La rivista «Nuovi Argomenti» e il dibattito culturale di oggi. Dialogo con Elena Grazioli

In questo numero, un’ampia intervista sul mondo critico di oggi. La nostra invitata è Elena Grazioli, assegnista di ricerca presso l’Università degli Studi di Milano Statale con un progetto sul banchiere umanista Raffaele Mattioli. Ha pubblicato presso Marsilio un volume intitolato Se non vado errato coi ricordi. Giacomo Casanova a Dux (2023) e durante il dottorato si è occupata della rivista «Nuovi Argomenti». I suoi interessi di ricerca riguardano anche il mito di Beatrice dal medioevo alla modernità letteraria, e i generi biografia, autobiografia e corrispondenza epistolare. Su questi temi ha pubblicato alcuni articoli usciti su riviste di fascia A («Studi Novecenteschi», «Ticontre», «Studi Medievali e Moderni», «Oblio», «Scaffale aperto», «Di Nulla Academia»), anche di respiro internazionale («Textual Cultures» e «Italian Poetry Review»).



Alberto Carocci e Alberto Moravia fondano «Nuovi Argomenti». «L’idea», ricorderà Moravia, «era quella di creare una rivista di sinistra come Temps Modernes” di Sartre, la quale avrebbe avuto un’attenzione per la realtà italiana di tipo oggettivo e non lirico». Come si è sviluppata la Rivista?

