Federico Fellini, un genio che fa scuola anche in Romania. Intervista al regista Doru Niţescu Doru Niţescu è regista e docente di regia di film presso l’Università Nazionale di Arte Teatrale e Cinematografica (UNATC) di Bucarest, dove, nel 2000, si è laureato e ulteriormente ha conseguito il dottorato di ricerca con una tesi su Federico Fellini. Nella stessa università ha svolto vari incarichi, fra cui quelli di segretario scientifico, vicerettore per le relazioni internazionali e vicepreside della Facoltà di Cinematografia. Dal 2000 ha lavorato come assistente alla regia, aiuto regista o regista principale a una serie di film romeni (cortometraggi, documentari, lungometraggi fra cui Niki et Flo, regia di Lucian Pintilie). I suoi cortometraggi hanno ricevuto numerosi premi a festival nazionali e internazionali, mentre il suo primo lungometraggio, Carmen (2013) è stato selezionato per vari festival cinematografici internazionali come quello di Sarajevo del 2013 o di Beijing e Göteborg del 2014.
Avevo 14 anni, è passato tanto tempo, eppure la sensazione di allora persiste ancora in me. Nel 1993 Fellini riceveva a Los Angeles l’Oscar per la carriera. Il momento è stato commovente: Fellini, sul palcoscenico, fra la Loren e Mastroianni, si rivolge alla sua celebre moglie dicendo: «Thank you, dear Giulietta, and please stop crying!». Questo momento emozionante l’avevo visto di persona, perché trasmesso dalla televisione romena. E nello stesso anno 1993 cominciavo a vedere i film del grande maestro, perché la stessa televisione gli dedicava allora un’ampia retrospettiva. Ho avuto modo di vedere allora, durante il liceo, La strada, Le notti di Cabiria, La Dolce Vita, Otto e Mezzo... e soprattutto E la nave va. Non posso dire che è stato questo film a decidere del mio destino, il mio destino l’ho deciso io. Ma il film mi ha rivelato un possibile destino, una possibile via da seguire. Che cosa è successo esattamente? Ho seguito E la nave va con l’animo sospeso, affascinato dal grandioso spettacolo, dalla simbiosi cinema-opera lirica, film muto-film parlato, film artistico e (falso) documentario d’archivio; e alla fine – l’ammaliante finale dove si svela il set con tutta la squadra cinematografica – mi sono detto «ecco, questo vorrei fare anch’io» perché quella immagine mi ha conquistato istantaneamente. E il fatto che dopo quella sequenza viene un’altra, con Orlando in barca insieme al rinoceronte, mi ha impensierito: non a caso, alla fin fine, il film, la finzione, arriva a sopraffare il suo stesso autore? Dopo ciò la questione è stata solo di scegliere, di convincermi e di perseverare. Certo, io ero sin dall’infanzia un cinefilo inveterato. Nella mia città natale, Câmpulung Muscel, frequentavo il Cinema «Ballata»; ogni film lo vedevo due volte, se non tre o quattro. Ero bambino e la mia passione era ancora piuttosto caotica, vedevo i film come venivano, non mi passava per la testa di sceglierli in base al regista, e nemmeno agli attori. Ora nell’ex-«Ballata» c’è un negozio di vestiti second hand. Ci sono passato qualche settimana fa e la sensazione di morte è sconvolgente: dall’intonaco cadente fino allo sportello murato della biglietteria di allora. Il cinema della mia infanzia non esiste più se non nei miei sogni. Ritornando però al 1993, dissi ai miei genitori che cosa mi proponevo di fare e loro mi hanno offerto subito tutto il supporto senza il quale non mi sarei incamminato per questa strada. Da quel momento sono diventato attento ai film che vedevo. Cioè ho cominciato a sceglierli. Lei afferma e dimostra nei suoi libri che Fellini, benché modello immortale, non ha avuto e non può avere discepoli. La prego di spiegare questo paradosso e ugualmente il fatto che lei, essendo professore, sottintende che la grande arte si può imparare. Infatti, è un paradosso. Ma introdurrei una sfumatura: Fellini ha discepoli (anzi ne ha parecchi e non solo nel cinema), però non ha continuatori. Ciò perché tutta la creazione di Fellini sta sotto il segno di un autobiografismo sofisticato. I film di questo enorme regista oscillano continuamente fra ricordo e presente, fra fantasia e realtà. La visione felliniana (non le visioni!) del mondo non può esistere in assenza del suo autore. Da qui la sua unicità. Ho detto che Fellini non ha lasciato dopo di lui una scuola, ossia una corrente artistica. Imitatori ne ha avuti (alcuni sono nostri contemporanei), ma il loro valore è di gran lunga inferiore all’originale. Per rispondere all’altra domanda, direi che una scuola di film, in quanto istituzione, come ogni genere di insegnamento, forma le competenze necessarie a esercitare una certa professione. Suona «burocratese», ma uso apposta questa formula. Una scuola non può formare talenti. Caratteri sì, talenti no. D’altronde, credo che la parola «talento» sia impropria, limitata, forse anche superata. In fondo che significa talento? Come decidere chi ha talento e chi no? Chi ne ha di più e chi ne ha di meno? O come si può sapere con esattezza se un giovane o una giovane di 18-20 anni hanno talento? E se poi, dopo dieci anni, uno che non consideravi di grande talento si rivela un grande cineasta? Sono domande che ormai mi faccio di continuo nel mio lavoro universitario. Ci sono arrivato interrogandomi su come sono io: ho osservato, per esempio, che quando si gira, io non mi rendo conto se un attore recita bene, ma mi rendo conto se recita male. E allora mi sono chiesto: si tratta di talento o di un’abilità acquisita tramite esercizio? Sin dai primi anni di facoltà ho osservato che certe cose le facevo con più agevolezza dei miei colleghi, mentre altre erano un vero tormento. E allora mi chiedo: che cosa è il talento? Certo, ora abbiamo il vantaggio di oltre cento anni di cinema e di teoria cinematografica, abbiamo a disposizione un linguaggio specifico – il linguaggio cinematografico, appunto – che ha le proprie regole. Esercitarsi è molto più facile ora che trent’anni fa. Oggi, se prediamo uno smartphone o una camera possiamo tutti filmare. Poi con un soft minimale possiamo legare le immagini e arrangiare il suono. Ed ecco che abbiamo ottenuto un piccolo film. In questo contesto non so se la «grande arte» esiste ancora. Nella sua definizione tradizionale, la «grande arte» era una zona destinata agli iniziati, ai pochi che avevano accesso a quella zona privilegiata. Oggi le cose sono più aperte, il film è diventato un prodotto alla mano, come il popcorn (al quale, per altro, pare sempre più legato). Non è una cosa cattiva. In questo modo molti hanno accesso a quello che, in passato, era uno spazio esclusivo. Credo che per un autore cinematografico la camera da presa non dovrebbe essere diversa da quello che è la penna per uno scrittore. La camera non è, in sostanza, se non uno strumento da scrivere. Certo, nel film si scrive con la luce. In occasione di un workshop nella nostra facoltà, Cristi Puiu ha usato una metafora che mi sembra molto espressiva: la cinecamera è un oggetto misterioso che ha due occhi, uno guarda la realtà che gli sta di fronte, l’altro la mente dell’autore. E solo un intermediario! Ritornando alla prima parte della domanda, il film è fatto dall’autore, non dalla camera, e quando l’autore cambia, cambierà anche il film. E quando l’autore scompare, con lui scompare anche il suo mondo. I film di Fellini, ha scritto, devono essere visti più volte: sia perché esercitano un fascino che attrae, sia perché si ha la sensazione di non averli afferrati la prima volta, di doverci ancora lavorar sopra. È questo un cinema di élite che si oppone al cinema di consumo, quello, per dire così, «usa e getta»? E se è così, non corre il pericolo di «museificarsi» e di scomparire dalla nostra vita? Credo che le due forme di cinema hanno ruoli