Fare teatro in Romania tra tradizione italiana e internazionalismo. Intervista a Cristian Izzo Il 27 marzo scorso è stata celebrata la Giornata mondiale del teatro. In questa occasione pubblichiamo un’ampia intervista a Cristian Izzo, attore, regista, drammaturgo, pedagogo, studioso. L’artista italiano è legato ormai da molti anni alla Romania, attraverso i suoi spettacoli e la sua attività laboratoriale, in primo luogo all’Apollo International Theatre Festival di Alba Iulia diretto da Viorel Cioflică (Trupa «Teatrul Skepsis»), ma non solo. Il Festival di Deva, sempre in Transilvania, e il Grande Festival di Arti Medievali Sighisoara Medievala sono solo alcuni altri esempi di un legame sempre più forte tra Izzo e la cultura romena. Ripercorriamo qui il suo percorso artistico per scoprire come questo importante sodalizio con la Romania. Cristian Izzo, come ha mosso i primi passi nel mondo della recitazione e del teatro? Qual è la sua formazione artistica? La maniera in cui mi sono legato al teatro fin da piccolo è tra le più classiche e le più usuali: credo che il contatto sia dovuto quasi interamente alla figura di mia sorella, che fin dai miei tre anni era solita registrare su videocassette le commedie diffuse a tarda notte da «Palcoscenico ’92». Inevitabilmente il mio primo contatto fu Eduardo de Filippo, factotum assoluto di quel contenuto che mi veniva trasferito, in quanto autore, attore e regista delle sue opere. Da lì i teneri racconti familiari, di cui la memoria mi restituisce, talvolta, qualche bagliore quando a citare l’accaduto è la figura di mio nonno soprattutto, che mi vogliono impegnato così piccolo ad esibirmi nella imitazione di quelle commedie che imparavo a menadito, completamente, con un tale desiderio, da rendermi ben presto capace di utilizzare da solo il videoregistratore di casa. Così, invece dei cartoni animati, per me l’infanzia fu trascorrere le giornate a guardare quel teatro, fino a consumare il nastro delle videocassette. Poi, adolescente, come chiunque sia nato in provincia ed abbia il medesimo desiderio di sperimentare il teatro, frequentai una compagnia amatoriale presso l’oratorio: allora esse erano assai più comuni e diffuse delle attuali scuole di teatro, che ne hanno di fatto preso il posto nel primo approccio di un giovane con la recitazione. Tuttavia, la guida di quella compagnia, un docente di Italiano e Latino vecchio stampo, con una cultura davvero sorprendente e con una passione per il teatro che io raramente ritrovai più in altre figure da cui pur l’attendevo, ci educava ai fondamentali del teatro, facendoci recitare pochissimo: un po’ come un allenatore di calcio che deve ben guardarsi da gettare tutti in campo e giocare una partita, senza aver prima speso mesi a massacrarli sulle basi. Ancora adesso gli sono molto grato, soprattutto per ciò ch’egli tentò di comunicarci sulla musicalità della parola e sulla importanza della respirazione: e mi sorprendo ogni volta quando, tenendo un workshop per attori, scopro che in pochi sanno respirare come sarebbe utile. Dalla maggiore età ho cominciato una gavetta che non ritengo terminata e che mi pare non debba terminare mai: cominciai a lavorare come macchinista presso il teatro della mia città, oppure come responsabile di palco o di sala, che era l’unico modo per essere vicino e poter capire qualcosa di più del teatro professionale, degli uomini che ci lavorano, del rigore necessario perché tutto questo mondo che appare così promiscuo e frivolo, continui a produrre contenuti di un qualche interesse. Ed ebbi modo di incontrare anche attori che trovai eccezionali, come Luigi Diberti, Paolo Poli, o Paolo Ferrari. Lì fu anche il mio primo contatto con una scrittura contemporanea, avendo incontrato e assistito a La festa, di Scimone e Sframeli. Nel frattempo conseguivo la laurea in Lettere Moderne ed arricchivo la mia cultura teatrale in maniera personale, leggendo tutto ciò che potessi trovare a riguardo e studiando autori quanto più