Con Dario Pontuale su Calvino e Gustave Flaubert

L’incontro tra Calvino e Giulio Einaudi, avvenuto nel 1946, sarà l’inizio di un proficuo sodalizio che, seppur con brevi pause, durerà quasi quattro decenni nei quali lo scrittore ligure si affermerà come uno dei maggiori autori del Novecento e il marchio torinese assurgerà a modello editoriale italiano. L’impresa einaudiana alla quale più organicamente Calvino lega il proprio nome è, tuttavia, la collana «Centopagine», un progetto da lui stesso fondato nel 1971 e diretto fino al 1985, anno della sua morte. Settantasette i volumi editi, un impegno letterario che setaccia opere dal Cinquecento fino al Novecento, con particolare predilezione per il XIX secolo. E c’è un titolo a cui tiene particolarmente: l’autore è un romanziere per il quale lo scrittore sanremese nutre da sempre riconoscenza e stima, citato nella saggistica e fonte di ispirazione nella narrativa, Gustave Flaubert.
Da queste premesse prende spunto il nostro dialogo con lo scrittore e saggista Dario Puntuale su Italo Calvino e Gustave Flaubert.

Come Calvino incontra Gustave Flaubert?

Attraverso un’opera. L’opera si intitola Tre racconti (Trois Contes), tradotta per «Centopagine»da Lalla Romano nel febbraio del 1980 come sessantaduesimo numero della collezione e riportante in copertina un delicato bozzetto di Renoir con degli studi su visi femminili. Una scelta editoriale acuta, intelligente, perfino coraggiosa con la quale Calvino presenta al pubblico italiano il genio eremita di Flaubert da un’angolazione diversa, non quella più conosciuta del romanziere, bensì la meno nota di autore di racconti. Cura personalmente la quarta del volume. Con scrupolosa esattezza terminologica e concettuale, cesella frasi che spiegano la profondità del messaggio letterario di Flaubert accennando, neppure troppo velatamente, al ruolo rivestito nella sua formazione letteraria. Più che un testo destinato alla quarta di un volume, si presenta come un saggio breve, tale è preciso lo scavo analitico. Riferendosi, appunto, ai racconti annota:

Sono le ultime opere che Flaubert ha portato a termine nella sua vita e rappresentano le sintesi più piena e perfetta del suo ostinato lavoro per dare alla prosa narrativa moderna un rigore e un’essenzialità quali solo la poesia in versi si era fino ad allora proposta di raggiungere.

Evidente quanto queste righe siano un indiscusso tributo all’impeccabile stile flaubertiano, nonché un nuovo spunto interpretativo.


L’8 maggio del 1980, con un articolo apparso su «La Repubblica» dal titolo L’occhio del gufo, Calvino celebra i cento anni esatti dalla morte dello scrittore francese.
Quali sono le considerazioni offerte?

Calvino ribadisce, ampliandole, alcune osservazioni sui racconti soprattutto su Un cuore semplice e su La leggenda di san Giuliano ospitaliere. Partendo dal fondamentale dato comune, quello visivo, li definisce storie di grande visività romanzesca, capaci di «far vedere» persone e cose esplorando l’animo con un’acutezza prodigiosa. Una visibilità romanzesca iniziata da Stendhal e proseguita da Balzac, che tocca con Flaubert il perfetto rapporto fra parola e immagine, tanto che i tre racconti sono: «testimonianza d’uno dei più straordinari itinerari spirituali che mai siano stati compiuti al di fuori di tutte le religioni». La dote affilata della visibilità, soprattutto come avvalsa da Flaubert, è un tema caro al Calvino narratore e critico, infatti rientra nelle «sei proposte per il prossimo millennio», un ciclo di conferenze che l’autore avrebbe dovuto tenere presso l’Università di Harvard. Sciaguratamente la morte lo sorprende poco prima della stesura dell’ultima proposta, così la Garzanti pubblica postumo il volume Lezioni americane dove sono raccolte tutte le considerazioni prodotte. Il ruolo rivestito dalla «visibilità» nel mestiere di scrittore, soprattutto nella resa espressiva, secondo Calvino, è cardinale e nell’analisi critica compiuta evidenzia affinità con il metodo flaubertiano:

Diciamo che diversi elementi concorrono a formare la parte visuale dell’immaginazione letteraria: l’osservazione diretta del mondo reale, la trasfigurazione fantasmatica e onirica, il mondo figurativo trasmesso dalla cultura ai suoi vari livelli e un processo d’astrazione, condensazione e interiorizzazione dell’esperienza sensibile, di importanza decisiva tanto nella visualizzazione quanto nella verbalizzazione del pensiero.


