«Nel tempo del conformismo, le anime libere non si piegano». In dialogo con Davide Bigalli «È una fase di crisi, lunga e non ancora risolta: quello che preoccupa è questa ʻidolatria dell’immagineʼ, questa concezione che si contenta di ʻeffetti di superficieʼ; una risorsa per fuoriuscirne è rappresentata dalla scrittura, giacché il lavoro filosofico è stato sempre fatica della scrittura, lasciare segni sulla tabula rasa, sulla sabbia del deserto. Lavoro squisitamente umano».
Lo sostiene il professor Davide Bigalli, dell'Università di Milano, che in questa intervista si soffferma in modo particolare sul ruolo della filosofia nella società e nella cultura contemporanea, senza trascurare le nuove esigenze di rapporto anche tra filosofia e teologia. Professor Bigalli, alcuni sostengono che la filosofia stia attraversando un momento di crisi che presagisce la sua fine, altri ritengono che si tratti di una forma nuova nella serie delle metamorfosi della filosofia nel corso del tempo? Lei cosa pensa? Ritengo il procedere per metamorfosi il segno di vitalità di ogni realtà, umana e non. E questo vale anche per la filosofia. Non prendiamo la fine delle «grandi narrazioni» per la fine della filosofia. Il pensiero filosofico mostra vitalità nel momento in cui si inserisce negli interstizi di una realtà che ci appare frammentata e a questa si articola, nello sforzo tentativo di riprodurre il più fedelmente possibile (in una disperata fedeltà) il respiro del reale e di dar conto di questo reale. Pensa si possa immaginare la storia dello spirito come una successione tra periodi dominati dall’ossessione del sistema e della completezza e periodi governati dal fascino del frammentario, dell’allusivo e dell’elittico? La scansione, come un respiro della storia del pensiero, tra momenti di compattezza sistematica e altri momenti dove la tensione, la non programmaticità della ricerca si traduce in una scrittura frammentaria, non è fatto nuovo. In questa prospettiva, si potrebbe pensare alla distinzione comteana tra epoche organiche ed epoche critiche. Ebbene, siamo da molto tempo (a partire da Nietzsche?) in un’epoca critica, dove la scrittura di filosofia deve seguire le sinuosità, le fratture di un mondo di incertezze, deve scontare la fine delle «grandi narrazioni». Il frammento potrebbe rappresentare una forma quasi clandestina di sopravvivenza della riflessione filosofica una volta constatata la morte della filosofia? Penso che sia necessario elaborare una cultura del frammento. In esso, come nei frantumi di uno specchio, si riflette comunque tutto il paesaggio circostante. Nell’attività del filosofare, una posizione «titanica» e non remissiva, sarà quella di individuare «regioni ontologiche» che possono costituire universi parziali, ma comunque pur sempre strutturati come universi, dai quali e nei quali cogliere la figura del mondo. Una civiltà dominata dall’idolatria dell’immagine, come quella occidentale in questo momento, ha ancora le risorse di riflessività per pensare in modo lucido alle questioni fondamentali? Credo che siamo d’accordo: è una fase di crisi, lunga e non ancora risolta: quello che preoccupa è questa «idolatria dell’immagine», questa concezione che si contenta di «effetti di superficie»; una risorsa per fuoriuscirne è rappresentata dalla scrittura, giacché il lavoro filosofico è stato sempre fatica della scrittura, lasciare segni sulla tabula rasa, sulla sabbia del deserto. Lavoro squisitamente umano. Al momento, come detto, questa scrittura deve assoggettarsi al respiro del frammento, in attesa, nella speranza, di nuove costruzioni. Il rapporto fra filosofia e teologia è uno dei noccioli del pensiero medioevale. Come funziona tale rapporto nel XXI secolo? Il rapporto fra teologia e filosofia, ai giorni nostri, risente del complessivo processo di secolarizzazione, avviato a partire dall’Illuminismo: la riflessione teologica, che pure annovera contributi assai validi (ma soprattutto in ambito protestante), si colloca in rapporto rovesciato rispetto alla medievale philosophia ancilla theologiae. Una aurorale eccezione può essere individuata nell’atteggiamento di Joseph Ratzinger, volto a ribadire e rivendicare un autonomo spazio di ricerca e di speculazione al pensiero teologico (pur con disperanti margini di compromesso), e così si distingue da una riflessione «teologica» contraddistinta dalla volontà di giungere a negoziazioni con il mondo della secolarizzazione, in una tensione di «aggiornamento» (un concetto che ora ritorna in una celebrazione anniversaria tristemente trionfalistica), che è stato apertura al mondo, certo, ma al mondo della iniquità capitalistica, alla morale borghese del denaro, che lascia gran parte dell’umanità in esso nella disperazione. Pensa che siamo minacciati dal trionfo della barbarie, che i fondamenti della nostra cultura rischino di essere distrutti, oppure c’è ancora qualche speranza? Richiamerei la frase di Hölderlin, per cui là dove è il male, là sorge il rimedio. Il circolo si chiude: nel momento in cui la barbarie sembra dilatarsi, sembra opprimere il mondo nella nauseabonda cappa del senso comune, delle idee che non sono tali, ma solo slogans, segni di riconoscimento e appartenenza tribali, ebbene, è il momento di proferire una semplice paroletta: no. Nel tempo del conformismo, è il tempo anche delle anime libere, che non si piegano e continuano, spes contra spem, a pensare, a votarsi al difficile lavoro della filosofia. Una prospettiva di isolamento: ma isolati come le scolte che dall’alto delle mura si interrogano: a che punto è la notte… nella convinzione che l’alba verrà.
Intervista realizzata da Ciprian Vălcan
(n. 1, gennaio 2013, anno III) |