Con Eloisa Morra su Gadda e la sua poetica

Ospite dei nostri Incontri critici è Eloisa Morra, professoressa di Letteratura italiana contemporanea all’Università di Toronto, dove coordina il progetto Sciascia Archive. Si è formata alla Normale di Pisa, dove è stata allieva del corso ordinario, e alla Harvard University, dove ha conseguito un Ph.D. in Lingue e letterature romanze. È autrice di La lente di Gadda (Electa 2024), Poetiche della visibilità (Carocci 2023) e Un allegro fischiettare nelle tenebre (Quodlibet 2014), tra i vincitori dell’Edinburgh Gadda Prize. Ha curato diverse mostre, l’ultima è Calvino cantafavole (Electa 2023, con Luca Scarlini). È autrice di studi, articoli e curatele ed è una delle massime esperte dell'opera del pittore e poeta Toti Scialoja. Scrive per il Sole 24 Ore e co-cura Elettra, una serie antologica di racconti su padri e figlie. La nostra intervista ruota attorno al suo volume più recente, La lente di Gadda (Electa, 2024, 160 pp.).

Plurilinguismo, impiego dei dialetti e ricorso a termini tecnici e scientifici. In qual misura lo stile gaddiano riflette la visione filosofica e psicologica dell’autore, in particolare per quanto riguarda il tema della molteplicità e del caos?

Lo stile sostanzia l’intera poetica: è un qualcosa che si può dire di tutti i grandi scrittori, e a maggior ragione nel caso di Gadda. È come se ciascuno dei suoi testi fosse una casa dalle fondamenta salde. È il progetto stesso (dal dettaglio più minuto alla planimetria) dell’edificio a spingere chi lo abita a viverci in un certo modo, o a garantire la potenzialità dell’abitare in modi diversi ma coesistenti, di pari passo con la complessità della costruzione… In La lente di Gadda mi concentro in particolare sul versante iconografico dei suoi edifici narrativi, che non è che uno dei moltissimi tasselli attraverso cui lo sguardo dello scrittore tende — come ricorda la citazione dallo scritto d’arte Una mostra di Ensor presente in copertina — a organizzare il caos in esito formale, espressivo.


In che modo l’esperienza biografica di Gadda, in particolare la sua partecipazione alla Prima guerra mondiale, ha influenzato la sua produzione letteraria?

È stata decisiva, non solo per l’incontro con determinati paesaggi e personaggi, ma per la sua stessa vocazione di scrittore: è attraverso il Giornale di guerra e di prigionia, pure non pensato per la pubblicazione, che Gadda si mette alla prova, confermandosi autore. Un autore la cui voce deve molto anche all’elaborazione del versante visivo, come dimostrato efficacemente dal bel volume La guerra di Gadda. Lettere e immagini (Adelphi, 2021), che include anche molte delle sue fotografie al fronte. Quegli anni sono fondamentali anche perché lo costringeranno a confrontarsi con la perdita del fratello Enrico, considerato la parte migliore di sé, lutto che porterà a un’ulteriore incrinatura nel già complesso rapporto con la madre, Adele Lehr; non sorprende che in seguito le «immagini della memoria», in primis i ritratti fotografici, saranno parte integrante dell’operazione di scrittura della Cognizione.


Che ruolo gioca il tema della frammentazione dell’individuo nelle opere di Gadda, come ad esempio ne La cognizione del dolore
?

Non trascurabile, soprattutto per la modalità di costruzione dei personaggi. In Gadda c’è una continua oscillazione tra tipizzazione e individualizzazione, il che lo porta a costruire certe scene attraverso un filtro intrinsecamente pittorico (il che non era inusuale in altri scrittori, basti pensare a D’Annunzio, ma sono le finalità a divergere; in Gadda la variabilità delle percezioni è un dato strutturale, in questo è vicino a Proust). È il caso del magnifico personaggio della madre, di cui gli appunti preparatori testimoniano lo studio di sequenze visive e riferimenti molto variegati (da Friederich a Boccioni), ma anche del sulfureo protagonista, creatura di parole quanto mai mutevole. Come ebbe a dire Gian Carlo Roscioni, Gonzalo è al contempo «un argentino e un lombardo, un celtico e un tedesco, un marchese e un borghese, un ingegnere e uno scrittore, un lettore di Platone e un venditore di fazzoletti, l’Avaro, il Misantropo, il Malato immaginario, il Nemico del popolo, Enea». La nevrosi che caratterizza il personaggio prende corpo attraverso la frammentazione degli sguardi, le diverse (spesso contrastanti) angolature attraverso cui ci viene presentato.


Qual è l’importanza della digressione nel romanzo Quer pasticciaccio brutto de via Merulana e come essa riflette la visione del mondo di Gadda?

Quelli che sono stati considerati degli stacchi digressivi (spesso associati a tentativi di ecfrasi, ovvero di traduzione in parole d’opere d’arte visiva, o magari all’incontro col paesaggio) nel romanzo hanno anche funzione di snodi narrativi, anticipando quello che sarà, creando parallelismi con altre scene che si ripresenteranno simili, o magari lanciando implicite sfide di riconoscimento ai lettori. Ogni incontro col visibile – dall’osservazione della corteccia dei platani o della facciata di una basilica alla contemplazione delle nuvole, che torna a più riprese – è una forma di approssimazione al reale, dunque di stupore, di conoscenza.


In che modo Gadda utilizza il dialetto e il plurilinguismo nei suoi testi per arricchire la narrazione e caratterizzare i personaggi?

