Daniel D. Marin: «Non so se l’impronta sia mia o dei personaggi delle mie poesie»

Con due componimenti, tradotti da Serafina Pastore, del poeta Daniel D. Marin, da alcuni anni stabilito da Călărași a Sassari, ci addentriamo, grazie all’intervista a cura di Liana Vrajitoru Andreasen, nella galassia di voci dell’ultima generazione di poeti romeni post-anni 2000, di cui Daniel D. Marin è uno degli esponenti più di rilievo. Sfiorato dalla corrente dei «fratturisti», Daniel D. Marin ha superato quel linguaggio concependone uno di nuovo e personale, sospeso in una realtà altra, che la critica più attenta ha provato a definire con la formula di «microrealismo magico».


Tra le tue influenze letterarie, quali potrebbero essere le più significative? 

Mi chiedi se la mia ispirazione poetica si sia incrociata con quella di altri? Una volta sono passato dal cenacolo che teneva Mircea Cărtărescu presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Bucarest. Era l’ultimo incontro e c’era aria di ‘festa’. Marius Ianuș, all’epoca il giovane poeta romeno più promettente, presentava il suo libro di esordio e nella sala erano presenti i fracturiști che vedevo per la prima volta. Alcuni punti del loro manifesto letterario mi colpirono così tanto da farmi credere, immediatamente, che fosse quello il mio modo di scrivere. Mi sbagliavo. L’essere diretti, lo shock, se sono raddoppiati dalla retorica, non sortiscono nessun effetto su di me, in quanto che finiscono per chiudersi nel descrittivismo e in elencazioni poco credibili: non hanno quella forza che sgorghi da dentro se stesse o dalla vita di chi le trasmette, ma solo dall’atto sommario di puntare il dito. Vivo più intensamente se i miei personaggi vivono più intensamente. Interpretavo la ‘frattura’ diversamente da come la praticano i fracturiști. Tu, in qualità di scrittore, puoi imitarla, ma come personaggio no! E la frattura non è sociale o politica, ma a livello di piccole entità che popolano il nostro orizzonte interiore. Le piccole entità divorano le grandi. Anni fa, in un articolo che non ho ancora pubblicato, mostravo come Ofelia Prodan, poetessa il cui debutto editoriale è avvenuto nel 2007, immagina, nei suoi libri, una sorta di mutanti tra un qualcosa che appartiene al poeta e un qualcosa del lettore capace di far scattare l’empatia, il legame diretto, immediato, senza alcuna mediazione forzata o intenzionale. Senza mettere se stessa al centro delle cose, ‘inscena’ una storia dove i suoi personaggi, ipnotici e tangibili (anche in un immaginario collettivo), tengono con il fiato sospeso, è il nuovo realismo, sondato già all’inizio del 2000 (un po’ in senso sociale – un po’ politico), che raggiunge una dimensione prima d’allora impensabile. L’articolo si chiama «La realtà nelle visioni e i personaggi del nuovo realismo». Mi piacerebbe, quindi, essere ispirato o essere stato ispirato dalla realtà di alcuni di questi poeti.

Per quale tipo di pubblico scrivi poesie? Ti rivolgi a un pubblico a te familiare o sconosciuto? In altre parole, sono poesie ‘romene’ o ‘universali’? Provi a scrivere poesie che chiede/si aspetta il pubblico oppure vuoi sorprendere?

Il pubblico per caso ti chiede se hai pensato a lui quando hai scritto qualcosa? E, se dovesse farlo, indipendentemente dalla tua risposta, alla fine non resta con ciò che hai scritto? Puoi essere simpatico al pubblico nella maniera in cui lo sono i tuoi testi. Altrimenti sarebbe una relazione artificiale, una falsa seduzione di breve durata. Io sono il mio primo pubblico, familiare e sconosciuto. Quando scrivo, ho accanto me stesso e allo stesso tempo sono il lettore. Se ciò che scrivo mi interessa, mi coinvolge, vado avanti. Se mentre scrivo una poesia mi addormento è chiaro che non posso scriverla, come potrei trasmetterla a un altro lettore?! Mi sono sempre chiesto quanto potrei sentirmi a mio agio vicino al pubblico. Con il primo libro non mi ci sarei sentito molto a mio agio (le sue poesie possono essere lette solo in solitudine), ma a partire dal secondo credo di aver cominciato a starci più a mio agio. Infatti, le poesie possono essere lette in pubblico. L’ex direttore dell’Istituto Culturale Romeno di Madrid, Horia Barna, mi ha detto che ciò che avevo letto nel 2009 a Madrid suonava molto “naturale” in spagnolo.  È possibile, quindi, che alcune delle mie poesie possano essere paragonabili ad altre letterature, tuttavia non ho avuto occasione di verificarlo: vivo in Sardegna da pochi anni e finalmente posso ‘tastare il polso’ alle mie poesie in un’altra lingua e in un altro contesto culturale.

