenta sulla scena culturale romena con il suo libro L’ultimo ballo di Charlot (Sellerio Editore 2012, in uscita presso Polirom). Cerasela Barbone, traduttrice, lo ha intervistato.

Nella nota alla fine del libro L’ultimo ballo di Charlot scrive che è anche l’ultimo di una trilogia. Che cosa hanno in comune i suoi tre romanzi?

Quando ho terminato di scriverlo ho scoperto che c’era una coerenza tra questo e i due romanzi precedenti. Anche quelli parlavano dell’America. Il primo si svolgeva soprattutto in Brasile (America del Sud). Il secondo partiva da Cuba (America Centrale). Quello di Charlot invece è ambientato soprattutto in California (America del Nord). In comune hanno, quindi, il continente. Poi c’era pure questo strano legame: il primo, anche nel titolo, era un Carnevale. Il secondo, per la storia che racconta, il riscatto dopo la morte di uno scacchista famoso, era una Pasqua. Questo invece è un Natale, perché per sette Natali la Morte va a trovare Charlot.
La mia famiglia di origine era siciliana, una famiglia di emigrati. Io sono cresciuto a Roma, non in Sicilia. Alcuni cugini erano partiti per l’America. L’America, per noi, voleva dire emigrazione, partenza, luogo dove andare e ricominciare. Una parola piena di speranza, ma anche piena di dolore, perché chi andava lì poi non tornava o tornava raramente o tornava cambiato. Mia nonna era nata a Buenos Aires e quando pronunciava la parola America piangeva. Mi ha sempre colpito. Una parola che era miele e veleno al tempo stesso. E poi forse a casa mia erano importanti le ricorrenze del calendario, le feste. Forse per questo ne ho voluto creare uno io. Ma l’ho capito solo alla fine, non c’era un piano.

Il suo primo romanzo, Fumisteria (2006, GBM) ha vinto il premio Vittorini 2007. Qual è il suo rapporto con questo tipo di ricompensa letteraria, o meglio dire con il successo?

L’unico rapporto è quello di cercare di avere più tempo per scrivere, per farlo meglio. Il mio sogno sarebbe dedicarmi interamente alla letteratura. Il successo potrebbe aiutarmi, forse. Ma a patto di restare concentrato su quello che voglio scrivere, di non farmi distrarre.

In un’intervista del 2010 lei diceva che il suo stile si avvicina ad uno secco ed asciutto. Perché?

Mi piacerebbe avere uno stile secco e asciutto. È lo stile che preferisco, da lettore. Descrivere i personaggi usando pochi aggettivi, facendoli muovere e basta. Ma sono molto lontano, ancora. Lavoro moltissimo sulla frase, sulla posizione e sul suono di ogni singola parola. Ne uso ancora troppe, troppi aggettivi. I siciliani sono barocchi, vengono da una natura barocca, ricca, piena. Un musicista jazz, Miles Davis, diceva che bisognerebbe suonare solo le note che servono, non una di più. Purtroppo per fare questo bisogna avere un controllo assoluto su se stessi. Eliminare ogni compiacenza. Simenon tagliava le frasi che gli sembravano belle.

Il passato, la memoria sembrano essere i temi principali delle sue opere. Perché questo rivolgimento nostalgico ad altri tempi e spazi?

Sono cresciuto con i racconti orali. La mia famiglia era umile, ma piena di storie. Storie di migrazione, di partenze, ritorni, avventure, la guerra, la fame, salvataggi miracolosi, visioni. Ho imparato a rispettare la memoria, in tutte le sue forme.  Credo che chi scriva sia in qualche modo un custode della memoria. La cosa più importante che si ha, quando si è poveri, sono i ricordi. In un romanzo di Osvaldo Soriano, c’è un personaggio, un vecchio acrobata, Coluccini, che faccio apparire anche nell’ultimo ballo di Charlot, che non ha più niente da giocarsi a carte e allora si gioca i suoi ricordi. È una pagina molto bella, e molto triste.

Due dei suoi libri hanno il sapore di un omaggio allo scrittore Gesualdo Bufalino. Quanto deve alla letteratura in generale, e in particolare a quella italiana?

Bufalino è il primo scrittore a cui ho avuto il coraggio di telefonare. Il suo primo libro, Diceria dell’untore, è stato per me un incontro decisivo. Sapevo che volevo fare lo scrittore, e quel libro mi commosse. Bufalino è uno scrittore barocco, per me il migliore orecchio che c’era in Italia. Gli chiesi di leggere un mio racconto e di dirmi sinceramente se potevo continuare o dovevo smettere. Se mi avesse detto di smettere, avrei smesso. Devo moltissimo alla sua gentilezza, alle lettere che mi scrisse. Ogni scrittore deve tutto agli scrittori che lo hanno preceduto. Io ho amato, molto, anche le letterature straniere, ma sicuramente per me, per l’idea di stile che ho, tra gli italiani, sono stati importanti Bufalino, Calvino, Primo Levi, Vittorini, Sciascia…

Come scrittore, sente di appartenere alla cultura italiana o a quella universale?

Si è scrittori di una nazione solo per la lingua che si usa. Mi piacerebbe essere in qualche modo considerato, come ho detto in una conferenza, uno scrittore siciliano, tunisino, cartaginese, albanese, sudamericano e forse anche romeno, un uomo che appartiene al nostro tempo meticcio. Continuo a credere, in maniera infantile, nell’utopia di una letteratura che abbia ancora al centro il personaggio-uomo, e che sia libera, e cosmopolita, sguardo molteplice e senza gerarchie, fiume che scorre in un mondo senza confini e senza frontiere. Universali sono i temi della letteratura: la morte, l’amore, la guerra, il dolore. L’Odissea è e sarà sempre un’opera contemporanea.

Il suo esordio a 44 anni. È una casualità o una scelta?

In Brasile si dice che ogni coincidenza ha un’anima. È strano, ma le cose hanno sempre un loro tempo. Ho aspettato molti anni che un editore mi scrivesse e non era mai successo. Poi improvvisamente, a 44 anni, ho ricevuto tre lettere da tre editori diversi per tre cose diverse. Strano. Ma mi è parso come se solo in quel momento fossi finalmente pronto.

La letteratura è sempre stata la sua passione?

Ho frequentato un liceo scientifico, ma solo perché ci andavano i miei amici. Le mie passioni sono sempre state la letteratura e la storia. All’università mi sono iscritto a Lettere, anche se non sarebbe poi stato facile trovare un lavoro. Mi sono laureato in Storia del Risorgimento, l’epoca eroica dell’Ottocento italiano, le lotte di liberazione, Mazzini e Garibaldi... Ora dico che ho studiato tanti anni la storia ma per tradirla. Uno scrittore argentino afferma che «Ogni racconto è, per definizione, infedele. La realtà non si può raccontare, né ripetere. L’unica cosa che si può fare con la realtà è inventarla di nuovo». Anch’io credo in questa idea impura di romanzo, e forse per questo mi piace mischiare cose vere e cose inventate al punto che non si capisca più cosa è vero e cosa no. In spagnolo si chiama «ficcion verdadera». La realtà non è mai ordinata, è un fiume, i fatti arrivano e spariscono. Uno scrittore ha per me licenza di mentire, uno storico no. Ma a me ora non mi interessa più la verità storica, come da studente, ma una verità più intima e forse più universale, alla quale si arriva, se necessario anche attraverso la menzogna. Ora vorrei trovare la piccola cicatrice a forma di stella che è sempre nascosta nel corpo degli uomini.



Intervista realizzata da Cerasela Barbone
(n. 3, marzo 2013, anno III)