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«Fare qualcosa per gli altri». Trent’anni di «Scuola di Pace»
Corrado Maffia è il Presidente della Scuola di Pace, trent’anni di attività impastate di cuore e passione esclusivamente su base volontaria. Iniziativa laica, non legata ad alcuna confessione religiosa, ideologia o partito politico. Testimonianza di giustizia, solidarietà, impegno civile, disponibilità all’ascolto. Essa opera nell’ottica che un cambiamento sostanziale debba porsi come prioritario, tanto più che la pandemia da Covid-19 ha acuito la povertà nelle sue molteplici e tragiche manifestazioni nonché per una società interculturale rispettosa delle differenze e della dignità di ogni persona.
Nella primavera del 1989 si costituì il «Coordinamento Ecumenico per la pace e il disarmo». Esso può considerarsi l’embrione della «Scuola di Pace»?
Certamente il «Coordinamento Ecumenico per la pace e il disarmo» è stato il terreno fertile che ha permesso la nascita dell’Associazione «Scuola di pace». La gestazione è stata lunga. L’origine del Movimento della pace ha una lunghissima, secolare storia. Noi cominciamo dal 1981 che è l’anno in cui scoppia il movimento in tutta Europa. La corsa agli armamenti nucleari raggiunge l’apice e la possibilità di un conflitto è tutt’altro che remota. Anche Napoli si fa protagonista con il «Comitato campano per il disarmo e la pace» che organizzerà diverse e molto partecipate iniziative. Una frase del comandante della NATO, il generale Rogers, del 7 novembre 1981 racchiude tutta la drammaticità della situazione e il cinismo dei militari: «Una guerra atomica in Europa è nella nostra strategia». Si moltiplicano negli anni successivi dichiarazioni, appelli, proteste e manifestazioni che vedranno sempre in prima fila comunità e organizzazioni del mondo cattolico, evangelico e religioso in generale. Il futuro nucleo fondatore della Scuola di pace è sempre partecipe al movimento che si va sviluppando in modo capillare. Si afferma con decisione la consapevolezza che il discorso legato alla pace non va limitato al rifiuto della guerra ma è qualcosa di molto più complesso che a Napoli interroga e chiama a raccolta i cittadini in una assemblea alla sala Gemito (galleria Umberto) il 17 marzo del 1982 con la presenza del Vescovo di Acerra Antonio Riboldi e della partigiana Vera Lombardi. Il 5 giugno del 1982 Roma vedrà la storica manifestazione nazionale di un milione di partecipanti contro i missili della NATO e del Patto di Varsavia, mentre negli anni successivi saranno promossi i referendum autogestiti sugli euromissili nelle fabbriche e luoghi di lavoro.
Napoli non sarà da meno, fino ad arrivare al grande convegno del 23/25 ottobre 1987 svoltosi all’Istituto Universitario Navale dal titolo «I cristiani e le sfide del 2000» che vedrà gli interventi di Ernesto Balducci, di Boris Ulianich e di tante altre personalità del mondo laico e religioso. Questo è il contesto vivace e militante che fa da incubatrice per la nascita di lì a poco della Scuola di pace. Il 21 febbraio 1989 il Comandante della U.S. Navy presenta all’Amministrazione comunale di Napoli il progetto P.R.O.N.T.O. (Programmed Relocation Of Naples Total Operation) che intende spostare il comando U.S. Navy da Bagnoli a Capodichino. Nei quartieri limitrofi all’aeroporto, in segno di protesta e di testimonianza contro il progetto, per iniziativa di alcune parrocchie, di alcune chiese evangeliche (Battiste e Valdesi), di Pax Christi, del MIR, del Centro Sociale Salesiano, delle Piccole Sorelle di Gesù, della Comunità cristiana di base del Cassano, delle ACLI, dell’Agesci, si costituisce il Coordinamento Ecumenico per la pace e il disarmo. Lo slogan «Napoli città di pace non bersaglio atomico» campeggerà su tutti i volantini che chiamano a raccolta cittadini di ogni fede e orientamento politico a esprimere il proprio dissenso. Il 9 novembre 1989 la caduta del Muro di Berlino darà vita a grandi cambiamenti e a grandi speranze per molti milioni