Cerco di rispondere in breve, sottolineando i tratti principali. «Nuovi Argomenti» viene fondata a Roma nel 1953 da Carocci e Moravia. Nei settantuno numeri che compongono la prima serie, che si chiude nel 1964, si configura come una rivista militante, impegnata in una partecipazione attiva e costante nell’affrontare tematiche legate all’attualità di ordine culturale, politico e religioso. I contenuti sono orientati verso i problemi legati al comunismo, tanto in Italia quanto in Europa e nel mondo, un taglio particolare è rivolto alla sociologia e all’antropologia (cospicui gli interventi di De Martino, Cagnetta, Lanternari, fra gli altri), e, da ultimo, la prosa narrativa viene accolta principalmente nelle forme che aderiscono a quello che potrebbe definirsi un ‘realismo documentario’. È difficile però riferirsi a un paradigma normativo preciso, a una ‘posizione della rivista’ proprio in considerazione della sua vocazione ecumenica – le posizioni finiscono per essere quelle di tutti i collaboratori, in particolare del fronte più avanzato della sinistra radicale (Jemolo, Salvatorelli, Rossi), l’area dell’antifascismo repubblicano del Partito d’Azione. A differenza delle riviste tradizionali – che propongono un’idea di letteratura allineata alle poetiche del Neorealismo, o, come il «Verri» con il passaggio a Feltrinelli, neoavanguardista – su «Nuovi Argomenti» ci sarà spazio per tutti: da Cassola e Bassani fino a Pagliarani ed Eco. E la rivista di Carocci e Moravia avrà anche il merito di costituirsi come un campo di azione fra generazioni differenti (in particolare, a Carocci sta a cuore la valorizzazione di scrittori e scrittrici meridionali agli esordi). Tuttavia, non si tratta solo della presenza di autori allineati su posizioni divergenti e appartenenti alla sfera degli esordienti o dei più noti, l’apertura prospettica si riscontra anche nelle tematiche: la rivista tratta questioni religiose (da Jemolo a De Martino a Simone Weil), cultura cattolica (Falconi e Salvatorelli), problemi legati alla decolonizzazione (Sarel, Pischel, Mende), alla condizione operaia (Lusvardi, Carocci, Pizzorno), al marxismo (Geymonat, Bobbio, Lukács, Chiaromonte). Per non parlare del genere giornalistico dell’inchiesta che lascia il lettore libero di propendere per gli uni o per gli altri scrittori che espongono il loro personale punto di vista. Il tutto senza dimenticare che larga parte delle proposte si sviluppano per via di relazioni personali, fra quegli scrittori che gravitano prima intorno a Carocci e alla Einaudi e poi all’ambiente romano di Pasolini e Moravia. Dal 1953 al 1964 scrivono sulla rivista, tra gli altri, Arbasino, Bassani, Bertolucci, Bianciardi, Bobbio, Calvino, Cassola, Ginzburg, Fenoglio, Montale, Morante, Ortese, Ottieri, Piovene, Pratolini, Raboni, Rea, Vittorini. Il carattere ‘documentario’ dei contributi si configura come tratto saliente, ed esso esclude testi d’indole squisitamente letteraria. È pur vero che la rivista pubblica opere narrative composite e variegate, che appartengono però a generi diversi non istituzionali – autobiografie e biografie, diari e taccuini –, ma ciò che accomuna gli interventi, compresi i testi appartenenti al genere più tradizionale del racconto, è proprio il carattere di testimonianza, insieme al prevalere di una prospettiva antropologico-sociologica (non a caso in sintonia con uno degli interessi dominanti di «Nuovi Argomenti»), in grado di dare uno spazio anche ai margini della società. A queste testimonianze si associa la nozione di impegno in quanto, molto spesso, il contenuto dei contributi vira anche verso un aspetto di denuncia, come nei confronti delle condizioni di lavoro degli operai (Edio Vallini cura le Biografie di operai e Cassola e Bianciardi pubblicano quelle dei minatori della Maremma), della criminalità organizzata (pensiamo al saggio La mafia di Giuseppe Montalbano, oppure al racconto di Saverio Strati, La regalia, o La vendetta di Dacia Maraini), ma è rappresentato anche il  versante femminile, con racconti di donne spesso costrette a subire abusi e violenze (La mia storia tornava sotto l’albero carrubo ancora di Maraini o Un requiem per addolorata di Devena), e non manca un’attenzione specifica sul tema dell’inquinamento ambientale, se prendiamo la pubblicazione di La nuvola di smog di Italo Calvino.