distanti possibili da ciò che conoscevo della nostra tradizione: così in me i testi di Eduardo, Viviani e Petito, si andarono sostituendo con Beckett, con Ruccello, con Wilde, con Moliere. Queste due spinte mi sono rimaste molto care: quella di andare sempre al capo opposto del punto in cui sono, piuttosto che procedere coerentemente in una direzione: e quella di considera la cultura possibile solo in quanto cultura individuale, non guidata e non condivisa per categorie: come un impegno quotidiano e quasi religioso da mantenere con il proprio studio e con la propria fatica, nella intimità del proprio intelletto. Presi parte anche, all’età di 19 e poi a 20 anni, a tre differenti lavori di Armando Pugliese, opportunità che mi diede la possibilità di essere vicino a tanti professionisti, che in qualche modo aiutarono a formare la mia prima impressione sul mondo del teatro italiano. In quegli anni ricordo di aver fatto un provino per una Accademia a Napoli: di essere stato selezionato e poi aver disertato per sempre, per un rifiuto profondissimo avvertito nella mia natura per quel modo di vivere la cultura ed il Teatro in maniera insieme troppo seriosa e troppo adolescenziale: come una gita di terza media in un campo di sterminio. Prima di lasciare l’Università, mi ritrovai ad esserne docente: mi fu chiesto di tenere un corso sul rapporto tra Teatro Meridionale ed Europeo, per il Centro Universitario per i Beni Culturali, Corso Maclands, Erasmus Mundus. Lo feci con grande piacere, realizzando una lezione spettacolare che ancora di tanto in tanto riporto in scena; e fu anche la prima volta che mi esibivo davanti ad un pubblico Internazionale, di cui nessun componente comprendeva la mia lingua. Dal 2011 avevo cominciato a scrivere e portare in giro nei circuiti e negli spazi cosiddetti Off di Napoli i miei testi: le prime commedie, che poi hanno piano piano lasciato spazio ai versi, al mito, o, se preferite, alla filosofia. La mia formazione è poi passata per un corso di drammaturgia tenuto da Enzo Moscato: e ricordo con molto affetto qual corso il cui tema era “La Storia come Soggetto e Oggetto del Teatro” e successivamente negli anni ho avuto il piacere di studiare in giro per l’Europa con Michael Haecht, mimo e pantomima, con Dan Viktor, teatro corporeo e fisico, con Joke Elbers, drammaturgia, con Gianfelice Imparato, interpretazione: ma ho sempre ritenuto che le lezioni più profonde venissero dalla pratica del teatro e se dovessi nominare dei momenti che mi hanno profondamente segnato, non potrei non riferirmi alla prima volta che incontrai artisticamente la figura di Antonio Neiwiller, partecipando ad un lavoro di Sandro Dionisio a lui dedicato. Da quell’incontro si è approfondito in me lo studio sulle Avanguardie che tanto hanno dato, nel bene e nel male, al teatro del secondo ‘900. Così come l’esperienza di essere diretto da Gianfelice Imparato in un testo da me scritto e successivamente di essere stato suo aiuto-regia per lo spettacolo Un coperto in più, con Maurizio Micheli e Stefano Bicocchi: o come non potrei non nominare i tre mesi di lavoro massacrante e quotidiano svolto sotto la regia di Ettore Nigro, per la preparazione di Ferdinando VIII, Re di Spagna, sempre una mia scrittura da Gogol. La stessa esperienza che dal 2015 mi porta a girare l’Europa con i miei lavori, presso le Accademie, presso i festival o i Centri Culturali, ha profondamente cambiato il mio modo di intendere il teatro come pratica di vita e come attività culturale. Per quanto io mi renda conto che l’attuale industria dello spettacolo lo richieda, io non riesco a scindere l’attività formativa da quella produttiva: esse per me non sono su una linea retta per cui si giunge dall’una all’altra, piuttosto si mescolano di continuo ed ognuna rimanda inevitabilmente all’altra. Oltre che come attore, sia sul palcoscenico che lo schermo, lei è anche regista, capocomico, scrittore. Come vive tutte queste professionalità insieme e vi è un ruolo che