diversi e diversamente devono essere trattati. Non puoi tenere nello stesso cassetto un libro da leggere in metropolitana e un altro che rileggi ripetutamente per scoprirlo e per scoprire te stesso. Io credo che le vere opere d’arte (e non parlo solo di film) hanno questo di specifico, che si rivolgono a ciascuno di noi in un modo estremamente personale, come se dicessero quella storia solo per noi. Mi chiede se i film sono in pericolo di museificazione. Credo di sì, come tutte le opere d’arte, e questo è anche il maggior rischio che corre il film d’autore. Nella mia università organizziamo ogni settimana l’evento chiamato «Cineclub Film Menu» che si propone di opporsi a questa tendenza: spettatori di vario genere e di varia formazione si riuniscono per vedere e – molto importante – per discutere film considerati classici oppure rari. Ma è interessante analizzare i cambiamenti del film, per esempio l’informazione audiovisiva in rapporto alla durata del film a partire dalla fine della seconda guerra mondiale: un film che ora dura novanta minuti, a quei tempi sarebbe durato tre ore se non di più. L’evoluzione del film è affascinante e insieme sconcertante: in solo cento e più anni il film è stato dichiarato più volte morto, ma è risuscitato sempre, si è sempre riinventato, così che, museificato o meno, continua la sua strada. Dalle dichiarazioni dei collaboratori di Fellini traspare spesso il rimpianto o la rabbia che la televisione sta fagocitando il cinema. Fellini aveva in merito – lei segnala – un atteggiamento non dogmatico, bensì ironico e ambiguo. Dai tempi di Fellini televisione e cinema sono cambiati: come si presenta oggi questa lotta nel campo del film? Credo che il momento della lotta sia passato e siamo entrati nella fase della complementarietà. La Tv è diventata un importante veicolo per il film, e il film è un girofaro lampeggiante per la Tv. In questo Fellini mi ha sorpreso all’inizio, ma poi, ʻconoscendoloʼ meglio, ho capito che era un autore paradossale, e che non lottava contro la televisione in quanto tale, bensì contro un certo suo effetto sugli spettatori, contro un certo stile di vita passivo promosso da molte Tv. Verso la fine della sua carriera, mentre i cineasti italiani guerreggiavano contro gli inserti pubblicitari nei film, Fellini ha girato più spot pubblicitari (gli interessati li trovano in internet). Il paradosso, in questo caso, è che Fellini era contemporaneamente una delle voci più sonore nel coro dei contestatori. Questo comportamento atipico e apparentemente contraddittorio mi ha confermato la modernità e il visionarismo di questo grande artista. Nelle sue analisi felliniane si riferisce spesso ad altri grandi registi italiani. De Sica, Visconti, Antonioni, Pasolini, per fare solo i nomi maggiori, hanno segnato, insieme a Fellini, un’epoca ben precisa della cinematografia mondiale: la generazione aurea del film d’autore. L’esplosione della cinematografia avvenuta in Romania negli ultimi decenni potrebbe indicare una simile generazione? Credo che il cinema italiano del dopoguerra ha conosciuto un periodo simile al Rinascimento. Rimane un fatto unico e misterioso come mai tutti questi autori sono apparsi simultaneamente. Una tale concentrazione non può essere solo effetto del caso. Purtroppo nella cinematografia romena il momento 1989 non ha segnato una rinascita ma solo un albore: il ritorno del «figliol prodigo» Lucian Pintilie (con i suoi film degli anni ’90: La bilancia, Un’estate indimenticabile, Capolinea paradiso) e l’apparizione di qualche altro film interessante dei registi consacrati. Ma questi pochi momenti di ispirazione si alternavano a tanti altri film di poco valore. L’esplosione di cui parla è avvenuta dopo il 2001 (anno del lancio di La merce e il denaro di Cristi Puiu). Gli anni ’90 sono segnati piuttosto da ambiguità e da grandi oscillazioni fra film