Negli anni Sessanta la scena politico-sociale cambia radicalmente in Italia e nel mondo, viene archiviato nel giro di pochi anni il dibattito culturale del decennio precedente (guerra fredda, stato guida, stalinismo, realismo socialista), mentre altri problemi, altrettanto complessi e sfuggenti, vengono alla ribalta. Da un lato ecco la modernizzazione delle strutture produttive in un’economia di libero mercato (le dinamiche di rinnovamento imprenditoriale, le problematiche delle industrie sia a livello di grandi gruppi sia di piccole imprese, l’aumento della produttività del lavoro e un inaccettabile peggioramento delle condizioni lavorative), dall’altro le questioni politiche a scala globale (con la morte di Kennedy, la guerra in Vietnam, la caduta di Chruščëv, il muro di Berlino e la Primavera di Praga) e la contestazione studentesca. Una rivista come «Nuovi Argomenti», sin dalla sua fondazione strettamente legata a un preciso dibattito e a determinate categorie critiche e culturali, va in crisi, come dimostra la chiusura nel 1964. A farsi carico dei numerosi sforzi necessari all’avvio della seconda serie è Alberto Carocci, che promuove un’opera di mediazione con la nuova redazione composta da Alberto Moravia, direttore insieme a Pier Paolo Pasolini, e da Enzo Siciliano, segretario di redazione. Nel 1966 si finisce per inaugurare una stagione di ‘disimpegno’ in cui gli intellettuali e gli scrittori sono intenti a dibattere fra chi si schiera o si oppone alla Neoavanguardia, fino al ritorno non sempre convinto sull’attualità durante l’‘assalto al cielo’ della contestazione studentesca e al silenzio che cade questa volta sugli anni Settanta. Questa seconda serie si chiude nel febbraio del 1980, segnando un percorso in cui il fatto letterario tende sempre più a prendere il posto della discussione politica, grazie all’impulso di Pasolini, alla vicinanza con Moravia e alla malattia di Carocci, che sopraggiunge alla fine degli anni Sessanta e rende il suo ruolo sempre più marginale. «Nuovi argomenti» sostanzialmente diventa un’altra rivista, perde i tratti peculiari che l’avevano caratterizzata nel decennio precedente: non ci sono più le inchieste e le questioni politiche sono trattate in modo molto marginale. Sulla rivista iniziano a scrivere Bellezza, Cordelli, Montefoschi, Paris. Alla morte di Pasolini il suo posto in direzione viene preso da Attilio Bertolucci, che affianca Moravia e Siciliano. Redattori della rivista, dal 1974, sono Dario Bellezza e Piero Gelli. Tra gli autori invitati a collaborare, Celati, Cerami, Consolo, Cucchi, Giudici, Magrelli, Magris, Malerba, Rosselli, Scialoja, Sereni, Siti, Spaziani, Zanzotto. Si pubblicano scritti di Paz, Cortázar, Barthes, Bulgakov, Michaux, Lezama Lima, Bachtin, Pasternak, Brodskij. Persino la fisionomia della proposta letteraria – dominante, in questa seconda serie, rispetto a contributi legati ad altre discipline – risulta ‘aperta’: ragionando per generi letterari e appartenenza a movimenti, ci rendiamo conto di come a essere rappresentata nelle pagine di «Nuovi Argomenti» sia la letteratura sperimentale (Celati e Malerba), quella istituzionale di maggior leggibilità (Romano, Saponaro, Montefoschi), insieme però alla produzione di autori mainstream (Elkann), di scrittori vicini al movimento beat romano (Scalise, Paris, Frabotta, Cordelli) e di coloro che saranno destinati a brillanti carriere giornalistiche (Colombo e Dell’Arti). Ma sono presenti pure racconti di quelli che sono ritenuti oggi autorevoli critici letterari, a partire da Ugo Dotti, Paolo Valesio e Amanda Guiducci. Considerando questo panorama colpisce la sua varietà di articolazione, che presenta un numero significativo di firme femminili, insieme a una gran quantità di scrittori, critici e intellettuali che lavorano a vari livelli del sistema non solo letterario ma più in generale della comunicazione scritta. Emerge così la proposta di un ‘non canone’ o di un canone eclettico e duttile, aperto e ‘generalista’, funzionale a proporre una rivista certo raffinata e colta, ma non esclusiva, che si posiziona nel campo dell’editoria periodica di cultura con una fisionomia volutamente non definita in modo rigido, e perciò di difficile classificazione. Punto forse non di debolezza ma di forza di «Nuovi Argomenti», rivista originale anche per questo.


