Il romanzo d’avventura tra presente e passato. Dialogo con Dario Pontuale

Inauguriamo in questo numero uno spazio dedicato al romanzo d’avventura tra presente e passato, fondendo i punti di vista di studiosi, traduttori, illustratori. In apertura, lo scrittore e critico letterario Dario Pontuale (n. 1978). Ha collaborato alla redazione di Storia della Letteratura Italiana di P. Manfredi e P. Di Sacco, edita da Pearson nel 2021. Ha pubblicato i romanzi La biblioteca delle idee morte (2007), L’irreversibilità dell’uovo sodo (2009), Nessuno ha mai visto decadere l’atomo di idrogeno (2012), Certi ricordi non tornano (2018); il racconto I dannati della Saint George (2015); la favola Per fare un albero ci vuole un dente (2021). È autore delle raccolte di saggi Ciak si legge (2016), Una tranquilla repubblica libresca (2017), della biografia critica Il baule di Conrad (2015), tradotto anche in Francia, e della monografia critica La Roma di Pasolini (2017), tradotto anche in Spagna e vincitore per la critica del Premio Carver 2019, La scoperta dell’America. Saggi di Cesare Pavese, con prefazione di Ernesto Ferrero (2020), Scrittori russi. Saggi di Leone Ginzburg (2021). Ha curato edizioni di Flaubert, de Maupassant, Zola, Musil, Stevenson, Melville, Conrad, Svevo, Salgari, Tolstoj, Puškin, Čechov. Codirige la rivista salgariana «Il corsaro nero», collabora come consulente letterario per il programma Rai «L’Atlante che non c’è».


È possibile ritrovare in molte opere della classicità alcune istanze che poi diverranno peculiari del genere d’avventura. Già nell’Odissea, il protagonista, Odisseo, mostra quelle caratteristiche che, diversi secoli dopo, tipizzeranno il modello dell’avventuriero. Ebbene, nella produzione contemporanea cos’è rimasto del desiderio di conoscere, dell’attrazione verso l’ignoto, della voglia di evadere, del coraggio, dell’accortezza e della lucidità?

Odisseo è il modello primo, ma rischia seriamente il decadimento. Il lettore contemporaneo, e conseguentemente la letteratura, stanno smarrendo non poco il senso della scoperta, del desiderio, della conoscenza, in sintesi: la necessaria necessità di curiosità. Tutti elementi essenziali nell’animo umano e che, nostro malgrado, diminuiscono di generazione in generazione. L’abuso, dei media, delle immagini/video soprattutto, vomitate continuamente dagli smartphone, affievolisce questa «sete», il bombardamento di informazioni che ne deriva: priva, stanca, assottiglia qualsiasi spinta alla ricerca. Oggi si «guarda», non più si «osserva». Per conquistare il lettore e tenerlo incollato alla pagina (o allo schermo), bisogna escogitare sempre qualcosa di eclatante, sensazionale, sfidando le forze della fisica, della psicofisica, della natura. Ciò accade in letteratura, più ancora nel cinema che, però, può almeno limitare i danni avvalendosi degli effetti delle nuove tecnologie.


Il romanzo d'avventura ha un maggiore sviluppo con la nascita della letteratura di massa e trova piena espressione nell’Ottocento, grazie ad una congiuntura di processi storico-culturali propizi. Un’ulteriore spinta propulsiva al genere viene data dal movimento del realismo, che ridona un’elevatezza ed una completezza di espressione al romanzo avventuroso, di esplorazioni, di viaggi e di conquiste. Applicando lo sguardo di un critico letterario, quali direzioni intravede per il prossimo futuro?