di persone. Si fa così strada l’idea che «un altro modo è possibile», «un altro mondo è possibile». Un mondo dove non necessariamente le armi devono farla da padrone. Si dirà in seguito che per una serie di circostanze, tecniche e politiche, in gran parte segrete, il progetto P.R.O.N.T.O. non fu realizzato scongiurando così il dislocamento dalla Spagna in Italia degli aerei supersonici F116 con testate nucleari. Mentre si chiudeva la «questione Capodichino», il 2 agosto 1990 l'Iraq lancia l'invasione del Kuwait. Quest’atto di estrema gravità militare-politico, un vero e proprio atto di guerra, porta a una levata di scudi da parte del mondo occidentale e non solo. Il Coordinamento ecumenico prende immediatamente posizione con un appello accorato «di condanna a qualsiasi intervento armato nel Golfo Persico». Dopo varie e febbrili consultazioni diplomatiche e pronunciamenti inascoltati dell’ONU, il 16 gennaio del 1991 la Coalizione con a capo gli USA entra in Iraq. Al fuoco della Coalizione risponde in Europa un ampio fronte democratico e «religioso» per un immediato «cessate il fuoco» e la rapida apertura di una trattativa. Il 25 febbraio ufficialmente il Kuwait torna libero. Questo mese di guerra segnerà comunque uno spartiacque tra il prima e il dopo. Il clamore e la reazione critica di tanta parte dell’umanità verso questo intervento armato è comunque segno e consapevolezza di qualcosa di molto importante che sta per investire i rapporti tra le nazioni. Nasce infatti un nuovo ordine mondiale che vede da un lato gli USA e paesi ricchi e dall’altra il resto dei paesi in maggioranza poveri e/o impoveriti. Si pensa allora che i mutamenti intervenuti nei rapporti internazionali suggeriscono una riflessione seria, non occasionale, su: ruolo dell’ONU, produzione, commercio, detenzione e uso delle armi, autonomia e diritto dei popoli, modelli di sviluppo di riferimento e loro impatto ambientale, ruolo delle ideologie e delle religioni, rapporti Nord/Sud del mondo. Tanta complessa materia induce a creare un luogo laico di discussione e di approfondimento che chiamiamo «Scuola di pace». L’attenzione sarà rivolta principalmente alle giovani generazioni invogliate e motivate a partecipare ai nostri incontri da docenti di varie scuole medie superiori di Napoli e provincia. Scuola di pace diventerà negli anni anche tante altre cose, questo è il trentaduesimo anno di attività.
Sin dai primi passi «Scuola di Pace» si è contraddistinta quale iniziativa laica, non allacciata ad alcuna confessione religiosa, ideologia o partito politico. Ciò ha costituito un ostacolo per la sua diffusione territoriale?
I presupposti intorno ai quali è venuta maturando l’idea di un luogo ideale di confronto a tutto campo sui temi della pace sono stati quelli di parlare e testimoniare di giustizia, solidarietà, impegno civile, disponibilità all’ascolto e anche capacità di mettersi in discussione senza assolutismi, a condizione anche di mettere in crisi le proprie idee e convinzioni. Questa modalità di approccio alla realtà impedisce di legare un progetto educativo, quale la Scuola di pace, a una determinata confessione religiosa, a una ideologia o peggio a un partito politico. Ciò non significa assolutamente che tra noi non ci siano persone che hanno fatto della propria fede (attenzione sempre a non confondere Fede con Religione) o delle proprie idee (una cosa è il «filosofare» altro è la convinzione nei valori del vivere civile) la stella polare dei propri comportamenti, così come è facile trovare persone impegnate in partiti politici che distinguono nettamente la Politica dall’accattonaggio di potere. Sin dall’atto costitutivo abbiamo perciò sottolineato la laicità della nostra Associazione come valore aggiunto della persona e della collettività che arricchisce la nostra esperienza più che trentennale. Ed è con convinzione che possiamo asserire che se siamo ancora presenti in città con le nostre proposte lo dobbiamo proprio a questa laicità inclusiva delle differenze.
