In dialogo con Daniela Sandid, traduttrice di Stevenson e Conrad Daniela Sandid (Firenze, 1977) è laureata in Lingua e Letteratura straniera con una tesi sulla poesia di Lady Mary Wroth e, negli anni successivi, traduce vari testi che la portano a specializzarsi negli autori del XIX secolo: Lo zio Peter di E. Gaskell, L’uomo che corruppe Hadelyburg di M.Twain, Il tesoro di Franchard di R.L. Stevenson, Un Anarchico di J. Conrad, Parola di cane di R. Kipling, Scene di Londra di V. Woolf. Per la rivista «Città di Vita» traduce alcune poesie di J. Donne e una raccolta di poesie della poetessa contemporanea Martina Evans è uscita per i tipi di Valigie Rosse, Di fronte al pubblico. Attualmente insegna inglese in una scuola media di Firenze. Lei ha tradotto, tra gli altri, Stevenson e Conrad. L’operazione di traduzione è indubbiamente oltremodo complessa. Pensando al rapporto tra testo da tradurre e figura traduttiva, quali «confini» possono essere scorti? Le principali difficoltà nella traduzione di questi due autori sono almeno due. Una, la distanza nel tempo di questi scrittori la cui lingua deve essere tradotta con un linguaggio contemporaneo; la seconda, a questa collegata, è che tale lingua si riferisce a un mondo distante dal nostro. Si pensi solo alla ricchezza di questi due autori quanto alle descrizioni di avventure per mare, che si portano dietro un fitto lessico che per noi oggi, se non desueto, certamente fuori dalla nostra consuetudine. Eppure, il lettore di oggi, attraverso la traduzione, a quel mondo deve comunque avere accesso e in esso lasciarsi trasportare.
Nella società contemporanea, i valori esistenziali legati alla scoperta sono effettivamente un po’ dileguati: il mondo sconosciuto si è molto ridotto e le comunicazioni ormai impediscono anche per pochi minuti il distacco dalle nostre abitudini e dai nostri spazi quotidiani. Tuttavia, il mistero dell'esistenza non è variato in nulla rispetto al passato, e oggi l'avventura può riguardare dimensioni spazio-temporali che sfuggono ai nostri riferimenti abituali esplorando l'ignoto delle galassie e sfidando la velocità della luce, così come le dimensioni indicibili della mente umana e del suo rapporto sempre più stretto con l'intelligenza artificiale. In questo quadro, forse anche per distanza, le avventure per mare raccontate, tra gli altri, da Stevenson e Conrad non perdono il loro fascino e continuano a stupirci e a catturarci.
La chiarezza di Stevenson è l’anima stessa della sua grandezza. Ma non è qua che egli crea problemi al traduttore, anzi, più spesso gli offre meravigliose scoperte di inarrivabile semplicità. Certo, il traduttore dovrà stare attento a non lasciarsi ingannare e, per la profondità di quanto espresso, utilizzare termini più aulici che il genio di Stevenson invece rifugge con ineguagliata maestria.
La favolistica di Stevenson è una produzione estremamente interessante perché il motivo del racconto non si appiattisce mai nella sequenza di vicende per stupefacenti che possano essere. Dietro a ogni vicenda vi è sempre un significato che ha il sapore dell'assoluto, così come verso l’assoluto sembrano condurre i suoi romanzi che tracciano sempre un'avventura dell'intelligenza.
Più che esiziale io definirei l’esperienza del viaggio come fondante, cioè come un percorso di difficoltà in cui – seguendo i modelli della letteratura mondiale di tutti i tempi, dai testi sacri alla mitologia greca e fino al romanzo d'avventura dell'epoca imperiale inglese – da cui si torna sempre cambiati e paradossalmente, più simili a noi stessi.
A cura di Afrodita Cionchin e Giusy Capone |