sente la identifica più degli altri? Per natura io sono tendenzialmente in conflitto con le necessità del mio tempo e mi sento molto legato a quel passato in cui l’esperienza del teatrante riassumeva in sé tutte le necessità della produzione: è per me una esperienza totalizzante. Prestato come attore al cinema o al lavoro di un altro, io posso tranquillamente divenire un apparato della grande macchina produttiva: e tuttavia quella non è che una riduzione per me della mia tensione e quasi non mi pare neppure lavoro. La necessità di definire e catalogare socialmente la mia attività mi imporrebbe di scindere il mio lavoro in tutte quelle definizioni che sono nella domanda posta: io preferirei però dire che sono un teatrante, intendendo con ciò richiamare ad una figura che produca per il teatro in tutti i modi possibili, come ho detto sopra. Per un fatto di praticità, però, mi è più facile frequentare la scrittura quotidianamente, minuto per minuto, che la performance, per cui si ha bisogno di condizioni che non sempre è facile reperire e che la scrittura non abbisogna. Io scrivo dovunque, in ogni condizione, continuamente, di tutto. Se non fosse divenuto una vanteria, poiché coperto di tali e tanti significati che nulla hanno a che fare con la reale condizione di chi «scrive più che vivere», con un filo di vergogna mi direi poeta. Ma per me, in verità, tutte le mie attività sono una cosa sola: sicché io mi sento uno scrittore mentre canto, un attore mentre scrivo: ma mai un regista, questo ruolo non lo riconosco e credo di lavorare in un modo tale che il ruolo del regista sia totalmente bypassato. Oltre al teatro «attivo» svolge anche attività di formatore e docente. Qual è il suo approccio con chi vuole fare teatro? Molto spesso, sin dall’inizio della mia esperienza internazionale, mi è capitato che i festival mi chiedessero insieme alla performance che si proponevano di ospitare, se non potessi condurre anche workshop per attori che partecipassero a quell’evento, o che appartenessero al territorio ove il festival si svolgeva: così mi sono trovato investito del ruolo di docente. Mi fu anche chiesto e concesso di realizzare un libro di riflessioni sul lavoro della scena, che presentai alla «SAMK», università di scienze ed arti applicate di Kankanpaa, Finlandia. Il mio approccio è assai poco metafisico e assai poco psicologico. Metto subito in chiaro che in quella occasione, in workshop che durano poche mattinate, al massimo una settimana, mi parrebbe arrogante e presuntuoso voler entrare nella intimità delle persone: e, in confessione, non ritengo che sia il mio dovere quello di andare ad occuparmi (in maniera poi così sbrigativa) dei traumi o delle sensibilità di un vissuto che non conosco. Inevitabilmente legato al modo in cui io intendo il mio lavoro, i miei workshop partono da alcune basi tecniche che ho già citato quali indispensabili: la respirazione, l’intonazione e la musicalità; per poi passare al mantra, al ritmo, alla mania, alla ossessione, alla maschera. Dominata dalla produzione cinematografica americana, oggi la nostra cultura dell’attore è quella di colui capace di imitare stati di coscienza suoi, o altrui (nel caso in cui si trovi a confrontarsi con le frequenti biografie proposte di personaggi più o meno recenti) fino al punto di agire sulla sua psiche e sulla sua identità cosciente; il mio è, sostanzialmente, un percorso opposto: provocatoriamente quando mi si chiede a quale attore mi ispiro io rispondo «Omero». Un recupero della maschera come sconfessione e negazione del volto, come immagine apollinea da distruggere attraverso il canto di Dioniso, come dichiarazione originaria della non riconoscibilità e non assimilabilità di colui che è sulla scena, degli eventi sulla scena e della scena stessa con ciò che accade nella quotidianità; un recupero del mito a dispetto del teatro storico-cronistico, anche attraverso lo studio di una improvvisazione (che sia rigorosa e scientifica) che può anche avvenire