Daniela Marcheschi: «La nostra letteratura, specchio della multiculturalità dell’identità italiana»

Continua la nostra inchiesta, a cura di Afrodita Cionchin e Giusy Capone, nel campo della critica letteraria, con diversi argomenti di attualità e un'ampia indagine sulla ricezione della letteratura romena in Italia, un tema di particolare interesse per noi.
Ospite dei nostri Incontri critici, la professoressa Daniela Marcheschi, critico, studiosa e docente di letteratura italiana e di antropologia delle arti dagli orizzonti interdisciplinari e di fama internazionale.
Oltre a numerosi saggi tradotti in diversi paesi, ha curato i «Meridiani» Mondadori delle Opere di Carlo Collodi (1995), Giuseppe Pontiggia (2004) e Gianni Rodari (2020), e pubblicato il volume riassuntivo di critica e teoria della letteratura Il Sogno della letteratura (Gaffi, 2012). È direttore scientifico della Fondazione Dino Terra, e ha già curato presso Marsilio La figura e le opere di Dino Terra nel panorama letterario ed artistico del ’900 (2009), il romanzo Ioni (2014), Letteratura e Psicanalisi (2017) e i primi tre volumi di Letteratura e giornalismo (2017, 2019, 2020).


Professoressa Marcheschi, le sue poesie sono pubblicate anche in traduzione romena nell’antologia Poeți italieni de azi (Poeti italiani di oggi), a cura di Eliza Macadan. In un tempo politico, sociale ed economico che grida l’impellente bisogno di tessere un dialogo con sé stessi, la conflittualità interiore può essere lenita dalla Poesia?

Personalmente, ritengo che la Poesia sia espressione e conoscenza prima di tutto, arte o materia formata, cioè bellezza, come riteneva già Schiller. Significa abitare la parola, portarla al massimo grado di espressione (notava Pound) per poter «cantare» ovvero, nel significato etimologico del verbo, «dire ad alta voce»: dire tutto ciò che preme, che si pensa, che si sente, vagliandolo nella costruzione della Forma. La grande arte poetica è sempre in attrito con il mondo; immette in esso un dover essere, offre a esso e a noi mortali, suoi lettori, un destino di realizzazione. La poesia può anche essere consolazione, ma di sicuro non sfogo, non terapia dei propri personali o interiori conflitti, che pure sono normali nel vivere. Questi ultimi devono essere espressi in un modo preciso, ossia inter-soggettivo: per quel sé che coincide con gli altri, come dicevano Giorgio Caproni e Giuseppe Pontiggia. La Poesia così è, semmai, nel senso antico del termine, catarsi: pienezza di sentimento e di coscienza acquisita, che porta in una dimensione più alta da cui guardare il mondo con occhio limpido, lucidamente consapevole del Male e del Bene.


Se parliamo della letteratura romena, quali poeti e prosatori hanno attirato la sua attenzione?

Alcuni che hanno scritto in romeno e altri anche in lingue diverse: Mihai Eminescu, Lucian Blaga, a cui si devono pure saggi importantissimi sull’arte (Orizzonte e stile), Paul Celan, Ana Blandiana che meriterebbe il premio Nobel (mi auguro che gli intellettuali e le istituzioni romene sollecitino l’Accademia di Svezia in tal senso) e che ho il piacere di conoscere anche personalmente. Ma posso nominare pure Tristan Tzara, il teatro di Ionesco e pensatori come Mircea Eliade ed Emil Cioran. Soprattutto, però, devo ricordare l’incontro decisivo con le opere intense, originali, di Constantin Noica: un grande pensatore, che vorrei fosse più internazionalmente conosciuto per la sua lucidità nell’individuare le «sei malattie dello spirito contemporaneo» e aiutarci a non cadere nella tentazione del nichilismo; in ogni caso nelle braccia degli assoluti di ogni genere senza essere relativisti.


La rivista «Orizzonti culturali italo-romeni» registra le pubblicazioni di letteratura romena in traduzione italiana nel database Scrittori romeni in italiano: 1900-2022. In che misura pensa sia conosciuta in Italia anche tra i non addetti ai lavori?

Mircea Eliade ed Emil Cioran sono conosciuti dal largo pubblico colto. Tzara, Celan, Ionesco lo stesso. Blaga e Noica, del quale alcuni saggi sono stati tradotti negli ultimi trenta anni, mi sembrano ancora autori di nicchia, ed è un vero peccato, perché il loro pensiero aiuta a uscire dalle secche di tanta cultura, purtroppo stantìa, ripetitiva, di quello che preferisco chiamare il secolo lungo (e gli ultimi fatti ce lo dimostrano): il Novecento.


Francesco De Sanctis scrisse che la letteratura di una nazione costituisce una «sintesi organica dell'anima e del pensiero d'un popolo». Posto che la letteratura siauno specchio della rispettiva società in un tempo definito e che varia di opera in opera, quali potrebbero essere il ruolo e la funzione della scrittura nel frangente storico che stiamo vivendo?

