E. Terrinoni: «La letteratura è l’incarnazione mondana, finita, di uno spirito universale e infinito»

Ospite dei nostri Incontri critici è Enrico Terrinoni, professore ordinario di letteratura inglese all’Università per Stranieri di Perugia e professore distaccato (triennio 2022-2025) presso L’Accademia Nazionale dei Lincei il Centro Interdisciplinare B Segre. Collabora con Il manifesto e Left; suoi contributi sono usciti anche sul Corriere della Sera, La Repubblica, Il Sole 24 ore, La Stampa, Il Messaggero e Irish Times. È autore di numerose monografie sulla letteratura inglese e irlandese. Ha tradotto e curato opere di autori quali Oscar Wilde, George Bernard Shaw, Nathaniel Hawthorne, Herman Melville, John Burnside, Mannix Flynn, James Stephens, Alasdair Gray, Bobby Sands, Brendan Behan, Michael D. Higgins, Colin Wilson e James Joyce. Nel 2021 ha pubblicato la prima edizione bilingue al mondo annotata dell’Ulisse, per cui ha ottenuto il Premio Internazionale Capalbi. Nel 2023 ha vinto il Premio Nazionale di Anglistica “Sergio Perosa” per il libro Su tutti i vivi e i morti (Feltrinelli)


In che modo, secondo Lei, il modernismo con autori come Joyce ha ridefinito il concetto di romanzo, abbandonando le strutture narrative tradizionali e aprendo la strada a una letteratura capace di riflettere la frammentazione dell’esperienza moderna?

Le etichette a mio avviso non sono mai un buon modo di avvicinare un fenomeno complesso come la letteratura. Si usano nei manuali e servono a semplificare. Io, ad esempio, non vedo l’utilità di parlare di Modernismo in relazione a Joyce, autore al contempo medievale, classico, e futurologico. Non trovo abbia molto a che spartire con altri autori incasellati in quella griglia, se non il fatto di recepire una sorta di spirito del tempo, uno spirito che si mostrava scettico del finalismo, della teleologia applicata alla letteratura, che poi significava non rappresentare la evidente disgregazione del tutto, individuo compreso. Sono convinto che ogni grande autore vada considerato a sé stante, e che nessuno di loro si senta di avere avuto una missione come quella di aprire la strada a nuove letterature. Il discorso può semmai farsi al contrario, e andare a vedere come autori successivi abbiano fatto tesoro o falsificato la lezione appresa o intuita dei loro predecessori. In questo senso, possiamo dire che non esisterebbe la letteratura sperimentale se non ci fossero stati i vari Joyce, Woolf e altri. Ma da lì a intendere la loro scrittura come volontà di aprire nuove strade per altri, credo che il passo sia incerto e lungo. Chi voleva aprire la strada per altri apparteneva per forza di cose a movimenti codificati, di minore impatto artistico, ma sicuramente di grande impatto mediatico. Il futurismo, ad esempio. Ecco, i grandi non hanno, per me, a che fare con queste rigidità intenzionali. 


L’Ulisse di Joyce è spesso interpretato come una mappa dell’umanità attraverso il prisma della città. Come valuta l’uso della geografia urbana come specchio della condizione umana nella letteratura modernista?

Nel libro di Joyce la città è un personaggio a tutti gli effetti. Agisce nelle menti, nelle parole, nei discorsi, negli immaginari di chi la popola, ed è vero che Joyce tenta di cogliere il suo animo segreto attraverso una mappatura meticolosa e costante. Non ha, a mio avviso, troppo a che vedere, questa tecnica narrativa, con la volontà di creare un precedente, di assumere ad esempio che la città sia uno spazio che rifletta la condizione umana più di quanto questa cosa non capitasse già in passato. Anche i visionari come Blake, per non parlare dei realisti, avevano usato la città come specchio della vita sociale che si dà al suo interno. Credo che Joyce non avesse in mente di fare qualcosa di così generale, ma proprio di far risaltare agli occhi dei suoi lettori una città in particolare e ignota, che sarebbe divenuta la città universale: la sua Dublino è il nostro universo come lo è la Londra di Blake, e come lo saranno altre città di altri scrittori futuri. Penso ad Alasdair Gray e alla sua Glasgow, ma anche alla Roma di Pasolini che certamente romano non era. Ci rispecchiamo nelle città che vivono in noi tanto quanto le città che descriviamo si rispecchiano in noi che le attraversiamo.


La commistione di generi letterari è diventata una cifra stilistica di molti autori del Novecento. In che modo, secondo Lei, opere come l’Ulisse o Finnegans Wake di Joyce hanno destabilizzato le categorizzazioni letterarie tradizionali?