internamente all’evento fonetico-musicale, come tradimento della linearità che è direttamente legata al concetto di attore come simulatore di identità, tutto questo e tutto quello che è il mio tentativo teatrale, nei workshop viene tentato attraverso tecniche di canto e di lavoro sulla voce e sul corpo, che vengono svolte in maniera molto giocosa, intendendo il gioco come dimensione del sacro, del rituale. Lavoro anche molto sulle «posizioni»: ovvero, mutuando l’esperienza delle «mye» del teatro Kabuki, il tentativo di estromettere l’azione dalla scena, sostituendola con una disposizione fissa del corpo, più o meno simbolica, che offra tensione e plasticità al canto dei versi. Questo perché l’azione riconduce inevitabilmente alla vita cosiddetta «reale»: e fui felice di ritrovare in una intervista di Ennosuke III, un passaggio in cui egli rispondeva alla domanda dell’intervistatore sul perché dell’assenza nel teatro Giapponese dell’azione: egli rispose così «Perché l’azione è sempre volgare».
Parliamo di Romania. Con i suoi spettacoli è stato in tour e in festival in diversi paesi europei (Finlandia, Francia, Repubblica Ceca ad esempio), ma da qualche anno ha un rapporto privilegiato, anche di affetto, con la Romania. Come si è sviluppato questo importante sodalizio artistico? Ad esempio con il gruppo teatrale Skepsis che ogni anno organizza il festival Apollo di Alba Iulia. Tutto risale alla mia prima esperienza in un festival internazionale, nel 2015, al Vreme International Theatre Festival di Vratsa, Bulgaria: portai in scena un mio monologo tratto da I diari d’un pazzo di Gogol, che fu accolto in maniera veramente clamorosa dal pubblico del festival, composto anche dagli altri partecipanti e dai critici invitati. Tra le altre compagnie che assisterono alla performance, c’era la Trupa «Teatrul Skepsis», di Alba Iulia, guidata da Viorel Cioflică. Viorel amò molto lo spettacolo e complimentandosi mi chiese di prendere parte l’aprile seguente alla III edizione dell’Apollo International Theatre Festival. Ne fui felicissimo e, sempre in quella occasione, visionai la loro performance, un lavoro sulla Commedia dell’Arte che mi sorprese: fino ad allora la Commedia dell’Arte mi era parsa dominio di noi italiani e dei francesi, così chiesi loro il perché di quell’interesse. Viorel, che è un sociologo, mi spiegò che aveva partecipato a dei seminari e che aveva trovato quel genere eccezionale, in quanto vi rivedeva i conflitti sociali, le classi, la lotta tra loro e la dinamica che muove le comunità. Quando l’aprile successivo partecipai al Festival, mi innamorai in maniera folgorante di Alba Iulia e della sua gente: la straordinaria generosità e disponibilità delle persone, la loro genuinità e schiettezza, la loro accoglienza, insieme al ritmo dilatato della vita, al profondo contatto con la natura e quell’intima radice ancora rurale, profondamente anticonsumista ed anti-moderna, mi parvero veramente quali un’oasi dall’oceano di volgarità e cianfrusaglie in cui siamo continuamente immersi. Viorel, dal canto suo, si disse subito pieno di stima per il mio lavoro e riprendendo il discorso sulla Commedia dell’Arte, gli dissi che Ludmila, la sua compagna, nonché attrice bravissima, aveva vestito la maschera di Pulcinella, che spesso, da ragazzino, avevo indossato io. Viorel mi propose di tenere un workshop, il novembre seguente, per gli attori della sua compagnia, in cui avrei potuto lavorare per una settimana otto ore al giorno, sul lavoro attoriale: in cambio, però, avrei dovuto dedicare parte di quel tempo a condividere ciò che sapevo sulla Commedia dell’Arte e su come si recitava la maschera di Pulcinella. Io gli dissi che non potevo fornire lezioni accademiche e che l’attuale visione della Commedia dell’Arte, come veniva studiata nella scuola, mi pareva una versione stilizzata e circense di quelle che erano le potenti ed estemporanee produzioni sceniche dei guitti: e gli dissi che io soltanto il mestiere del guitto potevo