Concordo con De Sanctis. La nostra letteratura, ancora tipicamente multilingue (si pensi al fenomeno della poesia dialettale), è lo specchio della multiculturalità costitutiva dell’identità italiana. Ogni italiano ha una identità nazionale, una regionale o delle città/stato di un tempo e, in certi casi, anche di più. Penso ad esempio a uno scrittore come Carmine Abate: italiano, calabrese e di cultura e lingua anche arbëreshë, perché discendente degli Albanesi che si sono stanziati nel sud Italia fra il XV e il XVIII secolo. È vissuto a lungo anche in Germania, inoltre.
Per il resto, nel dialogo platonico Fedro (§ LX), Socrate osserva che la scrittura è simile alla pittura. Scrivere significa in origine «incidere» la tavoletta d’argilla con lo stilo, «lasciare dei segni»: una traccia umana, eternare la memoria individuale e collettiva (si veda Jan Assmann). La scrittura come un’altra maniera per dare una rappresentazione visiva del mondo nella letteratura. Quest’ultima, al pari delle altre manifestazioni della cultura umana (la scienza, la filosofia, la biologia ecc.), è appunto un mezzo per acquisire conoscenza di sé e dei propri simili, del sentire umano, per formarsi strumenti di ragionamento diversi da quelli della medicina ad esempio, però necessari, complementari. E soprattutto per esprimere. Un mezzo anche per salvare sé stessi e il mondo, come insegna Dante. La scrittura, ancora, per lasciare una testimonianza indelebile, tramandare il ricordo, costruire così anche l’identità di una nazione. Oggi che la scuola appare sempre più in difficoltà a dare delle basi in primis di lettura, purtroppo si favorisce una idea debole di scrittura e di letteratura: ripiegata su sé stessa, autoreferenziale, o piena di cliché, tesa principalmente a fini commerciali o di spettacolo. La scrittura nella letteratura dovrebbe invece essere interrogazione sul Bene e il Male, sulla Verità: solo così può interessarci, riguardarci da vicino. Altrimenti perché leggere? Perché farci «incidere» dalle parole e «incidere» con le parole?


La scrittura contemporanea può annoverare letterate illuminate, vere pioniere quanto a innovazione e rispetto della tradizione. Qual è l’attuale status della letteratura esperìta da donne?

In Italia ci sono state e ci sono delle donne poetesse – come ad esempio Margherita Guidacci, Amelia Rosselli, Jolanda Insana, Cristina Annino, Assunta Finiguerra, Anna Cascella, Margherita Rimi –, molto innovative sul piano del linguaggio e dei temi trattati. Tra le narratrici, oltre a Fausta Cialente, dagli orizzonti davvero ampi e dai temi forti (colonialismo, irredentismo, l’universo femminile ecc.) o la molto più nota Elsa Morante su cui è inutile soffermarsi, ma che ha rivitalizzato il romanzo novecentesco anche portandovi usi formali della Letteratura per l’Infanzia, vorrei qui ricordare Clara Sereni, la prima a giocare fra «casilinghitudine», cibo e narrazione, e che purtroppo è morta nell’estate del 2018. Una che sa narrare, oggi, anche se talvolta eccede, è Melania G. Mazzucco, che ha già ricevuto importanti riconoscimenti. Fra le giovani emergenti, brave mi sembrano anche Claudia Durastanti e Giulia Caminito: per quello che raccontano della donna di oggi e non solo, e come lo raccontano. Ci si sente una freschezza e, insieme, una necessità di dire autentica.
Tuttavia la donna che scrive nell’Italia di oggi continua a non avere vita facile, sebbene le cose siano senz’altro molto migliorate. Specie se è libera e autonoma in una società dove permangono clientelismi, dipendenze varie, la donna è penalizzata, e il suo valore meno riconosciuto di quello di uomini più collegati a gruppi, ruoli eminenti ecc.


Le scrittrici sono e sono state sensibili a diverse ideologie, visioni del mondo, sensibilità politiche e filosofiche; personalità diverse tra loro e spesso assolutamente inconciliabili. Riesce a scorgere un fil rouge che annoda le plurime e molteplici anime della letteratura declinata al femminile?

La finezza di scandagliare la psiche, i sentimenti fondamentali di donne e uomini, le sfaccettature dell’infanzia, il ruolo della donna compressa fra doveri sociali ed esigenza di esistere in pienezza come persona, l’oppressione ingiusta, il coraggio femminile e la capacità di guardare più lontano e più in alto, pur tra certe, inevitabili, contraddizioni.


La contemporaneità non contempla esclusivamente le opposizioni oralità/scrittura e poesia/prosa, ma anche la possibilità di scelta tra e-book/online e cartaceo, tra letteratura cartacea e digitale. Quanto lo sguardo della critica è condizionato dal profumo della carta stampata o, viceversa, dalla comodità del digitale?

