Con Domenico Corcione sull’arte di Angelo Mozzillo, esponente del Settecento campano

Domenico Corcione, storico, autore di pubblicazioni di storia locale e regionale e di articoli storici su riviste specializzate. Laureatosi in Storia medievale con una tesi sul culto micaelico, ha curato un blog di storiografia, Vetus et Novus, dal 2014 al 2024. È curatore del primo Catalogo d’arte (2024) sulle opere del pittore Angelo Mozzillo (Afragola, 1736 – Nola, 1810), artista eclettico del Settecento campano, autore di oltre 170 dipinti custoditi fra Campania, Puglia, Calabria e Sicilia.


Angelo Mozzillo può essere reputato uno dei massimi esponenti del Settecento campano.
Ebbene, quali sono i principali temi su cui si concentra la sua opera pittorica?

Mozzillo concentrò la propria produzione su due distinti filoni iconografici, ciascuno legato naturalmente alle diverse committenze lavorative: uno religioso, per le clientele ecclesiastiche, l’altro grottesco, per quelle laiche. Nel filone religioso, hanno preminenza i temi legati alla devozione mariana e micaelica. Il secondo Settecento è infatti interessato dalla rivalutazione dell’iconografia della madre di Gesù, nelle sue diversificate declinazioni (Madonna Immacolata, Addolorata, Assunta, Regina del Purgatorio), in merito al ruolo intercessorio che la Chiesa le attribuisce per il condono della pena delle anime purganti, assieme a san Michele Arcangelo.
Riguardo i temi laici, il maestro di Afragola è stato chiamato ad abbellire volte, pareti e porte con temi naturalistici o di richiamo neopagano gli appartamenti di rappresentanza di numerose famiglie del patriziato campano: pensiamo alle volte del piano nobile del castello di Ottaviano, all’epoca residenza di un ramo minore dei principi della famiglia de’ Medici, o di palazzi privati in Nola.


Professore, Lei ne ha seguito per la prima volta le tracce e ne ha ricostruito il corpus delle opere.
Come si integra la produzione neoclassica di Mozzillo con le peculiarità della vicenda biografica?

Pur in assenza di una biografia dettagliata e storicamente fondata dell’artista, possiamo seguire le linee evolutive della sua produzione e porle in parallelo alle sue vicende personali.
La sua prima tela nota, il San Giorgio che abbatte il tempio di Apollo, risale al 1758, quando aveva 22 anni e risiedeva ancora in Afragola. L’opera risente del pesante retaggio solimenesco della generazione precedente, sia riguardo il modello iconografico sia per la tecnica raffigurativa vera e propria (disposizione spaziale, pennellata larga e densa, cromia calda e abbondante).
Con il trasferimento a Nola, negli anni Sessanta del secolo e sotto la protezione del vescovo Filippo y Rojo, Mozzillo giunge al matrimonio. Arrivano i primi figli, c’è la necessità di unire alla qualità delle sue opere (che l’avevano fatto notare dal potente prelato) anche la velocità di produzione: troviamo così pitture, in tela o ad affresco, più corali e meno raccolte, notevolmente più luminose, e in cui le architetture di sfondo quasi scompaiono.


Tutta la sua produzione, apprezzata per la celerità di realizzazione, fu incentrata sulle rappresentazioni sacre e sulla reiterazione di motivi e di soggetti quasi identici fra di loro.
Si può ipotizzare l’utilizzo di «cartoni»?

Certamente. L’uso di cartonati, con figure già disegnate in posizioni fisse o diverse per velocizzare la realizzazione dell’opera, era abbastanza diffusa presso le botteghe d’arte fin da due generazioni precedenti il maestro di Afragola. Questi «negativi» venivano utilizzati per tele di impianto corale, per consentire agli allievi di dedicarsi ai personaggi minori dell’icona o preparare la spazialità del personaggio principale. Furono uno strumento fondamentale soprattutto per le committenze del filone religioso prodotte nell’ultimo periodo della lunga attività del pittore, dal 1793 in avanti, dopo l’exploit delle grandiose opere degli eremi camaldolesi di Napoli e Nola.


Come si pongono i dipinti di Mozzillo, emblematici dell’iconografia devozionale, nella specificità dell’arte settecentesca?

Il maestro di Afragola si pone come ultimo epigono della grande scuola rappresentativa del De Mattei e del Solimena. Dal primo riprende modelli e forme compositive, dal secondo l’esplosione cromatica e la profondità dell’ultimo quindicennio di attività. Più di altri artisti suoi contemporanei, Mozzillo riesce a portare avanti una sintesi fra i due stili, generandone uno proprio, apprezzato per i grandi scenari di sfondo e per la delicatezza dei volti dei personaggi. Il periodo storico in cui si trovò a vivere, fra ripresa della devozione mariana e giuseppina e l’indulgenza verso le esaltazioni paganeggianti, fra i conflitti giurisdizionali fra Regno siculo e Stato della Chiesa e la diffusione dei principi illuministici presso l’aristocrazia e la borghesia, con conseguente distacco dai canoni morali della Chiesa, lo rese caro sia ai privati – pensiamo alle figure grottesche che adornano la sala di rappresentanza di palazzo Palliola in Nola – sia agli Ordini religiosi – il ciclo delle Storie di San Francesco presso il convento di Santa Maria degli Angeli in Marano di Napoli fu una delle commissioni più importanti e prestigiose, che gli diede notevole fama.