condividere (badasi che per me la differenza tra il guitto ed il poeta tragico è quasi impercettibile: si veda l’assoggetto in Bene e si veda il rapporto Amleto/Yorick). Lui disse che era esattamente quello che sperava, perché ricordava di aver studiato un genere tra i più divertenti della storia del teatro, ma di aver poi assistito a messe in scena molto spettacolari, ma poco divertenti. Così accettai di condurre per loro quel workshop: da allora le nostre strade non si sono più divise e continuiamo a scambiarci idee per nuovi progetti da realizzare insieme: ho partecipato all’Apollo ogni anno da allora e parteciperò tutte le volte che potrò e mi sarà chiesto: così come ho partecipato nell’estate 2017 e 2018 al loro festival estivo: insieme abbiamo partecipato a due edizioni del Festival di Deva, sempre in Transilvania e nel 2018 al Grande Festival di Arti Medievali Sighisoara Medievala, tra i più importanti d’Europa. Abbiamo realizzato insieme cinque performance originali, condividendo con grande piacere il nostro lavoro: nell’ultima edizione, poi, in collaborazione con un partner del festival Interart Aiud e con Stefan Balog, scultore e pittore, abbiamo realizzato una performance su Giordano Bruno, combinando la mia performance, un oratorio poetico che mescolava versi di Bruno, Eschilo, Milton, Dante, e quella della compagnia con il lavoro di Stefan: una scultura simile a quella dedicata al Nolano in Campo de’ fiori a Roma, che è stata bruciata davvero sul finale, sotto la cattedrale Cattolica di Alba Iulia, regalando alla città un momento davvero unico. In ultimo ho anche espresso il desiderio di spostarmi definitivamente e vivere in quella città la mia vita, il che spero di realizzare presto. E non passa giorno che io non ripensi a quando proverò l’emozione, di nuovo, di vedere la bandiera romena sventolare alle porte della cittadella medioevale di Alba. Trovi differenze tra il modo di fare teatro indipendente in Italia e in Romania? Mi è parso di capire che in Romania, così come in Russia, il percorso di formazione e conseguentemente professionale, sia più lineare: mi pare che da loro il passaggio per le Accademie più importanti (Bucarest, Cluj, Sibiu, Târgu Mureş) sia fondamentale onde essere considerati dei professionisti, laddove da noi la formazione è concepita in maniera molto più «liberale» e frammentaria, molto meno rigorosa e soprattutto molto meno incisiva rispetto a ciò che sia un professionista: ciò accade, io suppongo, anche per una maggiore riduzione, in Italia, delle distanze tra la tv, lo show, il cinema, in ultimo il web e il teatro, ragion per cui vi sono molte strade per giungere al riconoscimento, mediatico o popolare, a cui comunque il sistema teatrale e gli attori di teatro italiani devono comunque piegarsi o si piegano volentieri, che poi fa sì che si sia eletti nel novero dei professionisti. Questo perché in Italia anche le accademie hanno perso la loro eccezionalità: ve ne sono di buone e meno buone, ma nessuna può garantire o interdire ad un attore la possibilità di lavorare, o di giungere al successo, che è sempre in agguato, dietro l’angolo. Ciò produce due effetti opposti: se in Italia sono le agenzie a farla da padrone, proponendo una pletora di attori senza nessuna formazione (non tutti, si badi, non tutti), che giunti al successo vanno poi ad occupare gli spazi teatrali altrui, secondo la classica logica della «rimediazione», tanto cara ai sociologi contemporanei, in Romania tutto (o quasi) ciò che non proviene da una Accademia viene considerato amatoriale o semi-amatoriale, mi è parso. Da due posizioni opposte l’effetto prodotto è quasi il medesimo: viene a mancare la possibilità plurale del teatro: ovvero la possibilità di un teatro che non abbia una identità di massa, democratica, di Stato, sociale o qualsivoglia, che lo configuri come «originale», «ufficiale», «il teatro quello vero», in reazione al quale è giusto invocare un teatro che sia indipendente: ma di un teatro fatto