Dibattiti come quelli sul romanzo, sulla critica letteraria in Italia, su Neocapitalismo e letteratura, ma anche sul rapporto fra cultura e potere, come dimostra l’inchiesta relativa al comunismo e ai problemi dell’arte, e più tardi il dibattito sulla contestazione giovanile, hanno preso avvio proprio sulle pagine di «Nuovi Argomenti». Ritiene che, oggi, la letteratura svolga un ruolo sociale, smuova le masse, rifletta o contesti il sentire comune?

Non direi esattamente che questi dibattiti prendono avvio sulle pagine di «Nuovi Argomenti», quanto piuttosto che si sviluppano anche su questa rivista: questo genere di discussioni sono terreno di confronto pure su altri periodici. La peculiarità di «Nuovi Argomenti» sta forse nel fatto che non essendo una rivista – almeno nella prima serie, quando le inchieste si sviluppano – né puramente letteraria né politicamente schierata, attraverso queste indagini a più voci ricerca la messa in luce del punto di vista di tutti, pro e contro per intenderci. Però finisce comunque per emergere una linea generale, provocata, giocoforza, dall’orientamento delle personalità che la gestiscono: le inchieste sviluppate tra il 1953 e il 1964 sono approntate principalmente da Moravia e quindi risentono chiaramente, nell’impostazione delle domande, del suo personale punto di vista, così come, più tardi, la contestazione studentesca sarà filtrata sia dal suo sguardo che da quello di Pasolini.
Veniamo più propriamente alla domanda. Sono tre ordini di fattori molto diversi:
1) la letteratura svolge un ruolo sociale perché nonostante tutto – e direi per fortuna – ha un posto nella formazione degli studenti, capace di affinare le loro abilità di comprendere sé stessi, gli altri, e il mondo che li circonda;
2) la letteratura può riflettere e insieme contestare il sentire comune: quanti libri trattano dell’orizzonte nostro contemporaneo restituendocelo così come lo scrittore lo esperisce e quanti altri, invece, denunciano i limiti e i problemi della nostra società? Naturalmente, l’una cosa non esclude l’altra – dovremo semmai vedere che cosa sopravviverà nel futuro rispetto alla produzione esponenziale in cui siamo immersi, forse è questa la vera sfida;
3) quanto a una letteratura che smuova le masse, direi che siano piuttosto gli/le influencer che spingono migliaia di persone a determinati comportamenti, siano essi di acquisto o di schieramento ideologico, purtroppo. Il mondo però è sempre stato in cambiamento, occorre, almeno per quanto mi riguarda, coglierne i lati positivi. E ci sono, sempre. Basta saper guardare con attenzione, senza essere prevenuti.


