A Londra con Cristina Marconi e la sua Virginia Woolf

Cristina Marconi, laureata in Filosofia alla Normale di Pisa, vive a Londra e da dieci anni racconta l’Inghilterra sui giornali. Con il suo romanzo d’esordio, Città irreale (Ponte alle Grazie, 2019), è stata nella dozzina del Premio Strega ed ha ricevuto il Premio Rapallo Opera Prima e il Premio Severino Cesari. Insegna scrittura creativa.
In A Londra con Virginia Woolf. Passeggiate nella città della vita (Giulio Perrone editore, 2021), Cristina Marconi accompagna il lettore tra le vie e i quartieri, protagonisti e sfondo della vita e delle opere di Virginia Woolf che, anche da «una stanza tutta per sé», celebra la città che somiglia alla sua anima: Londra e la scrittrice, ugualmente avide di vita, ugualmente tese verso il dramma. Entrambe tanto luminose, quanto popolate da ombre. Londra è una città di tombe, una città che fa amicizia con cimiteri e fantasmi; la stessa confidenza che Virginia ebbe con la vertigine della morte.


A Virginia Woolf i medici raccomandarono senza mezzi termini di stare lontana da Londra. Troppo sensibile la scrittrice, troppo animata la città: due elementi che, combinati, non potevano che gravare su un’anima già infragilita da lutti e dolori. Eppure è a Londra che la scrittrice vorrà sempre tornare e sempre rimanere: nella capitale trova l’entusiasmo elettrizzante di una passeggiata fatta per comprare una matita, i suoni perduti di Orlando che pattina con la principessa russa sul Tamigi gelato, la vecchia Kensington dell'infanzia vittoriana e la nuova Bloomsbury, il salotto che accoglie intellettuali e artisti. La vita di Virginia Woolf a Londra è scandita dai continui traslochi: otto in tutto. La casa che si affaccia su Gordon Square, chiara e vuota, la prima con la luce elettrica e il 3S di Brunswick Square, dove vive sola con altri uomini. Queste case sono il suo punto di vista sulla città, e cioè sul mondo intero, sulla realtà con le sue tragedie e i suoi cieli.


Il suo saggio riecheggia l’impianto di Virginia Woolf’s London, pubblicato decenni or sono e firmato da Jean M. Wilson. Quale metodo ha adoperato per ricostruire i luoghi londinesi frequentati da Virginia Woolf?

Ho iniziato ripensando a quello che mi era rimasto della lettura di Woolf, gli istinti e le impressioni, dopodiché ho riletto tutta la sua opera, le lettere e due biografie, quella di Quentin Bell e quella di Hermione Lee, immergendomi in tutta la bibliografia disponibile nella grande sala di lettura della British Library. La storia della scrittrice è talmente legata a Londra e rappresentativa del suo rapporto con la realtà che non potevo non raccontare la sua vita, i luoghi che l’hanno definita. Ma da londinese Virginia Woolf è anche la migliore guida possibile, le sue descrizioni dei quartieri hanno aiutato anche me dopo 11 anni a capire piccoli e grandi misteri della città e ho pensato di ‘spiegare’ ogni quartiere con le sue caratteristiche, come fosse una Lonely Planet. Infine, ho voluto ragionare sulla sua eredità e sul modo in cui la città l’ha celebrata o, troppo spesso a mio avviso, si è dimenticata un po’ di farlo.


Lei scrive: «Elettrica e bianca, nei romanzi di Woolf, Londra è sempre molto di più di uno sfondo, è un filo intrecciato nella trama dell’esistenza dei personaggi in maniera così profonda che non è facile districarla. Impossibile da delineare, è trasparente e onnipresente, come l’aria, una dimensione da cui si può entrare e uscire per ‘rinfrescare’ la propria stagnazione». È possibile ricostruire l’immaginario poetico di Woolf, attizzando il focus attentivo esclusivamente su Gordon Square, Brunswick Square, Hyde Park o Bloomsbury?

Lei non confonde le parti di Londra, per lei i quartieri sono come i paesi del mondo, tutti diversi e capaci di rimandare una diversa idea di società, di estetica, di umanità. Per questo credo che la città vada vista nel suo insieme, e mappata in quanto tale, per capire le sfumature di una scrittrice chirurgica come la Woolf, che se proprio doveva viaggiare lo faceva nel tempo. Hyde Park è il passato, il luogo conservatore e asfissiante dell’infanzia, ma anche il serbatoio dei fantasmi e di tutto quello a cui la memoria è condannata a tornare. Bloomsbury è una sorta di nuovo mondo, una pagina bianca che le due sorelle Stephen hanno riempito insieme in maniera memorabile. In ogni strada c’è una sfumatura, tutto è un codice che lei ci permette di interpretare.


«Londra è un incanto. Esco e poso il piede su un magico tappeto bronzeo, e mi trovo rapita, nella bellezza, senza neppure alzare un dito”. Quali sono le ragioni per le quali i medici ne consigliano l’allontanamento?

Londra è elettrica e Virginia Woolf troppo sensibile, impressionabile, come si può facilmente intuire leggendone le pagine. Quando va a vivere nella City, che è una sorta di ultra-Londra, ancora più densa e frenetica, gli stimoli sono eccessivi, il ritmo vorticoso, e lei perde l’equilibrio, infragilita anche dai lutti e dagli eventi tragici del passato. I medici chiedono per lei il riposo e il riposo di una mente così impressionabile non può che passare attraverso l’assenza di impressioni che solo la campagna può regalare. E per tutta la vita sarà così: quando sarà abbastanza stabile si potrà permettere di vivere in città, quando starà male i parenti e i medici insisteranno per il verde, o per una soluzione di compromesso come Richmond, elegante cittadina lungo il Tamigi che appartiene a Londra senza esserne un sobborgo. Lei implorerà sempre di tornare verso il centro, verso i teatri e i salotti e i parchi e i musei che tanto ha amato.