Si osserva una tendenza surrealista nelle tue poesie. Consideri che ciò ti collochi in una tradizione (ad esempio, Gabriel García Márquez) oppure si tratta di un surrealismo con una caratteristica propria? I personaggi come Chibrit (Fiammifero), o il narratore di Cum m-am sinucis (Come mi sono suicidato) sembrano appartenere a un altro tipo di realtà. Cosa ti attrae verso questa tipologia di personaggi? 
  
Ștefania Mincu parlava di un tipo di surrealismo inespressivo, nel quale «sia l’illusione della metafora, sia l’illusione di alzare la cortina tra reale e testo, del contatto minimalista e cinematografico del reale-in-quanto-reale sono state bandite silenziosamente dalla poesia». E continua affermando che è una poesia che «diventa sibillina e scende negli strati di ‘terrorismi’ e di catastrofi apocalittiche nascoste nei gesti più piccoli, dallo stadio dell’infantilismo assoluto, perpetuato tuttavia come stadio unico dell’umanità, dove l’essenza umana è minacciata da una specie di senescenza precoce e dove incuba in silenzio la violenza e il crimine», dato che hai citato Chibrit e Cum m-am sinucis. Sicuramente, Ștefania Mincu non si riferiva a queste due poesie (le ho pubblicate solo in inglese, in Romania non ancora), ma a quelle di L-am luat deoparte şi i-am spus («L’ho preso in disparte e gli ho detto»), il mio libro più conosciuto. Cosa potrebbe attrarmi in questo mio tipo di personaggi? ‘L’innocenza colpevole’? Il turbamento della tranquillità, che si insinua nella realtà di ciascuno? So che non si tratta di retorica, non le ho mai dato spazio. Allo stesso tempo, sono consapevole del fatto che le tracce della realtà nella mia poesia possono essere ugualmente immaginarie o allucinanti e che i mostri non provengono solo dall’esterno, ma anche dall’interno, dalla mitologia di ciascuno. «Il microrealismo magico», osservato da Paul Cernat in L-am luat deoparte şi i-am spus (2009), mi potrebbe avvicinare, non è così?, a Gabriel García Márquez. La biografia ‘chimerica’ di Aşa cum a fost (2008), «con sospensioni soprattutto in età e in stati interiori piuttosto che in strette riletture – nostalgiche, euforiche o ansiose – di memoria» (Al. Cistelecan) mi potrebbe avvicinare a me stesso. E la signorina O., personaggio del mio ‘film’ di 16 poesie, si troverebbe, così come la vedo io, su una strada interiorizzata e iniziatica, anche se apparentemente non porta da nessuna parte se non nella sua immaginazione infantile ed eterea.  Di conseguenza, non so se l’impronta sia mia o dei personaggi dei miei poemi. Sarei più a favore di una loro identità.

Come definiresti la poesia nel 21° secolo?