Il dibattito critico dovrebbe essere caratterizzato da apertura al dialogo. Trova che vi sia questo tratto nella esplicazione della critica letteraria contemporanea?

Ma l’apertura al dialogo è chiaramente caratteristica del nostro settore o comunque dovrebbe esserlo. Le prospettive che interagiscono le une con le altre non possono che portare un valore aggiunto alla ricerca, almeno per come la penso io. Poi è normale che nel corso dell’esistenza ciascuno di noi abbia a che fare con docenti e professori più o meno aperti alla discussione; ovviamente, ci sono anche coloro che tendono, anche in modo implicito, a importi il proprio punto di vista, la loro metodologia o un’idea precisa di svolgimento della ricerca. Ecco, se vogliamo, questa impostazione la condivido decisamente meno, nel senso che a mio avviso sono proprio idee e metodologie diverse a portare ricchezza e varietà all’interno dello studio. Le faccio un esempio, per capirci meglio: io mi sono formata e ho trascorso una decina di anni all’Università da Bologna, e quindi in un ambiente necessariamente permeato dalla critica e dall’impostazione metodologica di Ezio Raimondi, però, quest’anno – anzi, in realtà sono un paio d’anni che frequento l’Università Statale di Milano – mi si sono aperte nuove prospettive, soprattutto grazie agli studi di Spinazzola che mi hanno suggerito i professori di letteratura italiana contemporanea di Unimi; un orizzonte nuovo perché Spinazzola aveva un’idea della letteratura molto più inclusiva, secondo la quale si possono – anzi si devono – studiare anche libri di consumo, opere divulgative, senza nessuna preclusione per alcun genere considerato marginale (giallo, rosa, fumetto…). Le pare poco? A me no. Tra l’altro ha dimostrato una grande generosità intellettuale, non affatto scontata né per la sua generazione né tantomeno per l’Accademia, come dimostra il fatto che è stato uno dei pochi che ha creato veramente una scuola di studiosi che si stimano e vanno d’accordo fra di loro. Questi incontri ti obbligano a mettere in discussione il mondo che conoscevi prima, ma accogliendo e facendo interagire gli aspetti positivi dell’uno e dell’altro non si può che giungere a un arricchimento.
Ci sono poi altre prospettive di dialogo che sono quelle tra discipline diverse. Anche da questo punto di vista credo che mettendole in relazione non si possa ottenere altro che un miglioramento delle capacità di analisi. L’interdisciplinarità non mi dispiace affatto, anzi, rispetto a studi iperspecialistici tendo a preferirla, ma parlo sempre di interessi metodologici personali, la letteratura non è matematica, per fortuna.
Da ultimo, ma è quello che più mi sta a cuore fra tutti, il dialogo fra generazioni diverse, in particolare quello con gli studenti. Da qui, dall’interagire con loro, secondo me nascono le ricerche più interessanti. Le occasioni in cui tengo delle lezioni lo scambio di opinioni e idee con gli studenti è fondamentale, anche con la discussione, perché no: trovo molto stimolante interagire con prospettive diverse dalle mie, anche se proposte da interlocutori ‘inesperti’, perché sono in grado di mostrarmi sfumature che fino a quel momento non avevo visto, fino, talvolta, a farmi cambiare del tutto idea. Dovremmo essere meno dogmatici e meno egoriferiti quanto trattiamo di letteratura. Perché sono più giovani e hanno studiato meno anni rispetto a noi non hanno nulla da insegnarci? Non mi sembra, personalmente imparo moltissimo dal confronto con loro e sono fiduciosa rispetto alle loro capacità, sono generazioni nuove come lo siamo state tutte. Lo stesso vale per il dialogo con i colleghi; purtroppo, l’ambito letterario molto meno rispetto a quello scientifico sviluppa ricerche di gruppo: sì, ci sono i gruppi di ricerca, ma lei ha mai sentito di un progetto di dottorato svolto da due o tre studenti insieme? Io mai, almeno finora. A matematica, agraria, fisica, non si contano. E in questo per me sbagliamo. Una ricerca come quella che ho svolto io, trent’anni di storia di una rivista come «Nuovi Argomenti», è un progetto il cui esito migliorerebbe se invece che un individuo singolo ci lavorasse una quadra? Secondo me, sì, eccome. E sarei stata anche molto felice di condividerlo. Spero che negli anni futuri ci apriremo a queste impostazioni di lavoro che forse prendono in prestito più dall’ambito scientifico, ma non per questo risulterebbero meno efficaci. Per il momento cerco di spronare al massimo un lavoro d’équipe con tanti amici e colleghi sparsi in tutta Italia; siamo un gruppo molto compatto in cui non c’è competizione fra di noi e ci tendiamo la mando vicendevolmente – ho perso il conto degli articoli scritti a quattro o anche sei mani. Se sapremo mantenere le basi che abbiamo costruito fin qui, e se avremo la fortuna di poter continuare questa strada un domani, restituiremo agli studenti un ambiente accademico mi auguro migliore di quello di oggi. Del resto, siamo molto giovani, e quindi per forza un po’ idealisti. Chi non voleva da giovane cambiare le cose?