da artisti, che realizzino opere personali, secondo il proprio gusto e la propria libertà individuale che prescinda da logiche di mercato o accademiche; che è poi nient’altro che un porre dei limiti alle possibilità del teatro: limiti di pubblico, per i quali si continua ad avere il «circuito commerciale», quello «per gli amanti» o per «gli eruditi» o per «gli addetti» e in ultimo il teatro indipendente per i «few! We happy few!» dal pensiero raffinato, anticonvenzionale. Ma d’altronde, indipendente da cosa? Indipendente dai contributi ministeriali, prima di tutto: ma perché un Ministero sia un Mecenate, prima un Ministro deve diventare un Ludwig II di Baviera. E dunque senza aristocrazia non resta che separare l’arte in categorie: onde essere guardati (in Romania dichiaratamente, a causa di quanto poco fa ho scritto, della esclusività delle Accademie; in Italia in maniera fintamente modesta) dall’attore «professionista», o «popolare» di turno, con quell’occhio di superiorità che si ha verso chi «vorrebbe ma non può». Io sostengo senza alcun dubbio e senza fare di tutt’erba un fascio, che siamo molto più devoti e professionali noi, sottoposti continuamente alla pressione di tutte le avversità socio-economiche, allo scontro col pubblico che non ha alcun motivo che lo intimorisca e lo faccia giungere a noi «già applaudito» da casa, che dobbiamo occuparci di tutto ciò che riguarda un evento, o la realizzazione di un progetto, compreso ciò che col nostro lavoro non c’entra nulla, per realizzarlo: e questo non per una visione proletaria dell’artista-operaio, ma perché in ciò risiede quella natura totalizzante di cui ho scritto e che mi riguarda: e mi pare, di conseguenza, che sia molto più incisiva sulla comunità l’attività che Viorel e Skepsis svolgono, in maniera del tutto indipendente, subendo i pregiudizi dei festival e delle maestranze ufficiali (anche se diverse di queste in ultimo hanno dovuto riconoscere il valore del loro lavoro, hanno voluto dialogare ed hanno anche preso parte a qualche edizione del festival), rischiando tutto il loro lavoro e il loro sforzo per portare alla città di Alba un festival che è identificato come il festival «della gente», il festival «di Alba Iulia», grazie anche alla sua attenzione per le performance in spazi aperti, che il lavoro di tanti teatri Stabili, o Nazionali, cui assistono solamente gli abbonati e i seguaci e che relegano il teatro ad una dimostrazione di capacità dei teatranti dinanzi ad altri teatranti. Inoltre, mi pare debba esserci un motivo se una operazione come quella dei vari festival internazionali che ho visitato in Europa, come l’Apollo di Alba Iulia, non si riscontri e non venga realizzato in Italia. Forse è legato alla nostra poca attenzione per lo scambio culturale, una forma latente di provincialismo: ma un festival con spettacoli dall’estero, in lingue diverse, di attori non conosciuti al pubblico dei mass-media, di produzioni indipendenti e non istituzionali, qui sembra impossibile perché (e questa è la risposta che forse sintetizza la logica delle attività culturali in Italia) pare non avrebbe mercato. Anche quest’anno saresti stato tra i protagonisti di Alba Iulia. Uso il condizionale perché, a causa della difficile situazione internazionale dovuta al Covid-19, non è ancora confermato lo svolgimento del festival tra il 7 e l’11 maggio 2020. In caso, la rassegna si svolgerà a inizio autunno. Che progetto è previsto per questa edizione 2020? Il lavoro che quest’anno intendo portare in scena ad Alba Iulia, in occasione del festival Apollo, è un riallestimento di un mio concerto/saggio su Hamlet di Shakespeare, che debuttò in Repubblica Ceca nel 2016 e dopo un tour nello stesso Paese, ha poi preso parte alle 18a edizione dello Shakespeare Internation Theatre Festival di Thournon sur Rhone, in Francia, nel 2017. Sono felice di poter tornare a questo lavoro e di presentarlo ad Alba Iulia, dopo averlo rimandato per tre edizioni, causa gli altri progetti lì