Come è stata definita prima del 21° secolo? Queste definizioni riduttive sono in continuo movimento e non si sa esattamente quale sia più avanti e quale più indietro. A ogni modo è soprattutto il ruolo dell’altro a dircelo. Ion Mureșan è dell’opinione che «la poesia sia una reazione di difesa di un organismo. Quando la società è malata, proprio come quando lo è l’organismo, secerne gli anticorpi. L’esplosione della poesia a partire dal 1990 è segno che la società è malata. L’organismo sociale ha prodotto i poeti, e questi di conseguenza hanno il ruolo di curare, di debellare l’infezione, attraverso quello che scrivono». Credo che ometta dall’equazione, ingiustamente, i piccoli mostri citati prima che mangiano quelli grandi. La psiche umana può divorare, credo, anche in assenza di stimoli esterni, anzi soprattutto in quel momento. Per provare, possiamo isolarci, per periodi sempre più lunghi, dagli altri. In relazione a me, la poesia a volte si fa vedere, si ferma per un po’ e poi va più lontano. E nei rari momenti di grande vicinanza, qualche volta mi permette di farla accomodare in un libro. Non pensare che essa abbia la puzza sotto il naso o che sia infedele, è fedele quanto posso resistere io.



L’uomo del canneto

appena si faceva giorno, si divideva in due
e una testa con i capelli arruffati e la barba nera
si affacciava e guardava con due occhi vispi
se ci fosse qualcuno nei paraggi,
un omone vestito in un abito sgualcito usciva,
fissava uno specchietto scheggiato nel cavo di un albero,
si preparava, si metteva addosso l’olio alla mirra,
in mezz’ora l’abito sgualcito sembrava nuovo,
e l’uomo sembrava un profeta, prendeva il bastone
e andava di casa in casa, parlava con grazia,
dispensava saggi consigli
e chiedeva soltanto pane e acqua,
alcune persone lo mandavano via, altri lo maledicevano,
ma lui non si adirava, gli diceva che sarebbe passato la prossima volta,
allora si infuriavano e gli aizzavano contro i cani,
ma i cani quando gli si avvicinavano gli leccavano i palmi delle mani
e scodinzolavano, poi andava alla taverna,
si sedeva in un angolo e come un bambino guardava
le persone che si ubriacavano e si azzuffavano,
si rattristava, ma non gli diceva nulla, si curvava
come se avesse avuto un peso sulle spalle
e così, piegato, camminando sempre con più fatica,
all’imbrunire tornava nel suo canneto,
stanco lanciava un’occhiata a sinistra e a destra
affinché non lo vedesse nessuno e spariva per un’altra notte.

 

L’Inconsolabile

quando è morto, non sapevano né il suo nome,
né la sua sorte, cosicché sul ciglio della fossa lo battezzarono
l’Inconsolabile. la sua barba era nera e aspra,
il cappello qualcuno glielo aveva tirato sul volto
e qualcun altro giurò di avergli visto
gli occhi come due carboni accesi fissarlo attraverso
il cappello. in 6 si sono sforzati
nel trasportarlo nella bara di legno appena costruita
e altri 3 ancor prima si erano affannati
per far entrare il corpo nella bara e le mani
sul petto. il prete cantava come se maledicesse un
diavolo smarrito. incensava e imprecava
tra i denti, imprecava e incensava, e quei 9
lo facevano scendere piano nella fossa profonda quanto un abisso,
„l’Inconsolabile troverà pace solo nell’abisso”,
uno dei 9 si chinò e cadde come se fosse stato colpito da un fulmine,
„guarda, gli si vede un pezzo di animale tra
le labbra, sarà un vampiro l’Inconsolabile”, osò dire
il secondo e cadde fulminato. “non vedete che tra le dita
ha una sigaretta dalla quale aspira direttamente
nel petto, al posto della candela, è il diavolo in persona”,
e anch’egli cadde fulminato. “non ha le scarpe
ai piedi, ma questi non sembrano piedi,
bensì zampe di orso, vuoi vedere che ha vissuto
con le belve nelle foreste intorno
e ha mangiato i nostri animali vivi!”, appena lo disse
cadde anch’egli fulminato. “Dio mio,
tra le gambe ha una fune, sarà la coda di un diavolo
o si è impiccato”, e come disse questo
venne fulminato all’istante. “Oh Dio, l’Inconsolabile
si muove, questo non è affatto morto”, cadde
fulminato, e il settimo disse “buttiamolo!”
e divenne una fiamma, gli ultimi due, terrorizzati,
subito lo gettarono nell’abisso.



Intervista di Liana Vrajitoru Andreasen
Traduzione di Serafina Pastore
(n. 2, febbraio 2021, anno XI)