Cristina Stanescu: «Con le mie radici romene ho un legame fisico, sensoriale, magico» In questo numero pubblichiamo un’inchiesta esclusiva sulla scrittura migrante romena in Italia, alla quale la nostra rivista dedica una sezione speciale e un database in costante aggiornamento. Abbiamo intervistato nove fra gli autori più attivi del momento, che rappresentano una realtà complessa e variegata: c’è chi scrive solo in italiano e chi scrive e pubblica in entrambe le lingue, c'è anche chi traduce libri romeni in italiano, c’è chi vive in Italia da più di vent’anni e chi è tornato a vivere in Romania dopo vent’anni oppure vive tra i due paesi. C’è chi scrive soprattutto poesia e chi predilige la narrativa. Quanto alla distribuzione di genere, la maggior parte sono donne. Ritieni che in Italia ci sia sufficiente attenzione sulla «letteratura migrante»? Quali scrittori migranti romeni hanno attirato la tua attenzione? Da Ionescu a Eliade a Cioran. Conosco poco purtroppo i contemporanei. Quale pensi che sia l’apporto della scrittura migrante alla letteratura italiana dei nostri giorni? Credo che la letteratura migrante possa portare molta ricchezza alla letteratura italiana e mi piacerebbe fosse apprezzata e sfruttata come «cavallo di Troia» per entrare in un mondo «diverso» ma da cui trarre spunti, stimoli e occasioni di crescita. Penso che invece venga spesso considerata come un punto di vista «regionale» e quindi geograficamente connotato e quindi poco interessante per il grande pubblico. Secondo te, che cosa differenzia uno scrittore «migrante» da uno «stanziale»? Credo che un migrante sia un viaggiatore che ha lasciato il cuore a casa. È guardando indietro e dentro la sua valigia che trova la sua ispirazione, o almeno è attraverso gli «attrezzi del suo bagaglio» che guarda il nuovo mondo. E quindi è capace di osservarlo da un punto di vista nuovo, attraverso i filtri della sua cultura. E di apportare a quel mondo elementi assolutamente diversi e interessanti. Le tue origini sono romene. Qual è il legame con queste radici e con la Romania? Un legame fisico, sensoriale, magico. Qualcosa che è nato da bambina. Nei primi cinque anni della mia vita mia nonna ha vissuto con me e mi ha cresciuta parlando romeno, cucinando sarmale e bruciando la candela sotto l’icona della Madonna in casa. A Marzo arrivavano via posta i Mărțișor e i pochi parenti e amici che potevano venire a trovarci portavano il locum e io ricordo i denti che si conficcavano dentro quei cubetti zuccherini e collosi, la bocca che si appiccicava. E poi ricordo le grida quando qualcuno si appoggiava con le braccia agli stipiti della porta: «porta sfortuna diceva mia nonna». Il suo senso del destino. A ogni domanda che le ponevo rispondeva: «Se ci è fortuna», con quell’italiano sgrammaticato che in tanti anni non è mai migliorato. Poi, da grande, ho scoperto il paese, la storia, l’emozione della rivoluzione, i viaggi, le persone. Ma quelle prime impressioni infantili rimangono «la mia Romania». Quale, invece, il tuo rapporto con la lingua romena? La lingua romena per me è un mistero: la capisco spontaneamente, ma quando si tratta di parlarla emetto suoni sgrammaticati come un indiano d’America. La ragione è sempre da cercare in quei miei primi cinque anni di vita. In casa sentivo parlare romeno, ma appena iniziato a parlare credo di aver aderito alla lingua di mia nonna che era mezzo italiano e mezzo romeno. Allora mia madre, che era un medico pure molto in competizione con la suocera, ha proibito sia a lei che a mio padre di parlarmi romeno. Così è rimasto il ricordo della lingua nelle orecchie e quella strana capacità, quando serve, di farmi capire, estraendo le parole come da un cassetto segreto. Ho inutilmente seguito un corso di lingua a letteratura romena alla facoltà di Filosofia dove mi sono laureata: ho solo rinfrescato quello che sapevo. Ma appena metto piede sul suolo romeno miglioro subito. È davvero strano. Ti piacerebbe arrivare un giorno a scrivere un testo letterario in romeno o a tradurre in italiano dalla letteratura romena? A tradurre non penso lontanamente. Ho studiato in un liceo linguistico molto severo. L’inglese e il francese li parlo e li scrivo bene, ma tradurre è un’attività a cui guardo con grande rispetto e ammirazione. Non mi sono mai sentita in grado nemmeno di provarci con lingue che conosco bene. Figuriamoci il romeno, non basterebbero 20 anni di studio. Però a me tradurre non interessa. Reputo la lingua una meravigliosa chiave d’accesso a un mondo che altrimenti sarebbe completamente precluso. Mi basta conoscerla per parlare con la gente. Questo è un dono grande e la strada maestra per conoscere un popolo. Quando hai cominciato a scrivere e perché? Ho cominciato a 11 anni a scrivere il diario. È sempre stato un modo per dare più realtà alle cose. Per farle restare, per poterle guardare con calma. Quanti e quali libri hai finora pubblicato? Ho pubblicato due romanzi: Quando le foglie ridono, nel 2019, e La linea della vita nel 2022. Entrambi con Sem, Società editrice milanese (Feltrinelli). Quali sono i temi più ricorrenti nei tuoi scritti? Mi piace raccontare le storie delle persone, i loro desideri, le loro difficoltà. Spesso intrecciati a fatti di cronaca o fatti storici. È stato difficile trovare un editore? Non è stato facile. Il primo è stato rifiutato varie volte. Il second, subito pubblicato. Hai partecipato a concorsi e festival letterari? Come promuovi i tuoi libri? Ho partecipato ad alcuni festival. Promuovo i miei libri coinvolgendo colleghi giornalisti, facendoli partecipare a festival e rassegne, organizzando tante presentazioni in tutto il paese. Quali sono i tratti peculiari del tuo linguaggio? Inserisci nei tuoi scritti anche parole romene/straniere o voci dialettali della regione in cui vivi? Il mio linguaggio varia. Nel primo libro era piuttosto ricercato e poetico. Nel secondo molto giornalistico, asciutto e scarno per dare spazio alla complessità della storia. Quando ci stanno bene uso volentieri parole dialettali o straniere. Quale potrebbe essere, secondo te, il ruolo e la funzione della scrittura nel frangente storico che stiamo vivendo? La scrittura è ciò che ci permette di dar voce e di ascoltare i pensieri. In un’epoca di stimoli ridondanti, affidarsi alla parola scritta aiuta a recuperare la concentrazione e l’immaginazione. La «Voce» dell’autore è semplice e allo stesso tempo complessa. Ci obbliga all’attenzione, al silenzio, alla riflessione. E poi la scrittura rimane, il libro è un oggetto caro, da custodire, tramandare. Non cederò mai a Kindle! A cura di Afrodita Carmen Cionchin |