Il puzzle che racconta: l'opera narrativa di Doina Ruşti. Un dialogo Doina Ruşti, nota soprattutto come scrittrice, è anche professore associato all’Università di Bucarest, consulente scientifico dell’Università Nazionale di Arte Teatrale e Cinematografica, sceneggiatore ed editore. Il romanziere Norman Manea chiama Doina Ruşti «un’eccellente narratrice, di grande intuizione e talento», mentre un’altra personalità di spicco delle lettere romene di oggi, Nicolae Breban, la chiama «un creatore di prima grandezza della nostra letteratura attuale».
Nel 2008, quando ho cominciato il romanzo, la stampa aveva un potere diverso da quello di adesso. Si era arrivati al punto che un solo articolo poteva annientare del tutto il prestigio di una persona. In quel dato contesto mi è capitato di leggere una notizia che mi ha turbata: una ragazzina di 11 anni aveva riempito tutto un villaggio di sifilide. Mi ha turbata non la terribilità dell’argomento ma l’indifferenza del giornalista. È così che ho cominciato a cercare la verità, una verità che fosse veramente mia. Vero: la cosa interessante in questo romanzo è che l’abuso sofferto da Lisoanca la libera da ogni pregiudizio morale e persino dalla morale stessa e le regala una totale libertà e purezza, un’autenticità nell’amicizia e una immediatezza nella relazione con la natura che saranno messe a repentaglio quando si vorrà «salvare» questa ragazzina. Tu credi che le «lisoanche», qualunque cosa faccia dopo la società, siano condannate all’infelicità? All’infelicità? No. Non credo che il mio personaggio abbia questa nozione. Ma credo che tutte le «lisoanche» sono condannate a diventare la popolazione maggioritaria di domani. Condannate loro, condannati noi! In molti dei tuoi romanzi, e penso per esempio a L’omino rosso, a Zogru, a Il fantasma del mulino, reale e fantastico si intrecciano e si assiste a un gioco col tempo che hanno suggerito ai critici un accostamento al realismo magico. Il termine, adoperato ora prevalentemente per caratterizzare la narrativa sud-americana, è, come probabilmente sai, di origine italiana: è stato coniato da Massimo Bontempelli e caratterizza un filone importante della letteratura italiana. Ti riconosci in questo filone? Non in quello italiano. La mia giovinezza è stata zeppa di narrativa sud-americana, donde anche la tendenza di continuare per la stessa strada e di superarla. Ma la mia prosa fantastica si costruisce su basi cartesiane. Io stessa funziono in base al convincimento che ogni mistero ha una spiegazione semplice. Perciò nei miei racconti fantastici, a dispetto dell’atmosfera o degli accadimenti che apparentemente contraddicono la realtà, esiste sempre una spiegazione, anche se non palese. Fra i miei racconti ve ne è uno che esemplifica forse meglio di ogni altro il mio tipo di fantastico, diverso da quello del Novecentio italiano. È il racconto Il cinema del mall, pubblicato qualche anno fa sulla rivista «România literară». Si tratta di un adolescente che va a vedere un film e quando esce dal cinema scopre che è diventato vecchio. Per molti anni poi, cercando di spiegare il mistero, si crede vittima di extraterrestri o comunque di esseri sconosciuti. La sua vita acquista per lui una dimensione fantastica, la realtà diventa strana. Ma un bel giorno legge in internet di una vietnamita cui era capitata la stessa cosa e che, sebbene molto giovane, mostrava di avere quasi 80 anni. A differenza di lui, la vietnamita però aveva scoperto che si trattava di una malattia e sapeva quali erano le sue cause. Liberato quanto deluso, il mio personaggio smette di cercare extraterresti e si fa tatuare sul braccio il nome della vietnamita, sua sorella nella malattia. Il caso della donna asiatica è reale. La donna si chiama Nguyen Thi Phuong e notizie su di essa si trovano in internet. Tale è il mio fantastico. Quasi tutti i miei argomenti e personaggi sono reali, e i fatti inspiegabili sono solo in apparenza tali perché in verità hanno una spiegazione misurabile. Io non lascio passare nessun fatto fantastico senza suggerirne una causalità. Ma nelle altre opere mie queste cose sono forse meno ovvie. A proposito di questo fantastico cartesiano: ha una qualche relazione con le tue ricerche nel campo della simbologia? Certamente si prova un certo comfort a conoscere i nessi su cui si fondano i simboli, ma io, nella letteratura, ho sempre evitato di fare uso di elementi simbolici. Sinceramente parlando, ho sempre avuto paura di non sprofondare nell’atmosfera soffocante degli anni ’80, quando si era caduti tutti in criptomania. Perciò i nessi con la simbologia, se ci sono, sono casuali e filtrano il vissuto. Una notte ho sognato che mi trovavo davanti alla chiesa di San Silvestro, e qualcuno mi pregava di recitare l’incipit della prima bucolica virgiliana, e io mi ci accingevo pronunciando già il «Tityre, tu patulae recubans sub tegmine fagi» ma poi inciampavo. Una parola aveva vanificato tutto, tutto sfumava nelle tenebre del sogno, e quella parola era meditaris. Mi sono svegliata con il sentimento che l’universo mi mandava un messaggio; allora ho ricordato i casi clinici di Freud legati al lapsus. E, imbevuta di spiegazioni freudiane, ho scritto il racconto Accanto alla chiesa di San Silvestro (ora nel volume La camicia a quadretti...) che è una riflessione sul tempo ma anche sulla sottile atmosfera di borgo antico che quella chiesa racchiude in sé. Questa sorta di nessi mi libera, a volte, della nebbia esistenziale. Ma non mi sono mai messa alla