I casi specifici variano di libro in libro, ma d’impatto mi viene in mente uno stradario; è come se le scelte linguistiche, le parlate dei personaggi costituissero una serie di slarghi, corsie attraverso cui lo sguardo del narratore si muove di continuo, immettendosi nella rete di rapporti sociali e setting di volta in volta prescelti per poi uscirne a piacimento. Così certe predilezioni lessicali o scelte sintattiche nell’Adalgisa incarnano assai meglio di lunghe requisitorie la mentalità ristretta della borghesia milanese, mentre le diverse inflessioni dialettali del Pasticciaccio (risultato di una profonda revisione linguistica operata in dialogo col poeta dialettale Mario Dell’Arco) rendono visibile il contrasto tra l’italiano misto a dialetto gli inquilini del ‘palazzo dell’oro’, pescecani arricchiti, e il versante popolaresco dei Castelli, dal romanesco più ferino. I tic linguistici dei personaggi, le oscillazioni della parlata, gli errori sono spie delle loro ansie sociali, o desideri inconfessabili. Spesso poi Gadda si diverte a giocare con la compresenza di parlate agli antipodi, di sguardi diversamente informati, e le scelte iconografiche vengono di conseguenza.


Come si manifesta il pessimismo gaddiano nella rappresentazione della realtà sociale e politica dell'Italia nel primo Novecento?

Il pessimismo unito all’impazienza verso il caos generato dalla folla (spesso dipinta attraverso metafore animali) è una costante, dal Giornale all’Adalgisa sino a Eros e Priapo, forse il testo più in grado di verticalizzare quest’attitudine. È risultato di certo tipo di inclinazione caratteriale (Gadda si autorappresenta, e in effetti è un ‘umiliato e offeso’) su cui poi vanno a sovrapporsi ulteriori strati di vissuto, che l’hanno accentuata. Ma in una prima fase, soprattutto nell’Adalgisa, questa tendenza al pessimismo — da vero uomo d’ordine — nel rappresentare i rapporti sociali si manifesta in una naturale predisposizione alla caricatura. Tra le fonti visive dei racconti ci sono senz’altro, oltre alle pagine del “Guerin Meschino”, anche le vignette architettoniche del suo cugino in seconda, il famoso architetto Piero Portaluppi, che si prendono gioco a un tempo delle nuove strutture della città di Milano e dei suoi abitanti.


Come viene trattato il concetto di ‘male’ o ‘disordine’ nelle opere di Gadda e in che misura ciò è riflesso nello stile
?

Nel libro c’è un capitolo dedicato all’esperienza forse più catastrofica, quella dell’annientamento di un’intera generazione a causa dei deliri di onnipotenza mussoliniani, emblema del Male per eccellenza. Anche se fuori tempo massimo, Gadda arriva a detestare la figura di Mussolini e il suo speciale rapporto di erotìa con la folla, desiderando di metterli senza troppi complimenti sul lettino dell’analista. Per capire meglio il narcisismo collettivo della società fascista (e non solo) sono ancora una volta necessarie le immagini: le testimonianze visive dell’epoca vengono smontate, fatte a pezzi, rimontate di continuo, nel tentativo di dileggiare – più che il tiranno – la parte di sé che aveva ceduto alle lusinghe delle mascherate fasciste. Anche in questo caso lo stile è l’uomo, e lo spiega meglio di ogni altro Giorgio Manganelli: «Il suo rapporto col linguaggio è costante, vessatorio, penoso e passionale: più che amoroso, avido, più che abbandonato, catastrofico. Egli abita il proprio mondo con l’accanimento del dannato onesto, convinto che una accurata dannazione è infinitamente più solenne di una salvezza generica e imprecisa».


Perché un libro sull’iconografia in Gadda? Qual è la scoperta che l’ha sorpresa di più?

Penso che le immagini (non solo pittoriche: ci sono tanti frammenti d’architettura, sculture, illustrazioni e fotografie) siano parte integrante di quella complessa, caleidoscopica macchina che è la visione del mondo di Gadda: più che un orpello, una specie di bisturi per arrivare al vero. Volevo rendere visibile, almeno in parte, i meccanismi competitivi, oltre a ricostruire una serie di possibili percorsi nell’iconografia. Mi ha appassionato scrivere della consonanza col lavoro di Mino Maccari; che i due si conoscessero è noto, ma è stato interessante rilevare come l’operazione di smontaggio del mito mussoliniano in Eros e Priapo ha molti punti in comune con Dux, una mostra di fortuna organizzata dall’incisore senese — fino a quel momento fiero fascista — poco prima dell’armistizio. Il sentimento di amore ferito divenuto rabbia che si ritrova nelle lugubri iconografie del pamphlet gaddiano è analogo ai tratti convulsi di quei quadretti, visti da Giuliano Briganti e (pare) anche da Gianfranco Contini. Era una consonanza di sguardo che mi è sempre parsa evidente, ma su cui finora non si era riflettuto.


Gadda è stato sempre, e viene considerato tuttora, un autore arduo da affrontare. Gli adattamenti sinora esistenti potrebbero essere una via per avvicinarsi al suo lavoro?

Penso che L’ingegner Gadda va alla guerra di Fabrizio Gifuni diretto da Giuseppe Bertolucci in particolare abbia parlato a una nuova generazione di potenziali lettori, intessendo un intreccio suggestivo con l’attualità. La parola di Gadda a teatro è di grande impatto, non a caso tante compagnie, anche in anni più recenti, hanno portato in scena altre sue opere (su tutti Il Guerriero, l’Amazzone), con ottimi riscontri di pubblico. Ma al di là degli adattamenti e del ruolo dell’insegnamento a scuola, che potrebbero benissimo andare di pari passo, credo che soprattutto il Pasticciaccio sia di per sé un testo che si adatta a diversi livelli di lettura.

 

A cura di Afrodita Cionchin e Giusy Capone
(n. 10, ottobre 2024, anno XIV)