Un critico che vada in cerca della letteratura, come l’orco nella fiaba che segua l’«odor di cristianucci», insomma chi pensa e mira alla letteratura, poco si cura del modo in cui la sente e del mezzo su cui legge: la si ascolta recitata o detta da qualcuno, non per forza un attore, la si legge sui muri, sulla carta, sul computer, sull’ebook ecc. Qualsiasi mezzo è buono. Il punto fermo è la parola, la sua sostanziale necessità: sono i significati che contano o, meglio, la cosa detta, cioè la Forma.


Sono passati più di trent’anni dalla pubblicazione dei primi libri della cosiddetta letteratura della migrazione. Pensa che ci sia sufficiente attenzione su di essa? Ritiene inoltre che abbia avuto qualche influenza nella produzione letteraria degli autoctoni?

Una attenzione sui media e in televisione c’è, indubbiamente, ma potrebbe anche essercene di più. Ancora l’Italia sembra non cogliere pienamente i significati portati da una realtà globalizzata, l’urgenza di riflettere e approfondire in modo nuovo un concetto di identità molto più aperto di quanto già non lo sia normalmente per un italiano. In un momento in cui la cultura sembra sempre più essere abbandonata e al suo posto paiono subentrare surrogati anche nei luoghi dove non ce li aspetteremmo (le scuole superiori, le università), è più facile che i pregiudizi di ogni tipo allunghino le proprie radici. Per quanto ne sappia, al momento non mi pare che l’influsso sugli autori autoctoni e la loro produzione sia di peso.
Non dimentichiamo che l’Italia è, sì, una Nazione avanzata, ma delle sue centocinque città (ossia centri con almeno sessantamila residenti), solo due hanno un numero di abitanti superiore al milione (Milano e Roma); e Napoli e Torino lo superano solo grazie alle loro fasce urbane. Altre undici città ne hanno fra i duecentomila e i seicentomila o poco più; e ventinove fra i cento e i duecentomila abitanti: tutte le altre sessantasei fra i sessantamila e i centomila. Non contiamo poi i centri minori, i paesi non sempre piccoli… I comuni italiani sono settemilanovecentoquattro, così il conto, sottraendo il numero delle città, è presto fatto. Una simile frammentazione permette all’Italia di conservare tante peculiarità, culture, lingue, usi e tradizioni specialissime e addirittura arcaiche, ma anche di mantenere una certa chiusura. Per giunta, con la velocità, la facilità dei collegamenti stradali, ferroviari, aerei, non è che tutti gli scrittori o gli intellettuali vivano nelle grandi capitali dell’editoria, dove la vita metropolitana è più faticosa, ma anche più attraversata dalle inquietudini e dagli effetti del nuovo.


Questo è l’anno Pasolini in Italia. In tutta la sua produzione, egli articolò una domanda sul senso della vita, della sofferenza e della morte. Può fare il punto sul lascito dell’insegnamento pasoliniano?

Personalmente, ritengo che Pasolini abbia contribuito a rilanciare alcuni valori, come la libertà, la capacità di vedere il mondo attraverso la lente delle arti, indicando la strada del coraggio intellettuale e dell’urgenza di dare alla letteratura quanto di forte spetta alla letteratura: ciò che le è stato invece tolto da un secolo e più di decadentismo e di suoi residui epigonali. Nonostante il suo pessimismo, Pasolini crede nella necessità di pronunciare comunque la parola – una parola abitata da uno slancio etico – e di opporsi al mondo attraverso di essa. Proprio per questo pieno, per il confidare nei valori del significato, di cui si fa garante chi quella parola pronuncia, con l’intera sua persona, l’intera sua vita stessa, Pasolini ci parla ancora oggi con un accoramento e una forza di verità che non possiamo non sentire nostra.
Tuttavia, ci sono anche contraddizioni concettuali e aporie indotte nel suo pensiero da psicologismi, vitalismi e semplificazioni varie, di cui ho scritto (Sciascia e Pasolini: Intellettuali, aporie, verità) in un recente volume di autori vari a cura di Filippo La Porta, Gli ultimi eretici (Marsilio). Di ciò bisogna essere pienamente consapevoli. Può aiutare in tal senso la lettura parallela di altri scrittori/poeti e pensatori come Sciascia, Noventa, Quadrelli e ovviamente Fortini.


Esiste ed è definibile un’attualità pasoliniana per gli autori che sono arrivati dopo il 2 novembre 1975, giorno della morte di Pasolini?

Per quanto ho detto nella prima parte della risposta precedente, sì, senz’altro. Ma in generale, ovviamente in generale lo ribadisco, molti nuovi autori sembrerebbero poco interessati a una idea forte di letteratura, e molto, invece, al mercato, alla televisione e simili. La letteratura, la scrittura sono discipline dure, richiedono studio, fatica, il porsi grandi ambizioni e restare umili. Costruire e guardare in alto.


A cura di Afrodita Cionchin e Giusy Capone
(n. 4, aprile 2022, anno XII)