Con Darwin Pastorin tra letteratura, cinema e fumetto

«Il mio pensiero va a Cesare Pavese che, da bambino, nella sua Santo Stefano Belbo giocava ai pirati malesi, immaginando di essere lui Sandokan. Insomma: il Padre degli Eroi sapeva mettere insieme ambientazioni realistiche con la bellezza dei suoi personaggi lucenti».
Il nostro viaggio nel mondo del racconto d’avventura prosegue con Darwin Pastorin, giornalista professionista e laureato in Lettere. È stato redattore de «Il Guerin Sportivo», inviato speciale e vicedirettore di Tuttosport, direttore di Tele+, direttore di StreamTv, direttore dei Nuovi Programmi di Sky Sport, direttore di La7 Sport e direttore di Quartarete Tv. Ha scritto numerosi libri mettendo insieme calcio e letteratura, calcio e memoria personale e collettiva.


Il protagonista del romanzo d’avventura si trova in una situazione in cui è costretto a dimostrare il suo valore, la sua capacità di deduzione e adattamento, la forza dell’istinto di sopravvivenza: ne va letteralmente della sua vita. Ebbene, in condizioni estreme, la natura umana è sempre buona?

L’immagine che abbiamo noi, soprattutto nella nostra prima giovinezza, è quella dell’eroe «giovane e bello», capace – anche da solo – di sconfiggere nemici numerosi, feroci, pronti a tutto pur di difendere il proprio regno del «male». D’altra parte, siamo cresciuti con i miti di Achille e di Ettore (vinto, ma per sempre sinonimo di coraggio e di bellezza), Ulisse (che ci ha insegnato ad avere, soprattutto, dentro di noi una Itaca da ritrovare), Enea, Orlando, Don Chisciotte e via continuando.
Per quelli della mia generazione (sono del 1955, nato in Brasile, figlio, nipote e pronipote di migranti veneti, e questa è stato il mio «viaggio avventuroso» arrivando in nave in Italia, tra realtà e sogno, speranza e nostalgia) il primo narratore a spalancare i cancelli della fantasia fu Emilio Salgari, ma del Padre degli Eroi parleremo più avanti. Certo, la natura umana, anche nel protagonista “senza macchia e senza paura”, cede, spesso, al colpo mortale, alla disfida finale dove solo uno uscirà vivo. Ma l’eroe del romanzo non è certo quello della favola per bambini. L’eroe del romanzo possiede una sua natura «tragica», ma necessaria. Perché il Nemico deve sempre soccombere.


Sandokan, Yanez, Kammamuri, Suyodhana, Teotokris, il Corsaro Nero, Wan Guld, Carmaux e Wan Stiller sembra di averli dinanzi agli occhi, con le loro vesti, rozze o raffinate, e le loro armi, sempre micidiali. In qual misura non è il rigore dell’ambientazione, ciò che colpisce nelle opere d’avventura bensì la caratterizzazione vivida dei suoi personaggi?

Qui entriamo nel vivo, per quanto mi riguarda, della discussione, di un esame letterario, filologico e antropologico. Emilio Salgari, più di Jules Verne, a mio parere, ha saputo racchiudere, con la sua stessa vita fatta di drammi e immaginazione, il senso del narratore capace di farci conoscere, attraverso i suoi studi e la sua fantasia, oceani e giungle, praterie, figure archetipe come Sandokan e Il Corsaro Nero (lui, pronto a duellare con il mondo, alla fine della sua vicenda lo vediamo, per amore, per rimpianto, piangere: e sono le lacrime dell’uomo colto nella sua fragilità, non più del gelido e invincibile guerriero). Salgari, nato a Verona (dove raccontò il circo di Buffalo Bill) e morto suicida a Torino, sopraffatto dalla pazzia della moglie, dagli editori che gli alitavano sul collo perché doveva produrre, produrre e ancora produrre, fino a spezzare la penna e dire basta, viaggiò una sola volta per mare da Verona a Brindisi. Ma, andando in tram dalla precollina torinese alla Biblioteca Nazionale, sfogliando antichi volumi, porto nelle sue pagine, oceani infiniti, fiori esotici e isole misteriose, conquistando il cuore di tanti giovani. Ma non venne amato dalla intellighenzia del tempo, che considerava poveri, dal punto di vista letterario, i suoi scritti. Ma per anni e anni le sue fitte pagine hanno conquistato ragazze e ragazzi, avvolti dal fascino di quelle imprese. Dimenticato, o quasi, in Italia, Emilio Salgari continua a rappresentare un punto di riferimento in America Latina: a Paco Ignacio Taibo II dobbiamo, nel 2011, Le tigri della Malesia; Osvaldo Soriano mi confidò di voler dare un seguito a Triste solitario y final con protagonista non più Philip Marlowe, l’investigatore creato da Raymond Chandler, ma Emilio Salgari: il progetto restò incompiuto; il rivoluzionario Ernesto Che Guevara, prima di partire per le sue lotte e sentire «sotto il tallone il costato di Ronzinante», portava nella sua bisaccia gli amati romanzi salgariani. Insomma: il Padre degli Eroi sapeva mettere insieme ambientazioni realistiche con la bellezza dei suoi personaggi lucenti. E il mio amato fumetto Tex continua a essere uno splendido modello salgariano.