Ulisse e il Wake sono delle singolarità letterarie, delle monadi del tutto autonome rispetto alle categorizzazioni possibili del letterario, che è altra cosa rispetto alla letteratura. La letteratura è per me l’incarnazione mondana, finita, di uno spirito universale e infinito, che in alcune mie opere chiamo il “mare delle interpretabilità”, includendovi le intenzioni degli autori, quelle dei lettori e quelle inermi ma non-morte dei testi. Joyce mescola i generi per dimostrarne la fatuità, per metterli in ridicolo. Altri usano la commistione a collage che fa molto postmoderno per sfidare le convenzioni. Dobbiamo entrare nell’ottica che uno scrittore come Joyce fuoriesce dalla letteratura e anela al letterario. Solo così possiamo avvicinarne la lezione. Non si tratta di porsi su un piano di superiorità, certo che no, ci sono romanzieri sicuramente più riusciti di Joyce. Ma il punto è che lui non gioca alla stessa partita degli altri. Si rivolge ad altre esperienze del passato, a Bruno, a Vico, a Platone, ad Aristotele, a Dante, a Shakespeare, a Newman, ovvero a modelli la cui opera deve sostanzialmente reincarnarsi nella sua e quindi radicalmente cambiare.


Il flusso di coscienza, adottato da molti autori modernisti, rappresenta una rivoluzione nel modo di narrare la soggettività. Quali, a Suo avviso, sono le potenzialità e i limiti di questa tecnica nel rappresentare l’esperienza umana?

Entrare nella mente altrui non si può. Qualunque tecnica che tenti di fare scientemente questa cosa dimostra o una grande ingenuità o ci parla di una grande beffa. Joyce non era ingenuo, quindi bisogna accettare l’altra ipotesi, tra l’altro enucleata nell’Ulisse stesso, quando di legge che “chi prende in giro non viene mai preso sul serio proprio quando fa più sul serio”. La sua rappresentazione del pensiero, del sogno, degli incubi, dei desideri repressi, è strabordante, eccessiva, elefantiaca. Il suo tentativo di riprodurre meccanismi associativi sfida qualunque dissezione della logica e ammicca al non-logico, alla negazione del principio di non contraddizione, e all’accettazione dell’entropia, del caos a cui vuole regalare una sorta di cosmesi. Non si propone di dare lezioni, ma soltanto di tuffarsi nell’abisso, di superare l’orizzonte degli eventi e piombare, e farci piombare, nel buco nero. Altri, meno ambiziosi ma più consapevoli di lui della loro missione per conto di dio, si sono mostrati convinti di poter penetrare la psiche. Non parliamo solo di artisti, letterati, ma anche di medici. Joyce sa che la psiche è uno scrigno chiuso senza chiave, che il segreto è una lettera che non possiamo mai aprire, ma di cui possiamo analizzare l’involucro, la busta, anch’essa un testo da leggere con la testa. Ma è proprio questa impenetrabilità che ci consente di interpretare ad infinitum quel che potrebbe nascondere, e che quindi ci regala la libertà di essere lettori non legati da un rapporto di vassallaggio rispetto a chicchessia, siano essi autori, testi, professori, o sacerdoti della parola.


Come interpreta la tensione tra l’idea di letteratura come spazio elitario e la sua funzione sociale nel contesto del modernismo e delle sue eredità? Ritiene che vi siano autori capaci di coniugare efficacemente entrambe le dimensioni?

Autori elitari non ne leggo più da anni, appartengono a un ambito che non mi appartiene, non mi interessano, mi sembrano limitarsi a una sfera ridotta e ridicola del fare arte, limitandosi invece all’artefare. Non è mio costume fare nomi, ma la mia predilezione va ad autori che vogliono cambiare il mondo attraverso la parola, ma non solo. Joyce sì che lo fa con la parola, cambiando anche il nostro immaginario, se siamo umili abbastanza e pazienti abbastanza da starlo a sentire. Orwell e Beckett lo fanno con la parola e con l’azione. Il secondo persino con il silenzio. Brendan Behan voleva farlo con gli esplosivi, e Manganelli paragona l’opera letteraria a un ordigno. Tutti questi autori sono a loro modo rivoluzionari, ma alcuni di essi possono venir letti come elitari, in virtù della grande complessità del linguaggio che evocano e adoperano. Ma come implicavo prima, chi cambia il mondo con le parole deve puntare alla complessità, mai ridurla, e mai ridursi. Non si tratta di elitarismo, quello lasciamolo ai futuristi e compagnia bella. Si tratta di conoscere il potenziale dell’armamentario più importante e possente che tutti indistintamente possediamo: il linguaggio, ossia la capacità di esprimerci per interagire e modificare lo spazio che inesorabilmente abitiamo.



A cura di Afrodita Cionchin e Giusy Capone
(n. 1, gennaio 2025, anno XV)