Il genere avventuroso nasce, cresce e sviluppa, oltre due secoli fa, su periodici popolari a basso prezzo; coinvolgendo larghe masse di lettori. Nel tempo, tuttavia, i canoni della fascinazione verso l’esotico, l’inesplorato, il «lontano» sono stati rosi dal facile consumo, dal rapido impiego, dall’abbondanza che conduce all’assuefazione. Si sta smarrendo il potere della fantasia, la seduzione verso il mistero, il gusto per l’ignoto; soppiantati dall’interesse morboso, dalla pruriginosa stranezza, dal frivolo orpello. I viaggi, le esplorazioni, le perlustrazioni devono, quindi, essere sempre più efficaci, devono inventare colpi di scena a ripetizione, ideare «inseguimenti» a raffica, altrimenti il lettore perde gusto, perfino si annoia. Un palato troppo viziato smarrisce il gusto dei sapori, esige continuamente qualcosa di nuovo, di mai visto. Bisogna, invece, potenziare l’immaginazione personale, allenarla, coltivarla. Il sapore dell’avventura risiede unicamente in noi, non in quello che propinano.


Una caratteristica del romanzo di avventura è relativa al ritmo che deve essere impresso al racconto; questo deve essere sempre molto alto, incalzante, a tratti quasi travolgente. Analessi, flashback e prolessi paiono costituire elementi retorici imprescindibili. La velocità sottrae al lettore la possibilità di riflettere?

Il ritmo è tutto, ma non deve essere necessariamente frenetico, forsennato, convulso innanzitutto perché il racconto d’avventura ha due livelli interpretativi. Il primo, quello più superficiale, più esteriore, la buccia si direbbe, deve padroneggiare l’incarico di incollare alla pagina, tenere la trama su lecite quote di coinvolgimento. Il secondo, invece, deve scendere nel profondo dell’anima, nell’intimo dei gesti, nel nucleo delle cose, arrivando dove si nasconde il senso dell’intero. Così il lettore può interpretare il recondito messaggio che il testo intende suggerirci, può «avventurarsi» dentro infiniti luoghi. La fusione dei piani genera la magia.


I libri d’avventura sono capaci di portare il lettore in terre lontane e inesplorate, di farlo viaggiare con la mente e con l’immaginazione, stimolandone la fantasia, il desiderio di scoperta e il gusto per il nuovo e l’inaspettato. Paesi esotici, animali insoliti, lande disabitate possono essere il contesto adatto a un «viaggio interiore»?

Il viaggio è innanzitutto dentro al cuore del lettore, soltanto poi all’interno del libro. Un processo di causa-effetto, anzi effetto-causa: imprescindibile. Se mancasse tale osmosi, cadrebbe il silenzio confusionario, si capitombolerebbe nel vuoto assoluto, nel caos concettuale ed emozionale.


Lei è autore, tra l’altro, de
I dannati della Saint George, una fiaba che ricalca i canoni ottocenteschi della letteratura d'avventura per ragazzi. A chi paga un debito di riconoscenza?

Il genere avventuroso mi ha attratto fin da bambino, accompagnandomi anche nelle varie stagioni della vita. Ho enormi debiti di riconoscenza, oltre poi morali verso: Salgari, Stevenson, Kipling, London, Melville, Verne soprattutto Conrad. Lui fu il primo.


Il rapporto dei giovani con la lettura nella società di oggi. Come si può ovviare a questo problema sempre più stringente?

Bisogna risvegliare la curiosità, non solo dei giovani a dire il vero, ma come non saprei. I giovani leggono poco perché la lettura costa fatica, richiede concentrazione, esige difficoltà. Tre termini che non rimano bene con i desideri dei ragazzi i quali, anche per colpa delle generazioni passate, sono soggetti/oggetto di informazioni e stimoli «premasticati», nozioni che durano il tempo fulmineo di uno schiocco di dita. Di questo «rapido consumo» del messaggio, infatti, ne pagano dazio la letteratura, ma anche la musica, il teatro, il cinema. Oggigiorno se un film dura più di due ore, viene considerato «lungo», non solo dai ragazzi, purtroppo. Bianciardi negli anni Settanta affermava provocatoriamente: «i libri non leggeteli, fateveli raccontare», infatti ora come ora i libri restano sugli scaffali e abbondano i podcast: più facili, più veloci, più ‘smart’. Manca l’educazione al tempo, o meglio: al tempo del tempo. I frutti maturano con le stagioni, non sbocciano già pronti sui rami.


A cura di Afrodita Cionchin e Giusy Capone
(n. 4, aprile 2024, anno XIV)