Osservare, descrivere ed evocare come metodo espressivo, come fonte di ispirazione, è il principio sul quale si erigono Le città invisibili, una delle opere calviniane più immaginifiche.
Quali relazioni si possono stabilire con la narrazione  flaubertiana?

L’occhio di Marco Polo è quello del viaggiatore che scruta, annota, riflette ciò che lo circonda, riportandolo, carico di significato, all’imperatore tartaro Kublai Kan. La forma delle città, i materiali e i tessuti che adornano i palazzi, l’aspetto dei popoli incontrati, sono sentimenti dell’anima trasformati in «visibilità romanzesca», la medesima apprezzata nei Tre racconti, in cui i gesti e l’universo di Félicité, Julien e Erodiade, sono luci che offrono a Calvino altri spunti narrativi. Le analogie, difatti, tra La leggenda di san Giuliano ospitaliere e il racconto Ultimo viene il corvo e due dei romanzi della trilogia dei Nostri antenati, sembrano confermarlo. La foga sanguinaria del giovane Giuliano che, prima della redenzione, con arco, lancia o qualunque altra arma, abbatte cervi, falconi e daini, molto si avvicina all’impeto di «faccia di mela», il protagonista senza nome del racconto che dà il titolo all’omonima raccolta del 1949. Seppur ambientati il primo in un remoto medioevo, l’altro durante la lotta partigiana, le anime dei protagonisti soffrono entrambe un inspiegabile senso di inquietudine sopito unicamente dalla brama della caccia. Sono infallibili cecchini, vittime di pulsioni inconsce che nel gesto meccanico di scoccare una freccia o nel far esplodere un bossolo, trovano momentaneo giovamento alla propria smania. Una smania spietata e sanguinaria, sostanza di un male avvertito, sintomo di una tetra metà che prevale su quella positiva. Tuttavia, se il personaggio calviniano resta privo di atto espiativo, lasciando al lettore la consapevole problematicità della condizione umana in perenne bilico tra giusto e ingiusto, nel racconto di Flaubert simile processo salvifico si compie. In Giuliano convivono bene e male, così come accade in Medardo di Terralba, protagonista del Visconte dimezzato, opera nella quale la disamina calviniana si evolve, passando da una vicenda dai toni neorealisti a una di stampo fiabesco-allegorico:

Avevo questa immagine di un uomo tagliato in due ed ho pensato che questo tema dell’uomo tagliato in due, dell’uomo dimezzato, fosse un tema significativo, avesse un significato contemporaneo: tutti ci sentiamo in qualche modo incompleti, tutti realizziamo una parte di noi stessi e non l’altra.

In questo romanzo, edito dall’Einaudi nella collana I gettoni, la coesistenza tra opposte nature viene estremizzata con l’espediente narrativo del dimidiamento tra parte destra e parte sinistra, tra il «Buono» e il «Gramo» così come accade ai due volti di Giuliano, il parricida e il virtuoso.


In Un cuore semplice non scorre la vita pubblica francese e non servono centinaia di pagine per accorgersene, basta uno squarcio di Normandia e l’esperienza di una ragazza di campagna. Sono sufficienti gli oggetti che circondano il letto di Félicité?

Sì, senza dubbio. L’amorevole impegno nel conservare cianfrusaglie scartate da altri, per toccare l’inconsistenza della cenere citata da Calvino, per vedere oltre il panno sbiadito del tempo. Si scopre, allora, che sotto la grande visibilità romanzesca, dietro l’equilibrio flaubertiano tra parola e immagine, tutte quelle «cose» sono vuote, dentro non c’è nulla, proprio come nell’armatura del Cavaliere inesistente. Scrivere sul nulla, anzi scrivere il grande romanzo sul nulla, è l’arduo intento dichiarato da Flaubert nella lettera indirizzata a Louise Colet il 16 gennaio del 1852. Quel: «ce que je voudrais faire, c’est un livre sur rien» non lascia dubbi, neppure a Calvino che cita la frase nella Molteplicità, il quinto valore letterario fondamentale fissato in Lezioni americane. Questa volta, però, il richiamo all’opera dell’autore normanno è esplicito, specialmente all’ultimo suo romanzo, l’incompiuto, quello che avrebbe proprio dovuto essere il «libro sul nulla»:

Bouvard e Pécuchet è certo il vero capostipite dei romanzi che passo in rassegna, anche se la patetica ed esilarante traversata del sapere universale compiuta dai due Don Quijote dello scientismo ottocentesco si presenta come un susseguirsi di naufragi. Per i candidi autodidatti ogni libro apre un mondo, ma sono mondi che si escludono a vicenda, o che con le loro contraddizioni distruggono ogni possibilità di certezza. Per quanta buona volontà ci mettano i due scrivani sono privi di quella specie di grazia soggettiva che permette di adeguare le nozioni all’uso che se ne vuol fare o al gratuito piacere che se ne vuole trarre, una dote che si impara sui libri.