Linguistica, filologia, storia letteraria, storia della critica, letterature comparate. Come si intersecano nell’italianistica le discipline in cui si articola lo studio specialistico della letteratura italiana?

Tutte le discipline di cui lei parla è naturale che si articolino nello studio specialistico della letteratura italiana e certamente lo fanno in modo differente: ogni disciplina è in grado di mettere in luce peculiarità diverse di un testo, o sbaglio? La linguistica lo fa per indagarne le strutture espressive, la storia della critica delinea le dominanti interpretative nel corso del tempo, la comparatistica si occupa delle connessioni fra le letterature… sto semplificando e dicendo delle ovvietà, ma il nocciolo è che tutte queste discipline apportano un valore e un grado di comprensione aggiuntivo ai testi, l’oggetto delle nostre ricerche. Più strumenti abbiamo a disposizione, più ampia e articolata si fa la proposta di studio che possiamo offrire. È tanto importante sia il focus minuzioso quanto la prospettiva di ampio respiro, ognuno scelga la strada che preferisce.


L’espressione inglese Italian Studies, in uso nelle università anglosassoni, interpreta correttamente l’oggetto d’indagine dell’italianistica oppure reputa che sia manchevole?

Non direi che questo approccio all’italianistica sia manchevole, direi semplicemente che sia diverso. Lo è per forza di cose, perché noi studiamo letteratura italiana da native speaker e quindi non abbiamo l’ostacolo linguistico che si inframmezza fra noi e la comprensione del testo, e nemmeno quello della contestualizzazione – o, almeno, lo abbiamo solo quando si tratta di testi molto lontani nel tempo da noi, come può esserlo l’epoca medievale, ma con il Novecento questo scoglio non si presenta. Nel mondo anglosassone, ma certo anche in Francia perché parliamo di études italiennes equindi qualcosa di non molto diverso dagli Italian Studies. Parlo per esperienza: ho avuto modo di studiare quasi due anni tra la Sorbona e la Scuola Normale Superiore di Lione e anche di fare un viaggio di un paio di mesi negli Stati Uniti in cui ho visitato una decina di campus (curiosità personale, volevo vedere come viene studiata l’italianistica oltreoceano e conoscere, dialogare con studenti e dottorandi per capire come la loro esperienza potesse essere diversa dalla mia). Nelle realtà al di fuori di quella italiana, dicevo, ti confronti necessariamente con una lingua straniera, perché per loro l’italiano lo è. Io ho studiato lingue alle scuole superiori e anche in triennale, comprendo benissimo: le opere di Proust e Shakespeare le ho lette rispettivamente in francese e in inglese, ma secondo lei senza mai utilizzare il dizionario? Quindi è scontato che il livello degli studenti, almeno inizialmente, non sia lo stesso di quello delle nostre università perché, in primis, bisogna metterli in condizione di imparare bene l’italiano, ma anche di prendere dimestichezza con la nostra cultura, che è qualcosa di molto lontano rispetto al mondo in cui vivono loro – meno, se vogliamo, se ci muoviamo nei confini francesi. Con Italian Studies si intendono quindi studi più latamente culturali, di conseguenza sono meno privilegiate le prospettive più ‘tecniche’, passatemi il termine, di approccio al testo (linguistica, filologia ecc.), vengono preferite analisi di più ampio respiro e a carattere interdisciplinare. Questa è un’altra peculiarità che ho potuto constatare: piuttosto cinema, musica e arte, perché questo fa parte della cultura tout court di un paese. Non è un approccio lacunoso, è una prospettiva trasversale perché si rivolge a un pubblico diverso da noi, con capacità altrettanto differenti dalle nostre. Non per questo però ci sono meno possibilità di crescita: quando uno studente raggiunge un determinato livello si può avvicinare poi, piano piano, a indagini più specialistiche, ma è normale che durante quelle che noi chiamiamo lauree triennali e magistrali gli studenti stranieri abbiano bisogno di recepire attraverso uno spettro più ampio la letteratura italiana. Anzi, direi che forse la prospettiva interdisciplinare le può dare un valore aggiunto. L’ho sostenuto già prima: in Italia si tende meno a lavorare su questo aspetto, viene un po’ guardato con sospetto, ma a mio parere possono nascerne dei lavori interessanti. Un ultimo punto: i dottorandi in Italian Studies che ho incontrato all’estero svolgevano tutti lezioni agli studenti, per loro è normale non dedicarsi soltanto al progetto di ricerca ma anche all’insegnamento. Questo è, a mio avviso, un punto assolutamente a loro favore, per me risultiamo noi ‘manchevoli’ da questo punto di vista. In Italia – a meno che tu non abbia la fortuna di farne quattro o cinque di lezioni durante i tre anni del dottorato – è molto difficile. E invece per me è importantissimo: noi non siamo e non saremo chiamati a fare solo ricerca, ma anche e soprattutto didattica. Per la verità, questo lavoro, così come gli altri, ha varie sfaccettature, e credo che sia giusto nella formazione di un dottorando – che si presume andrà poi a svolgere il mestiere di professore – essere messo alla prova in tutte le declinazioni possibili: didattica, correzione di tesi, organizzazione di convegni… Il rischio è trovarsi con dei dottorandi che siano preparatissimi nello studio, ma con scarso senso pratico. Ci sarà tempo di affinarlo dopo? Sicuramente. È secondario? Certamente. Ma per quanto mi riguarda, prima si acquisisce meglio è: tengo moltissimo al fatto che gli studenti imparino sin da subito a destreggiarsi con norme redazionali diverse, indici dei nomi, aspetti organizzativi, stesure di recensioni e primi articoli. È un lavoro a 360 gradi, nulla è da trascurare. Molti professori la pensano diversamente, ma è giusto che ognuno sia libero di impostare il suo metodo di insegnamento come crede. Intanto, le studentesse che ho preparato per i concorsi di dottorato sono risultate tutte vincitrici con borsa, quindi forse questa impostazione non è poi così sbagliata…


L’indagine sul ruolo degli intellettuali è apparsa sempre allacciata alle questioni relative ai rapporti tra sapere e potere, tra pensiero e azione, tra teoria e pratica, tra utopia e realtà. È corretto affermare che l’intellettuale debba essere considerato, a questo punto, un attore sociale senza alcun futuro, esclusivamente un’orma del passato?

