«Non ne sapevo niente»: l’esperienza di un Basco Blu in Romania. In dialogo con Ernesto Berretti «Poveraccio io: tra gli ignavi di Dante, meritavo di stare, altro che. Rischiai di tatuarmela quell'ignavia. Invece non fu così! Fortunatamente conobbi quella gente, la compresi, la rispettai. La ammirai per quello che affrontava ogni giorno. Ancora la compassione! Quella era la normalità per loro. Eravamo noi a sbagliare, quando ci sforzavamo di stimolare cambiamenti insostenibili per quel contesto. (...) Con i miei colleghi, più di una volta ci rendemmo conto di non sapere davvero niente di loro e di ciò che facevamo lì in realtà. E di essere impiegati per interessi che potevano andare bene oltre ai soli fini umanitari». (pag. 228) Ernesto Berretti, classe 1968, nato a Catania, oggi vive e lavora a Civitavecchia nel Servizio Navale della Guardia di Finanza come sottufficiale. Il suo romanzo d'esordio Non ne sapevo niente è stato pubblicato nel 2018, con Oltre Edizioni di Sestri Levante, 294 pp., nella collana Letture del mondo diretta da Diego Zandel. Il volume pubblicato nel 2018 ha già avuto numerosi incontri con il pubblico. A giugno 2019 è stato presentato all'Accademia di Romania di Roma. Intervista esclusiva con Ernesto Berretti Come è nato il romanzo Non ne sapevo niente? Quando ha pensato per la prima volta di rendere pubblico questo episodio della sua vita? Il romanzo è nato per un caso. Ero spettatore alla presentazione di un libro che parlava dei Balcani. Al termine di tutto mi sono presentato allo scrittore (il noto Diego Zandel), dicendogli di avere avuto una piccola esperienza in Romania: le domande che ha iniziato a farmi si facevano via via più particolari, cercavano un approfondimento. Quando ci siamo salutati mi ha detto di essere il direttore di collana di una piccola casa editrice, e che cercavano storie che avrebbero potuto incuriosire e appassionare i lettori. Dunque, mi ha invitato a scrivere della mia esperienza. Non l'avevo mai fatto, ma amo le sfide, perciò mi sono detto: proviamoci! «Bene. Mandami qualche cartella» mi ha risposto. Dopo alcuni giorni ho inviato una trentina di pagine e, dopo averle lette, Zandel mi ha telefonato per incitarmi a continuare. Ho iniziato ad aprile dell’anno scorso (n.r. 2018) e il romanzo l'ho scritto in due mesi. Avevo specificato al direttore della collana che avrei voluto pubblicarlo entro l'anno, perché era il 25° anniversario dell'inizio della missione sul Danubio, quindi aveva anche un significato evocativo. Dedicarlo anche a tutti i colleghi che parteciparono alla missione aveva per me un significato molto importante. Come un pazzo, tornavo dal lavoro, mi rinchiudevo e scrivevo per cinque-sei ore di fila. E c'è stata anche una ricerca molto capillare e profonda su vari aspetti storici, tutto riportato in un linguaggio fruibile a tutti. È stata per me una grande emozione poter scrivere questo libro. Non è stato solo scrivere, ma anche scoprire quello che ho vissuto lì. Mentre vivevo a Calafat, come Basco Blu, prevaleva il mio lavoro, dovevo fare in modo che il mio contributo riportasse la pace nelle zone di guerra. Adesso, a distanza di 25 anni, vivo tutto con maturità diversa e nel libro ho cercato di ribaltare la situazione: ho recuperato quei rapporti che a quel tempo non ho avuto modo di approfondire, perché li consideravo solo un contorno alla mia esperienza. Che significato ha il titolo del libro Non ne sapevo niente? È una delle metafore presenti nel libro. Non ne sapevo niente di cosa avrei trovato in quella periferia estremamente bella e trascurata. Ecco, potrebbe essere anche la prima osservazione di chi ha appena ultimato la lettura del libro: mi piace credere che ogni lettore o lettrice, al termine del libro, possa considerare «Anche io non ne sapevo niente». Allora, quando avrai finito di leggere, saprai qualcosa di più. A proposito di non sapere, è significativa la metafora della tavolozza dei colori, del pittore, e del committente del quadro. Ma non voglio togliere il gusto dell'interpretazione a chi vorrà leggere il libro; dico però che non ne sapevo niente è stata una considerazione comune per tutti quelli che hanno partecipato alla missione, senza distinzione di nazionalità né di grado. Come ha trovato lo stile adatto per questa storia? La voce narrante è quella di un militare, che non usa un linguaggio forbito o accademico: quando serve impreca o bestemmia. Per esempio, quando ho descritto il pastore Opinka che urinava in riva al Danubio, ho scritto volutamente «pisciare», perché lui non era una principessa, e stava facendo quello dalla sponda romena, guardando verso la Bulgaria, simbolicamente guardando il mondo, e pisciandogli contro senza timori, perché lui era Opinka, un semplice pastore senza niente da perdere. Lo stile è stato dettato dall'universo del narratore: «Che personalità avevo lontano dalla famiglia, in mezzo ad altri militari, in una zona sconosciuta?», mi sono chiesto. Una personalità equilibrata di chi avrebbe voluto sapere, e quindi, propendeva verso un possibile cambiamento. Accogliere la mutazione del suo punto di vista – disconoscente della verità – e scriverla con un linguaggio reale, chiaro anche ai romeni che avrebbero letto questo libro. Il gioco di alzare e abbassare il ritmo, alternando il dramma al divertimento, mi è giovato per incastrare tante situazioni, dalle più gravi come Srebrenica o l'ospedale psichiatrico, alle più leggere, come gli scherzi tra militari. Parlando di personaggi, una dei più vivaci fra tutti i capitoli è Gregor Samsa. Una blatta fuochista. Ha dato un nome all’insetto che le tormentava la vita nella Base. È una scelta piena di simbolismo, se pensiamo che Gregor Samsa è diventato più umano quando si trasformò in insetto. Come ci spiega questa metamorfosi? E cosa c'entra con Ernesto Berretti? Certo, anche questa è una metafora. Io ho usato i maiali per parlare di libertà; i cormorani e i gabbiani per parlare di diversità; lo stercorario per parlare di apparenza. Gregor, a tutti gli effetti, rappresenta una metamorfosi. Una triplice metamorfosi. La prima è la mia, quella del Basco Blu: quando arrivo mi sento superiore a tutti, un superuomo occidentale, io è la prima parola che pronuncio. Nel momento in cui decido di tornare in Italia, è perché a quel punto tutto quello che succede mi coinvolge, e potrei rischiare di perdere la lucidità sul lavoro, e quindi diventare un pericolo anche per i miei colleghi. La seconda metamorfosi è quella del romeno che non guarda più l'occidentale in modo strano. Ci siamo resi conto dell'invidia con cui ci guardavano gli uomini di Calafat. Ci vedevano camminare sicuri, ci vedevano come lo stereotipo del benessere. Erano preoccupati che le loro donne potessero fare un confronto. Alla fine c'è stato un avvicinamento, loro hanno anche provato a imitare certi atteggiamenti positivi, a partire dai saluti. La terza, oggettiva, è la metamorfosi scatenata dal contesto, quella che fa cambiare l’approccio verso «gli altri» e mette in discussione i motivi da cui nasce il pregiudizio: se si vuole cercare veramente un cambiamento, si può fare. E forse, a volte può servire un libro per far riflettere. Come ha cambiato la sua vita di famiglia questa esperienza a Calafat? Quando sono tornato c'è stato un momento di riadattamento, perché lì con Gregor Samsa ho vissuto dei momenti combattuti, perché me lo trovavo dappertutto, nello yogurt, in mezzo al pane, nella doccia, mi camminava sul cuscino. Con Gregor non è stato amore. Ho superato quel momento, in modo graduale: ho continuato a mangiare la pasta in un modo strano. Le abitudini sono diventate manie. C'è stato poi l’amore della mia famiglia, l'onda che ha avuto una tale forza da sommergere quella spiaggia che si stava delineando in quei sette mesi. Quella spiaggia è rimasta sommersa dalla vita che è andata avanti: dagli altri figli che ho avuto, dal lavoro, dallo sport. Quando c'è stata la possibilità di ritornare in quei posti, in modo simbolico, con la mente e il cuore, perché ero a casa mia (n.r. l'autore non è mai più tornato a Calafat dal 1995), allora ho ritrovato la spiaggia, e sulla spiaggia le conchiglie, le stelle marine, i sassolini colorati. Ho provato a raccoglierli e ordinarli in questa storia per darle un significato. Quindi, nel momento in cui sono tornato, l'impatto emotivo della famiglia ha travolto tutto il resto. L'esperienza in Romania è stata un'opportunità che mi ha migliorato, e per me è stato un privilegio conoscere quella gente. Mi ha fatto capire che sulla terra non ci siamo solo noi. Noi siamo gli altri per gli altri: non esiste un altro; esiste solo una persona che sta vicino, che ti sta guardando e ti sta parlando. Fin quando noi rimaniamo qui a pensare che gli altri sono belli, gli altri sono brutti, saremo piccoli e non andremo da nessuna parte. In chiusura, l'italiano Ernesto Berretti che rapporto ha con questa comunità romena numerosa che vive nella Penisola? Il mio rapporto con voi è molto bello e limpido. A Civitavecchia siete in tanti. L'esperienza più bella in assoluto l'ho fatta con un ragazzino, Edoardo, che all'età di otto anni si avvicinò al canottaggio (io sono anche allenatore di questo sport). Lo portavo a fare ginnastica in palestra con i più grandi. E, siccome la mamma non riusciva a portarlo e riprenderlo, me lo portavo io, a piedi, tenendolo per mano, come se fosse il mio quarto figlio, il più piccolino. Quel bambino è diventato grande adesso, ha quasi 17 anni, continua a fare bene nel canottaggio, a Civitavecchia, ed è più alto di me. È una mia grande soddisfazione. La mia speranza è di poter incontrare più romeni possibile con questo libro: mi preoccupava il fatto che, fermandovi a leggere solo le prime pagine, avreste potuto ritenerlo offensivo. Invece mi sono accorto che la vostra lettura è sempre molto attenta e obiettiva. Anche per questo mi ritengo onorato di conoscere molti romeni. Chi legge il mio libro alla fine conosce l'Ernesto Berretti che piange insieme ad Adrian oppure a Dana. Alle mie presentazioni incontro con frequenza romeni e adesso mi godo ogni commento, ogni sorriso, che a quel tempo avrei visto in modo diverso.
A cura di Irina Niculescu
Foto copyright: Ernesto Berretti |