Quali sono, secondo lei, le sfide più ardue che la critica letteraria, ein particolare l’italianisticadeve affrontare al giorno d’oggi?

Il fatto che la critica, come aveva già anticipato Harold Bloom, abbia perso la cosiddetta aureola, la sua centralità nell’universo editoriale e culturale.
Le sfide, a mio modesto avviso, sono le medesime che deve improrogabilmente affrontare la società odierna; ossia ricostruire valori, alimentare un pensiero fondante, soprattutto un LIBERO GIUDIZIO CRITICO. Un discernimento che si avvalga di strumenti valutativi assodati, di criteri e metodi che pongano ragionamenti scevri da pressioni commerciali omologanti o consumistiche. La critica per troppi decenni si è rintanata in asettiche cerchie ristrette, manipolata così come la politica e, come la politica, ha smarrito il rapporto con i lettori, con la realtà del quotidiano, con la logica delle dinamiche.
Quelli che scrivo di libri sui giornali, soprattutto di libri di cui si parlerà molto, sembrano un po’ degli uffici stampa, dovrebbero essere pagati dalle case editrici, più che dai giornali. Leggevo una stroncatura sull’opera di Paul Auster in un libro di James Wood (appena pubblicato da minimum fax), e stiamo parlando di Paul Auster, un gigante. Ecco, una cosa del genere, qui, sembra davvero impossibile.
La critica letteraria è una disciplina mai improvvisata, comprovata da concetti e coordinate analitiche precipue, che non contempla estemporaneità. È dunque ben distante dalla recensione, dal trafiletto promozionale che persegue differenti finalità. La critica mira a esprimere un testo sforzandosi di non peccare in dogmatismi faziosi, ne disamina le relazioni con il periodo storico e letterario, con la biografia dell’autore, comparando personaggi o altri titoli, rintracciando analogie o divergenze, entra nella trama della trama. Non deve «imporre» chiavi interpretative, semmai fornire essenziali strumenti valutativi. Le recensioni giornalistiche, sostanzialmente, si preoccupano di sponsorizzare il libro, si limitano a una lettura che sfiora la patina, a una roboante aggettivazione. Troppo si preoccupa di non inimicarsi editore, agenzia, autore e questo non intendo lodare il gusto alla stroncatura, semmai auspico una maggiore onestà intellettuale che, a simili latitudini, dovrebbe risultare ineccepibile. Un giudizio critico calibrato, mi ripeto, eviterebbe fraintendimenti specie tra i lettori meno coscienti di certe sfumature. Che sia poco chiara la sostanziale differenza tra ‘recensione’ e ‘saggio’, ne è riprova palese.

Romano Luperini sostiene che il saggio critico, così come ereditato dal secolo passato, non ha più futuro. Come vede lei la trasformabilità di questa forma che si è istituzionalizzata in un vero e proprio genere letterario, sul quale si sono cimentati filosofi e critici celebri, tra cui Adorno e Lukács?

Il saggio, com’è giusto che sia, ha cambiato forma, ed è destinato a cambiare ancora. Pur non credendo molto nei generi, mi piace molto quando leggo un libro che è a metà tra un saggio e un romanzo, o che magari è tante cose insieme.
Finché la parola resterà fedele al verbo e l’idea all’ideale, il significato e il significante non subiranno stravolgimenti sostanziali, io credo. Decisivo è, tuttalpiù, il concetto di fondo; giacché è fisiologico che la forma si evolva ma non fino al punto di trasfigurarsi. La commistione letteraria risulta indubbiamente un esperimento efficace, antico tanto quanto moderno. Di gran lunga meno tollerabili appaiono, piuttosto, i libri ‘da laboratorio’, costruiti seguendo l’agenda setting del momento, editi per catturare, anzi fidelizzare, un pubblico abbacinato dalla propulsione mediatica. Insisto, soltanto sviluppando un personale giudizio critico, si spezzerà simile dipendenza.