Amore, odio, amicizia fraterna, gusto di mettersi alla prova, cameratismo di combattenti, senso dell’onore, desiderio di vendetta. La carica emotiva, le passioni forti sono il segreto del cosiddetto «romanzo d’avventura»?

Il racconto dell’avventura nasce come feulleiton sulle pagine dei quotidiani, per poi diventare vero e proprio componimento narrativo carico di ritmo, passione e pathos. Penso, ad esempio, a I tre moschettieri di Alexandre Dumas, classico esempio di romanzo d’appendice. Personalmente, ritengo ogni libro una «avventura», capace di trasportarci in ogni tempo e in ogni spazio, e noi siamo lì a vivere quegli amori, quei dolori, quelle sfide. Mio figlio si chiama Santiago in onore del pescatore di Il vecchio e il mare di Ernest Hemingway: il duello tra un uomo e un marlin. Ritornerà a mani vuote, ma con una consapevolezza: «Un uomo può essere distrutto, ma non sconfitto». E Herman Melville ha saputo donarci Moby Dick, un altro confronto avventuroso tra il capitano Achab e una gigantesca Balena Bianca.


Nel collocarsi sulla scia di famosi autori d’avventura come Alexandre Dumas padre, Walter Scott, Jules Verne, Robert Louis Stevenson, Salgari mostra tuttavia significative peculiarità: la sua prosa contiene una dose conturbante di erotismo soffuso.
Quanto ciò ha contribuito a determinare le trasposizioni cinematografiche e fumettistiche?

I romanzi di Emilio Salgari hanno dato spunto a molti registi per film, disegni animati e serie televisive. In Italia conobbe un enorme successo lo sceneggiato tv Sandokan, del 1976, diretto da Sergio Sollima, con Kabir Bedi nella parte di Sandokan, Philippe Leroy in quella di Yanez, Carole André splendida Marianna e un indimenticabile Adolfo Celi nei panni di James Brooke. Tra le tante pellicole cinematografiche vorrei qui citare Capitan Tempesta (1942) e Jolanda, la figlia del Corsaro Nero (1953) per la regia dello scrittore Mario Soldati. Ma il mio pensiero va a Cesare Pavese che, da bambino, nella sua Santo Stefano Belbo giocava ai pirati malesi, immaginando di essere lui Sandokan.


Tra narrativa e poesia, la letteratura romena è costantemente tradotta in italiano, con nomi di punta quali Ana Blandiana, Herta Müller, Norman Manea, Mircea Cărtărescu, Emil Cioran, Mircea Eliade, e la rivista «Orizzonti culturali italo-romeni» ne registra le pubblicazioni nel database Scrittori romeni in italiano: 1900-2024. In che misura pensa sia conosciuta in Italia e quali scrittori romeni hanno attirato la sua attenzione?

La letteratura romena appartiene, ormai da tempo, alla nostra cultura: Italia e Romania sono diventati paesi fratelli anche in libreria. E «Orizzonti culturali Italo-romeni» rappresenta un punto di riferimento fondamentale per tutti coloro che vogliono conoscere quella letteratura, quei narratori, quei poeti. Invito a leggere, caldamente, i romanzi, i versi e i saggi di Herta Müller, Premio Nobel per la Letteratura nel 2009, diventata tedesca d’adozione. E ho sempre analizzato l’opera di Mircea Eliade, allievo di Jung, con molto interesse, soprattutto per i suoi scritti in qualità di storico delle religioni.


A cura di Afrodita Cionchin e Giusy Capone
(n. 4, aprile 2024, anno XIV)