scrivania decisa di presentare il simbolismo, per esempio, della cifra 21. Vorrei che ci parlassi ora di due delle caratteristiche che credo costanti nelle tue narrazioni: la costruzione modulare del testo e il gioco col passato. Cominciamo con la prima. Tu costruisci quasi sempre le tue narrazioni come dei puzzle: perché? Non hai più fiducia nella narrazione classica, tipo quella del romanzo ottocentesco? La senti superata? Sì, hai ragione. Sono due mie costanti. Mi piace scrivere dei puzzle, ma ho anche paura di rinunciare al racconto lineare. Perché so che non è superato. Perché un buon racconto non conta come lo si racconta. Ma è anche vero che in questo nostro tempo, persino per un lettore mediocre, i momenti della narrazione sono immediatamente prevedibili dall’intreccio. Perciò un racconto lineare buono è difficile da scrivere. Ma ciò non significa che non si possa scrivere oppure che sia morto o noioso. Uno che sa scrivere ancora un racconto lineare fresco è, per esempio, Baricco. A me però piace scrivere frammentariamente e così ho fatto il più delle volte. Amo la soddisfazione del lettore dei cruciverba, amo i gialli, amo Faulkner. Molto. E profondamente. E amo ugualmente montare dei filmati, assemblare le sequenze di una pellicola. Sono tutti questi piaceri che stanno alla base della mia propensione per una narrativa puzzle. Quanto al gioco col passato, tu spolveri epoche passate diventate quasi mito e le riporti nel presente tramite vari personaggi, non però in analessi, bensì facendoli rivivere concretamente in mezzo a noi e in noi. Quanto di questo gioco col passato viene dalla tua passione di curiosare negli scartafacci di un tempo e di assaporarne la lingua? E dato che parliamo di questo, ti prego di raccontare anche ai nostri lettori come è nato il tuo recente romanzo Il manoscritto fanariota (Polirom, 2015). Io ho la convinzione che la storia non consiste nei fatti del passato ma nel modo in cui essi sono stati «salvati». La mia prosa contiene qualcosa della mia costante paura che il filo sottile che lega fra di esse le epoche e le generazioni possa spezzarsi. A me piacciono le sintesi, adoro la visione d’insieme, il controllo di tutto il progetto. E ho una debolezza dichiarata per il Settecento. E come filologo mi interessano le parole resistenti, che, malgrado tutte le atrocità, hanno attraversato la storia fino a noi. Ritornando al mio più recente romanzo, Il manoscritto fanariota, esso rende in qualche centinaio di pagine una storia breve, travata in un documento autentico: un megleno-romeno, arrivato a Bucarest per fare fortuna, si innamora di una schiava zingara. Secondo le leggi romene del tempo, se se la sposa, lui diventa a sua volta schiavo. Il documento propone una soluzione di compromesso, né buona né cattiva. È una sola pagina, datata 1796, che comprende tutta la vita di un uomo. L’ho scoperta in un archivio ed è diventata un’ossessione. Il documento l’ho pubblicato sull’«Eighteenth Century Journal». Poi ne ho tratto la sceneggiatura di un film documentario per «Elefant Film» e Germaine Kanda. Stiamo ancora lavorando a questo film e abbiamo già avuto qualche riconoscimento, per esempio quello dell’«One World Romania». Ma per me né l’articolo scientifico né la pellicola, che seguono fedelmente il documento, potevano bastare. Il romanzo è un genere di ampio respiro e mi da quel sentimento di sicurezza a cui anela ciascuna anima umana. Ritorniamo ora alla nostra Italia. Come è arrivata ai lettori italiani la tua creazione e quali le tue soddisfazioni, frustrazioni e speranze al riguardo? Una vera soddisfazione mi hanno dato gli interventi su L’omino rosso. Credo che sia il più apprezzato dei tre romanzi pubblicati finora in Italia (Zogru, Lisoanca e L’omino rosso). Questo anche grazie alla fortuna di aver avuto un traduttore eccellente (Roberto Merlo) e molti amici. Il pubblico italiano è caldo e stimolante. E fra gli incontri memorabili per me con il mio pubblico italiano, ne menzionerei almeno due: uno a Roma, alla «Casa delle Letterature», dove la Fondazione Bellonci ha organizzato un incontro con un pubblico numeroso e informato, e l’altro, alla Biblioteca Municipale di Torino. Dico memorabili perché in entrambi i casi sono stata accolta con cordialità e interesse. Ma sono stata varie volte anche al Salone Internazionale del Libro di Torino, un altro posto fervido e stimolante. Una volta, trovandomi a Torino, qualcuno mi ha chiamato per strada gridandomi dietro «Zogru», che è il nome di un mio libro e del suo protagonista. Il quotidiano nazionale «Libero» mi ha affiancata ad insigni scrittori dell’Est, come Gospodinov. Venendo alle frustrazioni: non parlerei veramente di frustrazioni, ma ovviamente avrei desiderato di essere pubblicata da una casa editrice importante, con una maggiore visibilità e una più vasta distribuzione. Mi piacerebbe avere una seconda edizione di Lisoanca, nelle condizioni sognate da ogni scrittore: grandi tirature, vasta promotion, una più fedele traduzione; questa è una speranza che forse non è del tutto vana dato che fra i miei lettori italiani ci sono alcuni che costituiscono per me una preziosa e ripetuta spinta, quelli che hanno scritto dei miei libri in vari periodici e la cui opinione è per me importante. E colgo l’occasione per salutare, fra tanti, i cari Giuseppe Ortolano, Alessandra Iadicicco, Diego Zandel, Marco Dotti, Roberta Paraggio, Gianluca Veneziani. Intervista realizzata e tradotta da Smaranda Bratu Elian
(n. 3, marzo 2016, anno VI) |