realizzati con la collaborazione di Skepsis. Il lavoro traccia una curva che sottolinea in Amleto la comparsa sulla scena dell’uomo moderno, ovvero di quella crepa/spiraglio apertasi sul volto e nel destino dell’eroe tragico che fino ad allora occupava il suo posto. La presenza di una legge Morale incrollabile, del dovere ultraterreno, del fato divino, che il Romanticismo e l’idealismo tenteranno un secolo dopo di recuperare, con Kant, Hegel e che riceverà poi il colpo di grazia nell’800 ad opera del pessimismo, viene messa in discussione e comincia a vacillare nel profondo dello spirito umano per la prima volta: così di Amleto, che non si risolve a trovare in sé stesso quei valori che la tradizione (lo spettro del Padre) avrebbero dovuto tramandargli e che dovrebbero spingerlo alla vendetta quale riscatto del proprio nome. Ovviamente questo cambia anche la storia del poeta tragico e del suo modo di scrivere e di stare in scena: nella tragedia infatti irrompe il buffo e il comico in una mescolanza prima mai sperimentata (o almeno non con questi risultati): e così è dell’attore che nel provarsi eroico, non può che sentirsi ridicolo e vano e sentire la vanità del suo eroismo e della scena stessa. Ed infatti, su una traccia registrata che fa da habitat sonoro e su cui scorre inesorabile e a brandelli il dramma eternamente ripetuto del principe di Danimarca, cui l’attore/Amleto è obbligato, in un dispendio di energie assolutamente folle ed ingiustificato, vediamo la battaglia tra l’uomo e la tradizione: le migliaia di rappresentazioni precedenti alla sua lo sopravanzano ed annichiliscono e la sua parola non può che andar perduta; egli risponde con parole di altri poeti, i quali rappresentano una trasgressione alla Legge, al Testo, allo Spettro del Padre, che ha lasciato sulla scena le sue trappole: pagine di copione nella bocca del teschio di Yorick sepolto, i quali poeti delineano un percorso che ingloba nella figura di Amleto la parabola che conduce dalla filosofia pessimista a quella esistenzialista e dell’assurdo (Holderlin, Nietzsche, Joyce, Eliot, Pasternak e Camus), per cui Amleto è condotto a capovolgere la sua coscienza da una coscienza annichilita, a una coscienza che giustifica il suo dramma per il suo stesso esistere e non al fine di un Bene altro, o superiore – Amleto, cioè, passa dall’essere un Cristo, a divenire un Sisifo felice. In questo cammino Amleto sperimenta anche la frattura con la tradizione, nel manifesto tentativo di strappare le pagine, una volta scoperta la sua vita essere stata scritta e dettata: è il tentativo delle avanguardie contro la tradizione, quello di frantumare il testo. Tentativo la cui vanità si manifesta nella impossibilità per qualunque avanguardia di non diventare anch’essa tradizione: gli stessi strappi entreranno a far parte della traccia registrata. E’ anche, o vuole essere, un cammino nell’opera di Shakespeare e nelle interpretazioni date ad essa nei secoli: ad Amleto infatti risponde Macbeth – ad «essere o non essere» risponde «e nulla esiste tranne ciò che non è», quasi come la realizzazione ed illuminazione del Bardo sul fatto che essere e non essere coincidano – in un concerto in cui anche il lavoro profondissimo e mastodontico di Carmelo Bene su Hamlet, sul confronto tra identità e soggettività, tra voce impostata e psicologica e pluralità della voce nella phoné, viene affrontato (purtroppo per lui che la riterrebbe una Eresia) come lezione acquisita, come fatalità della Storia, come ineluttabilità della «macchina». In conclusione, se dovesse definire i suoi punti di riferimento in ambito teatrale, quali nomi avanzereste? E ovviamente perché? I miei punti di riferimento, come si intuirà dalla risposta data prima circa il mio percorso, sono stati dapprima quelli classici di chi si avvicini al teatro, essendo nato nella provincia del Napoletano: ovviamente per primi incontrai Eduardo, Viviani, Petito, Totò, Troisi. Tra tutti preferii allora, credo, Eduardo: trovo molto