Lei vive a Londra. Ebbene, è ancora una città caleidoscopio, multiple, imprevedibile, variabile? 

In realtà dopo 11 anni abbiamo deciso di trasferirci e di tornare in Italia. Ma non l’abbiamo fatto perché Londra ci sia venuta a noia, tutt’altro: l’occasione di tornare si è presentata e la voglia di provare a fare una vita italiana ha prevalso. La città ha senz’altro risentito del Covid e del cambiamento di atmosfera legato alla Brexit, però io ho fiducia nel fatto che, da posto straordinario qual è, sappia tornare a splendere a stretto giro. Virginia Woolf ci parla di una Londra estremamente contemporanea, la capitale delle reinvenzioni e delle rinascite personali, e ci racconta di come la città sappia accendere i sensi di chi ci arriva. Senza saperlo, parla anche della generazione di stranieri che ha voluto fare di Londra la propria casa.


Moltissimi sono gli aneddoti riportati, ce ne narra uno a cui è particolarmente affezionata?

Io devo dire che non riesco a non commuovermi pensando a quello che Woolf scrive a proposito della poetessa Christina Rossetti – quando i pesci nuoteranno nella sua stanza di Torrington Square – e amo tutto quello che riguarda Ottoline Morrell, eccentrica amica della scrittrice. Ma forse la storia che mi piace di più è quella tragica della madre Julia e della sorella Stella, belle come due statue greche di epoca diversa, morte entrambe troppo presto e immortalate nelle immagini sbiadite di un mondo vittoriano della cui scomparsa Virginia Woolf è stata testimone, ma anche nelle foto così moderne di Julia Margaret Cameron, fotografa straordinaria di volti femminili e zia di Virginia.


La scrittura contemporanea può annoverare letterate illuminate, vere pioniere quanto a innovazione e rispetto della tradizione. Qual è l’attuale status della letteratura esperìta da donne?

Nel panorama italiano le voci femminili sono particolarmente forti al momento e questo genera in me una certa euforia. Anche se in generale non mi piace fare troppe distinzioni tra libri scritti da donne e libri scritti da uomini, era veramente ora che certi temi si facessero avanti con più prepotenza. Da Elena Ferrante in poi sto notando un bisogno di ripercorrere la condizione femminile degli ultimi decenni sotto una luce diversa, più analitica, spesso autobiografica, e questo è importante in un paese come l’Italia, in cui la forza intellettuale delle donne ha fatto fatica negli anni a trasformarsi in un reale potere femminile. Le donne sono grandi lettrici, è a loro che il mercato spesso si rivolge, ma a differenza che nel mondo anglosassone in cui ho vissuto per più di un decennio qui prevale la ricerca di storie forti, scritte bene, senza quella leggerezza tipica della letteratura di consumo. C’è un grande bisogno di immedesimarsi, di cercare personaggi incisivi, eroine molto reali, forse per compensare il fatto che la politica e la società faticano, per usare un eufemismo, a riflettere in modo adeguato le esigenze delle donne. La letteratura almeno ci prova e nel frattempo offre modelli, consola, interroga delle strutture che stanno saltando molto velocemente. Ultimamente giro molto nelle scuole e noto che stanno cambiando tante cose rispetto a qualche anno fa: le bambine di dieci anni alzano sempre la mano per prime e di principesse non ne vogliono sapere.


Le scrittrici sono e sono state sensibili a diverse ideologie, visioni del mondo, sensibilità politiche e filosofiche; personalità diverse tra loro e spesso assolutamente inconciliabili. Riesce a scorgere un fil rouge che annoda le plurime e molteplici anime della letteratura declinata al femminile?

Le scrittrici sono tuttora sensibili a tutto questo, ci mancherebbe! Io provo una grande tenerezza verso i femminismi imperfetti, l’apporto che ciascuna è in grado di dare a quella che vedo come una vera e propria lotta, anche se il problema è il passaggio alla politica, dove invece vorrei un femminismo un po’ meno imperfetto. Tornando alla sfera letteraria, come dicevo prima secondo me il fil rouge sta nella rivisitazione del passato recente, personale o collettivo, alla ricerca dell’elemento sfuggito, del momento in cui le cose sarebbero potute andare diversamente oppure del punto di forza nascosto, quello da cui ripartire.


Taluni reputano che la Letteratura non prescinda dal tempo per interpretare semplicemente lo spirito della Storia universale e che, ciononostante, essa sia congiunta alla finalità delle mode ed a qualsivoglia ambito del gusto. Quali potrebbero essere il ruolo e la funzione della scrittura nel frangente storico che stiamo vivendo?

Io vedo un mondo assetato di storie, da una parte per compensare quelle che la pandemia ci ha impedito di vivere, dall’altra perché è vero che ogni epoca pensa di essere particolare o folle, ma la nostra lo è davvero: in tempi imbizzarriti, abbiamo paura di essere disarcionati e il confronto con altri modi di vivere la realtà è un punto di riferimento importante. Per questo, credo, l’autofiction sta avendo un periodo d’oro: risponde anche alla curiosità che ciascuno di noi ha verso l’altro e che non è più tanto «chi sei?» ma piuttosto «tu come fai?».







A cura di Afrodita Cionchin e Giusy Capone

(n. 6, giugno 2022, anno XII)