eccezionali e film del tutto scadenti. L’ironia è che anche dopo il 2000 e persino dopo il 2010, quando la cinematografia romena ha toccato il suo massimo riconoscimento, noi ʻsiamo riuscitiʼ a continuare a produrre un numero costante di catastrofi cinematografiche. Non pretendo che tutti i film siano perfetti, ma se penso al cinema italiano degli anni ’50-’60 mi vien da credere che ogni capolavoro deve essere controbilanciato da un «antifilm». L’abilità consiste nel non proiettarli contemporaneamente nelle stesse sale, per non rischiare, come nell’incontro della materia con l’antimateria, una formidabile esplosione che annulli tutti e due. Quanto all’attuale apogeo del film romeno persistono due domande senza risposta: perché il film romeno non gode nel nostro Paese dello stesso apprezzamento e supporto di cui gode all’estero? E perché le politiche culturali nazionali (così approssimative come sono) non riescono a sfruttare lo straordinario successo del nuovo cinema romeno? Nel nuovo cinema romeno sono rintracciabili fonti straniere, forse anche i grandi autori italiani già menzionati? O questa nuova cinematografia è un prodotto prevalentemente autoctono? Il cinema romeno ha oscillato sempre fra modelli di importazione e la ricerca di uno specifico nazionale. Ho l’impressione che tale specifico, tale nota individuante sia stata sfiorata ma poi persa. I cineasti romeni hanno testato vari metodi, varie formule visive, vi sono tornati, poi le hanno abbandonate, e lo specifico romeno è rimasto indefinito. Certo, oggi ogni cinefilo potrebbe nominare alcune caratteristiche della cinematografia romena come, per esempio, l’umorismo nero, l’approccio realistico, il ritmo atipico del costrutto visivo ecc. Nella storia del cinema romeno troviamo moltissimi film con tali caratteristiche: quelli di Lucian Pintilie, alcuni film di Dan Piţa, Alexandru Tatos, Stere Gulea e quasi tutti di Mircea Daneliuc e di Iosif Demian, per fare solo alcuni nomi. Questo «stile romeno», fortemente cristallizzato nell’ultimo decennio, ha conquistato ormai una fama internazionale. Nel gennaio del 1990 il critico cinematografico Manuela Cernat realizzava un’intervista con Federico Fellini per la nuova rivista romena «Cinema», e a quell’occasione il grande regista suggeriva al film romeno una possibile direzione: quella dei neorealisti italiani del dopoguerra. La sua esortazione non è stata seguita allora e sono passati molti anni fin quando ha portato a una direzione organicamente nata, nella discendenza del direct cinema; perciò possiamo dire che l’esplosione del cinema romeno dopo La morte del signor Lăzărescu è piuttosto il risultato di una serie di convulsioni che avrebbero potuto portare persino all’agonia e alla morte de nostro cinema, specie perché i responsabili della cinematografia romena non si sono mai interessati alla qualità dei prodotti che finanziano, bensì solo alle scadenze previste nei contratti. Dove va oggi, a suo parere, la cinematografia romena? E quella mondiale? Credo che in questo momento non si può parlare di un’industria cinematografica romena ma di singole individualità: autori che creano capolavori in uno spazio culturale che rifiuta ogni forma di organizzazione. Stilisticamente parlando, credo che il nuovo cinema romeno si sta riinventando e diversificando, conservando però certe costanti che lo rendono riconoscibile. La cinematografia mondiale, invece, comprende tante cinematografie indipendenti che a loro volta comprendono tante correnti e direzioni che mi pare impossibile predire il futuro. Ma sia che i film saranno digitalizzati, con o senza effetti speciali, sia che ritorneranno alla pellicola (che sembra essere la tendenza recente), noi dovremmo differenziarli nelle solite due grandi categorie: film buoni e film scadenti.
Intervista realizzata e tradotta da Smaranda Bratu Elian
(n. 4, aprile 2015, anno V) |