In qual misura Mozzillo riflette la temperie culturale del tempo e quanto se ne discosta, assumendo tratti d’originalità e innovazione?

Mozzillo è piuttosto ripetitivo riguardo le committenze laiche private, con temi naturalistici, satiri, ghirigori barocchi, e possiamo dire che in ciò preferisce restare entro canoni rappresentativi soliti e fissati da altri. Riguardo invece il filone devozionale, Mozzillo innova, seppure non sempre felicemente. Accanto a opere in cui riprende quasi in copia lo stile solimenesco – pensiamo alla Flagellazione (1802) custodita nella chiesa di San Felice in San Felice a Cancello – senza discostarsi dalla moda imperante, troviamo rappresentazioni in cui il maestro cerca di introdurre elementi di originalità. Esempi di quanto detto sono l’Addolorata (1787), custodita nella chiesa di Santa Maria d’Ajello in Afragola, ove i personaggi osservano Gesù crocifisso che però è invisibile all’osservatore in quanto la croce è ritratta de recto, oppure il San Pietro (1807), conservato nella chiesa eponima di Massalubrense, ove il primo Papa è rappresentato con tratti giovanili, al pieno delle forze, e non nella vecchiaia, come era tipico dell’epoca.


Taluni reputano che l'Arte non prescinda dal tempo per interpretare semplicemente lo spirito della Storia universale e che ciononostante essa sia congiunta alla finalità delle mode e a qualsivoglia ambito del gusto. Quali direzioni, mete o deviazioni vede attualmente caratterizzare il panorama artistico italiano e internazionale?

L’arte segue lo spirito del tempo, non lo anticipa. E in un’epoca di febbrile protagonismo, di vita accelerata e costantemente connessa con tutto e tutti non per reale necessità ma perché è la moda del momento, perché è questo che il tempo attuale impone, l’arte risulta di conseguenza veloce, senza forma, quasi priva di corpo e sentimento poiché non vi è la meditazione necessaria per elaborare concetti. Più che di arte, per la nostra epoca parlerei di semplici raffigurazioni funzionali, prodotte cioè in funzione dello scarso tempo che oggigiorno si dedica alle corde più profonde del nostro essere. Lanciando uno sguardo d’insieme all’arte contemporanea, sento di affermare che, dopo Picasso, non è stato dipinto, scolpito, prodotto nulla degno di nota. E Picasso, un secolo fa, era anch’esso un figlio degenere dell’epoca a lui precedente.


Può commentare l’aforisma di Ernst Jünger: «Il mondo diventa sempre più brutto e si riempie di musei»?

Un museo è un luogo ove raccogliere i manufatti caratteristici di un’epoca. Li vedo come «stazioni del tempo» in cui ritrovare quanto prodotto da civiltà passate e prendere atto del progresso che ogni popolo o generazione ha compiuto nel corso dei secoli. Visitando un museo, viaggiando virtualmente nel tempo, cerchiamo di estraniarci dal grigio, caotico e difficile mondo esterno. Cerchiamo di ritrovare quella fiducia nell’umanità, quel bello storico che ci manca drammaticamente o che non riusciamo a percepire vivendo nel mondo contemporanea. Le strutture museali non sono inutili nel XXI secolo, come una certa cultura produttivistica da anni va ripetendo; semmai bisogna rendere più edotti i fruitori, che attraverso la soglia di un museo, di una pinacoteca, di una certosa spesso non avendo gli strumenti cognitivi necessari per apprezzarne il valore, cupidi solo di condividere una foto sui social con il terribile hastag #ancheioqui.


Professore, quali conoscenze possiede dell’arte romena?

L’arte rumena, ben prima della unificazione politica del Paese, ha sempre espresso esempi di sintesi fra istanze nazionalistiche, canoni devozionali (anche per la stretta connessione fra l’ortodossia e i movimenti politici nazionali) e temi di confine, stretta com’era fra i margini del Sacro Romano Impero prima e dell’Impero austro-ungarico poi, e il mondo musulmano d’Oriente. Per gusto e vicinanza ai temi «forti», mi sono interessato alla figura del pittore Theodor Aman (1831 – 1891) e ai suoi dipinti storici rinascimentali, un’epoca in cui le terre romene, frontiera del SRI, erano attraversate da eserciti stranieri e frementi di rivolta.


A cura di Afrodita Cionchin e Giusy Capone
(n. 6, giugno 2024, anno XIV)