L’edizione 2023 del Premio Strega ha segnato non solo la vittoria di una scrittrice, ma anche un record di donne: otto scrittrici nella dozzina e quattro nella cinquina. Come si configura l’attuale status della letteratura esperita da donne?

Per me ci sono libri belli e libri meno belli, non sono più felice se quelli vengano scritti dalle donne e quelli meno belli dai maschi, e viceversa.
Indubbiamente i titoli delle autrici sono in netto aumento e me ne compiaccio, tanto quanto vedere affrontate certe tematiche, criticità, problematiche da troppo taciute. Alle volte, nondimeno, temo che l’editoria assecondi gelide regole di mercato, favorisca volentieri la perversa legge tra domanda e offerta. Ho la paura che stia cavalcando furbamente la tigre, che si pubblici così tanto semplicemente perché tutto si vende; la qualità non sembra requisito necessaria, meno ancora la credibilità. Importa che il libro venga comprato, non necessariamente letto; poiché il lettore non è più considerato lettore pensante, bensì cliente. Sarebbe interessante osservare, per curiosità statistica, quante di questi autori appartengano alla stessa agenzia letteraria; in tal caso il binomio risulterebbe ancora più mercantile. Essenziale, tuttavia, che le opere posseggano un valore letterario durevole, riflessioni da tramandare ai lettori futuri. In questo momento di confusione generalizzata, servono buoni libri, non soltanto belle parole.

La letteratura romena è costantemente tradotta in italiano, con nomi di punta quali Ana Blandiana, Herta Müller, Norman Manea, Mircea Cărtărescu, Emil Cioran, Mircea Eliade, e la rivista «Orizzonti culturali italo-romeni» ne registra le pubblicazioni nel database Scrittori romeni in italiano: 1900-2023. In che misura pensa sia conosciuta in Italia e quali scrittori romeni hanno attirato la sua attenzione?

Ho amato molto Cioran, soprattutto nel periodo dell’università, mi ha aiutato a decifrare alcuni autori che non riuscivo a capire, e soprattutto a conoscere meglio i miei sentimenti. Appena potrò, voglio scoprire l’opera di Mircea Cărtărescu, ho tanti amici che l’hanno letto e sono rimasti folgorati.
Anch’io amo Cioran, ne condivido l’insonnia. Scherzi a parte, la letteratura romena, così come più in generale quella slava, è un contributo prezioso, esempio di valore stilistico nonché contenutistico. «L’anima slava», così l’avrebbe definita Leone Ginzburg, è un oggettivo apporto al pensiero letterario mondiale, figlio di una tradizione dotta e inestimabile. Molti editori italiani rivolgono attenzione a suddetto universo, ma ho la sensazione che il lettore medio non sia culturalmente preparato per apprezzarne completamente le profondità. Che questo Paese abbia una pericolosissima flessione formativa, però, è una sciagura che travalica ogni discorso letterario.


A cura di Afrodita Cionchin e Giusy Capone
(n. 11, novembre 2023, anno XIII)




Nota biobibliografica 

Nato a Roma nel 1978, Dario Pontuale è scrittore, critico letterario, bibliotecario. Ha collaborato alla redazione di Storia della Letteratura Italiana di P. Manfredi e P. Di Sacco, edita da Pearson nel 2021. Ha pubblicato i romanzi La biblioteca delle idee morte (2007), L’irreversibilità dell’uovo sodo (2009), Nessuno ha mai visto decadere l’atomo di idrogeno (2012), Certi ricordi non tornano (2018); il racconto I dannati della Saint George (2015); la favola Per fare un albero ci vuole un dente (2021). È autore delle raccolte di saggi Ciak si legge (2016), Una tranquilla repubblica libresca (2017), della biografia critica Il baule di Conrad (2015), tradotto anche in Francia, e della monografia critica La Roma di Pasolini (2017), tradotto anche in Spagna e vincitore per la critica del Premio Carver 2019, La scoperta dell’America. Saggi di Cesare Pavese, con prefazione di Ernesto Ferrero (2020), Scrittori russi. Saggi di Leone Ginzburg (2021). Ha curato edizioni di Flaubert, de Maupassant, Zola, Musil, Stevenson, Melville, Conrad, Svevo, Salgari, Tolstoj, Puškin, Cechov. Codirige la rivista salgariana “Il corsaro nero”, collabora come consulente letterario per il programma Rai «L’Atlante che non c’è».

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