Non sono passatista, anzi, generalmente tendo a vedere i lati positivi nei cambiamenti, siano quelli della società o quelli del mondo della letteratura. E anche in questo caso, senza esprimere valutazioni, bisogna tenere conto del fatto che gli orizzonti sono cambiati molto rispetto a un tempo, sia nell’Università, sia nell’approccio allo studio della letteratura, sia rispetto a come viene considerato – lo metterei fra virgolette – l’‘intellettuale’ nella società. Direi che dobbiamo – e credo sia anche giusto – adattarci ai tempi nuovi. Se prima quello dell’intellettuale era un ruolo prestigioso ed era maggiore il dialogo, anche ai vari livelli, con la società, credo che ora il nostro compito sia piuttosto quello di formare la classe ‘intellettuale’, coloro che diventeranno un domani docenti, professori... Mi ricordo – e ricordo anche che mi stupì particolarmente – che, durante una chiacchierata, Massimo Raffaeli mi raccontava di come all’epoca, quando aveva studiato lui all’Università di Bologna, ci saranno stati, nel suo corso, una trentina di studenti in tutto. Trenta studenti li puoi preparare decisamente meglio rispetto ai due-trecento che ci sono oggi alla Facoltà di Lettere, i numeri sono aumentati esponenzialmente. Ma questo significa che forse non si debba più concentrarsi solo su un lavoro in verticale, pochi di altissimo livello, quanto piuttosto si dovrebbe cercare di alzare il livello di tutti e lì spendere il massimo delle nostre energie. Basta poco per non farli sentire solo un numero di matricola. E soprattutto basta poco ad accettarli per quello che sono, non saranno mai tutti uguali e alcuni hanno mezzi più scarsi a disposizione, ma quando sei in grado di fargli vedere quello che anche loro possono fare, ecco, lì tirano fuori delle energie che mi hanno veramente lasciato stupita. Questo aspetto l’ho vissuto: quando ho iniziato l’Università venivo da un istituto tecnico di provincia e peraltro con voti non troppo brillanti, i miei genitori si sono fermati alla terza media e a casa mia non c’erano libri, in più ho dovuto lavorare dal primo giorno fino a quello in cui ho avuto la borsa di dottorato. Bisogna quindi essere ben consapevoli del fatto che alcuni studenti partono molto più indietro rispetto agli altri, alcuni abbandonano gli studi perché i sacrifici sono troppi, perché significa rinunciare alle uscite e alle serate con gli amici, significa desistere dal comprarti quello che ti piacerebbe e dal partire per le vacanze, significa passare sui libri tutto il tempo che non passi a lavorare, ma significa anche che vuoi darti l’opportunità di avere una vita migliore grazie allo studio. Portare questi studenti fino in fondo è l’unico traguardo e l’unica vittoria, a mio avviso. Io ho trovato dentro me stessa una resilienza che non avrei mai creduto di avere. E ho resistito non certo perché l’ambiente sia facile – anzi, fosse solo per quello avrei lasciato perdere già tempo – ma perché voglio tendere la mano a questi ragazzi. E poi posso dirle che seguire le tesi ed essere lì quando si laureano per me è stata l’emozione più grande di tutte, soprattutto quando mi è capitata una studentessa con scarsissime possibilità. Quando ho visto pubblicato il mio primo libro non ho provato neanche la metà di quella soddisfazione. È solo questo che mi auguro per il domani, continuare a rappresentare per loro una possibilità, questa gioia non la eguaglierà mai nessuna pubblicazione nel corso della carriera.


Migliaia di scrittori, centinaia di case editrici, 82.719 le opere librarie pubblicate in Italia nel 2021. Tutti scrittori?