profonda la sua sensibilità e il suo dolore e trovo molto importante la testimonianza che egli è circa un certo modo di intendere il popolo ed il «popolare». Nel suo muoversi sulla scena Egli è sempre tanto femminile, conserva in sé una qualche dignità profondamente aristocratica che sedeva nel modus vivendi di quella generazione di uomini: all’ammicco segue sempre uno schiaffo, una pretesa di distanza, di rigore, come appunto qualcuno che abbia avuto una nonna appartenente alla classe popolare certamente può ricordare. Qualcosa di simile ho molto amato anche in Viviani: la fragilità segreta di ogni suo vigore. Ma per la scrittura non fui influenzato da nessuno dei due, se non inconsapevolmente. Chi mi influenzò per primo da quel punto di vista fu Ruccello: in lui trovai quella dimensione del terrore che mi aveva trasmesso Le voci di dentro di Eduardo e che sempre amo trovarmi davanti. Poi i miei riferimenti mutarono, col diversificarsi della mia cultura: Neiwiller fu importante perché da lui mossi nello studio delle Avanguardie, giungendo a Leo de Berardiniis, a Rino Sodano, a Carlo Quartucci, fino a Carmelo Bene. L’incontro, seppur digitale, con Bene fu devastante per me: la nuova possibilità del Mito detonato dall’impossibilità dell’eroismo dopo la «morte di Dio», la cultura classica combinata con l’avanguardia tecnologica, la necessità della maschera per emancipare il teatro dalle derive cine-televisive, il ritorno allo spirito della musica: musicalità che depone per sempre qualsiasi discorso intorno all’Io ed all’identità, al ruolo sociale, a qualsivoglia Morale e metafisica: la voce come soffio, come canto di qualcosa che va oltre la parola portatrice di senso, la parola dialettica e che perciò non può essere comunicata. Nel suo stare in scena sta l’unica possibilità di ritorno al teatro del Poeta e la decadenza finale del Tempio dell’Umano, cominciata proprio nell’Ottocento, tra gli altri, da Leopardi e Schopenhauer. Bene fu importante anche come apripista, perché, se da un lato mi ricondusse allo studio dei greci, dall’altro mi condusse ad Artaud (e con Artaud al Living Theatre e a Grotowsky, cui nell’Est vengono talvolta accostati i miei lavori, ma che trovo più distante) e Deleuze: ma soprattutto alla figura che più di tutti ha segnato il mio studio e la mia formazione, cioè a Nietzsche. E’ soprattutto Nietzsche e la sua filosofia a dominare il mio modo di produrre e di lavorare, o anche di scrivere (soprattutto nella scrittura io credo essere stato toccato da figure estranee al Mondo del teatro: su tutti Kafka, seguito da Eliot e forse Pavese: ad eccezione di Camus, che era anche uomo di teatro); ed è studiando Nietzsche che ho scoperto quanto molto del lavoro di Bene e delle sue conclusioni e delle sue convinzioni ed opere fossero influenzate ed ispirate allo stesso Nietzsche (ad esempio il Lorenzaccio che è una esemplificazione di Sull’utilità e il danno della Storia per la vita, pari pari; oppure La nascita della tragedia dallo spirito della musica, che ha trasformato radicalmente il teatro di Bene: riporto qui ad esempio, tratto da Su verità e menzogna in senso extra-morale un passaggio a cui sono molto legato e che pare manifesto della esperienza del teatro di Bene «Ciò che nel linguaggio meglio si comprende non è la parola, bensì il tono, l’intensità, la modulazione, il ritmo con cui una serie di parole vengono pronunciate – insomma la musica che sta dietro alle parole, la passione dietro questa musica, la personalità dietro a questa passione: quindi tutto quanto non può essere scritto»). Ecco perché i miei testi non sembrano testi teatrali, se li si legge: e vengono totalmente distrutti e trasformati in un’opera irriconoscibile attraverso la messa in scena. Avendo, a differenza di Bene, il viziaccio della drammaturgia, ho almeno il rispetto di usare sui miei scritti la stessa crudeltà che egli adoperava nel lavoro sui classici.
Intervista realizzata da Armando Rotondi (n. 4, aprile 2020, anno X) |