No, non sono tutti scrittori, ovviamente. O non sono tutti grandi scrittori – forse è questo che fa la differenza. Scriviamo troppo, ci sarebbe bisogno di meditare più a lungo su un testo, sia esso un romanzo o una raccolta di poesie ma anche un saggio universitario. Lei crede che ci sia tutto questo tempo a disposizione nel mondo di oggi? No, perché talvolta è facile criticare, ma occorre sempre contestualizzare. Lei li avrebbe a disposizione vent’anni per scrivere un libro? Per pensarci su, per riflettere, per studiare e ristudiare, per correggere, ricorreggere, rivedere? E nel frattempo? Nel secolo scorso c’erano professori universitari che scrivevano in tutta la vita un paio di volumi, alcuni sono libri che studiamo ancora oggi, meditavano anni sul proprio lavoro e il frutto lo si vede ancora oggi. Ora le spiego invece che cosa succede a noi, ma nel concreto, perché a ragionare in astratto si fa presto: per partecipare ai concorsi e diventare professori associati (e quindi avere un contratto a tempo indeterminato senza il quale è per esempio impossibile avere un mutuo) dobbiamo produrre all’incirca, vado a memoria, per letteratura italiana generale 17/18 pubblicazioni incluso un libro, indispensabili per concorrere all’abilitazione nazionale. Il tempo stringe – considerando che il dottorato lo finiamo alla soglia dei trent’anni – soprattutto per una donna, nell’ottica sacrosanta di avere una famiglia con dei figli. Sostanzialmente ci si prospetta un precariato che rischia di non finire più, con assegni di ricerca da dodici o ventiquattro mesi non sempre nella stessa sede (e allora bisogna essere disposti a viaggiare continuamente o a trasferirsi ogni volta), a meno che queste 17/18 pubblicazioni non si facciano in fretta. Quindi le garantisco che io ho scritto, e anche tantissimo, ma avevo una scelta diversa da questa? Ci ho pensato, ma non mi è parso. Ho cercato di fare il massimo studiando e lavorando anche la sera, e il sabato e la domenica, ho fatto del mio meglio nel poco tempo che io, e tanti altri come me abbiamo effettivamente disposizione, mi è sembrata l’unica via percorribile. Le sto parlando davvero in maniera molto franca, avrei potuto sostenere quanto sia importante prendersi sette o otto anni dopo il dottorato per pubblicare piano piano i frutti delle ricerche – che è quello che sarebbe giusto –, ma questo è il mondo reale di oggi. Coloro che intraprendono questa strada o sono disposti a fare delle rinunce (che poi è giusto rischiare di dover rinunciare a una casa o un figlio?) oppure hanno tanti aiuti dalla famiglia, possono permetterselo insomma. Questa diventa alla lettera discriminazione, dovremmo essere messi tutti quanti nelle condizioni di scrivere un solo articolo all’anno e di prenderci tutto il tempo che lo studio richiede. È necessario, dopo il dottorato, avere contratti più lunghi con uno stipendio fisso e una sede stabile, solo così potremmo smettere di correre su e giù per l’Italia e magari A) smetteremo di scrivere ‘troppo’ e B) riusciremmo a programmare la nostra vita, cosa che certo non possiamo fare con contratti di dodici mesi senza sapere se quell’anno l’assegno lo vinceremo né tantomeno dove, se a Trento o a Messina, per esempio. È facile, ripeto, da una posizione diversa dirci che un domani, rileggendoci, ci renderemo conto che i nostri lavori non erano al giusto livello perché abbiamo scritto troppo in fretta. Ma poi, in ogni caso, sono comunque in disaccordo: ogni libro è frutto della maturità del momento in cui lo sviluppiamo, nel nostro lavoro pubblicare una ricerca a trent’anni non è come farlo a sessanta, e non vedo perché dovrei o dovremmo vergognarci. L’unica cosa di cui ci renderemo conto in futuro è semmai di come e quanto siamo cresciuti dall’inizio del percorso. Mi pare già un buon risultato: crescere, maturare, ritornare sul passato e correggere gli errori. In definitiva, quindi, come vede, alla critica letteraria in ottica accademica finisce per succedere qualcosa di molto simile a quello che si verifica nel mercato dei romanzi o della poesia: una sovraproduzione. Se non possiamo cambiare questo sistema, l’unica cosa sensata da fare mi pare che sia adattarci facendo al meglio delle nostre capacità, senza per questo essere giudicati. Possibilmente.
Quanto al fatto che si scrive molto di più in generale, è un fenomeno che deve necessariamente essere letto in maniera negativa? Anche qui, vediamo di mettere un po’ in discussione i preconcetti che abbiamo, c’è un lato positivo: tante persone scrivono libri, poesia o narrativa (il genere non è importante), ma avveniva lo stesso in passato? Non mi pare. È solo ed esclusivamente un male? A me fa piacere che le persone sentano la necessità di scrivere, è una buona cosa per la letteratura, ci sarà pure qualcosa di rilevante. Mi piacerebbe, però, che tutte le persone che scrivono fossero anche persone che leggono – con questo, attenzione, non sto implicitamente dicendo che se leggessero di più scriverebbero meglio, sto dicendo che scriverebbero con più consapevolezza di quello che è stato fatto e di quello che loro, ma tutti noi, siamo in grado di fare.


Se nei primi decenni del Novecento le tendenze dominanti furono quelle derivate dal positivismo e dallo spiritualismo franco-tedesco ruotanti intorno alle posizioni crociane, dalla metà degli anni trenta affiorò la critica "ermetica". Nel secondo dopoguerra ritrovarono vigore la filologia e il metodo storico, mentre il pensiero marxista ha attraversato l'intero campo della critica influenzandone vasti ambiti.
Quali tendenze ravvede?

Le attuali tendenze dominanti mi paiono quelle che vanno nella direzione, per esempio, dei gender studies e dell’ecocritica. Mi limito semplicemente ad aggiungere che, anche in questo caso, gli esiti possono essere più o meno efficaci a seconda delle capacità di chi li sviluppa. Per quanto mi riguarda, tengo per me l’insegnamento di Raimondi: è il testo che ti indica la via giusta da percorre e quindi l’abilità del critico sta nell’applicare efficacemente categorie di volta in volta appropriate e funzionali all’interpretazione di quel testo. Perché è solo nel testo che si trovano le risposte.



A cura di Afrodita Cionchin e Giusy Capone
(n. 9, settembre 2024, anno XIV)