Il tema in discussione nell’anno 2021-2022 è Dalla pandemia alla costruzione di un mondo nuovo. Dato per assodato che il «sistema mondo» non regge più e che un cambiamento sostanziale debba porsi come prioritario, quanto la pandemia da Covid-19 ha acuito la povertà nelle sue molteplici e tragiche manifestazioni?
Il rapporto pandemia-povertà ci sembra il tema più tragicamente evidente che affiora dalle cronache giornaliere. Si sono acuite tutte le contraddizioni già presenti in periodo pre-covid. Questo sistema che governa il mondo, sistema economico, finanziario e, ciò che fa rabbrividire, altamente militarizzato, non manca occasione per mostrare i propri artigli verso i poveri. Ne sono testimonianza le enormi spese per arginare con la forza i flussi migratori, la caccia alle fonti energetiche e alle nuove materie prime che sono all’origine di tante guerre soprattutto in Africa con milioni di morti, basta citare come esempio il caso del Congo. In riferimento alla pandemia Covid in realtà conosciamo ancora poco della situazione in Africa. Certo la percentuale di popolazione vaccinata è bassissima, tra 0,1 e 5%, e le statistiche sanitarie sulla morbilità e mortalità sono molto approssimative. Verrebbe da dire che non è vero che siamo tutti sulla stessa barca. La forbice tra paesi ricchi e paesi poveri, così come la forbice tra popolazione benestante e strati di popolazione a reddito molto basso se non incerto, aumenta con gravi conseguenze sul piano della convivenza sociale e della tenuta delle strutture democratiche.
L’aspetto più inquietante della modernità è constatare che i diritti umani non sono sufficientemente universali. Il diritto alla salute che spesso si traduce in diritto alla vita, tanto sbandierato da più parti, viene clamorosamente disatteso, eppure esso è condizione preliminare per lo sviluppo sociale ed economico di un Paese. Riprendo di seguito alcune parole dall’enciclica Fratelli tutti di papa Francesco, che – ahimè – descrivono bene la situazione attuale: «Osservando con attenzione le nostre società contemporanee, si riscontrano numerose contraddizioni che inducono a chiederci se davvero l’eguale dignità di tutti gli esseri umani, solennemente proclamata 70 anni or sono, sia riconosciuta, rispettata, protetta e promossa in ogni circostanza. Persistono oggi nel mondo numerose forme di ingiustizia, nutrite da visioni antropologiche riduttive e da un modello economico fondato sul profitto, che non esita a sfruttare, a scartare e perfino a uccidere l’uomo. Mentre una parte dell’umanità vive nell’opulenza, un’altra parte vede la propria dignità disconosciuta, disprezzata o calpestata e i suoi diritti fondamentali ignorati o violati».
(dal n. 22 della recente lettera enciclica Fratelli tutti di papa Francesco)
«Scuola di Pace» da anni si rivolge a giovanissimi. Nella fattispecie, quest’anno l’attenzione è richiamata su I diritti non hanno frontiere. Da una carcerazione punitiva a una giustizia riparativa. Cosa significa «educare alla pace»?
Educare alla pace significa riconoscere la dignità della persona e i diritti umani fondamentali in tutti, anche in coloro che sono colpevolmente in carcere. Gli studenti liceali saranno aiutati a riflettere su legalità e giustizia e a considerare come il nostro ordinamento giuridico preveda il recupero del reo e il suo reinserimento nel contesto sociale. E ciò approfondendo il concetto di quella che oggi viene definita «giustizia riparativa», consistente nell’offrire al reo contesti in cui possa trovare, come dice il magistrato Gherardo Colombo, «la responsabilità di ricostituire la relazione, di accettare l’inclusione, di garantire che eviterà nel futuro di assumere gli atteggiamenti lesivi nei quali è consistito il reato». Ci viene incontro, per approfondire il tema dell’educare alla pace, una bella recensione di Mario Corbo al libro edito in occasione dei 30 anni della Scuola di pace. Recensione, di cui riportiamo alcuni interessanti tratti, pubblicata sul numero di dicembre 2021 della rivista «Il tetto». «Educare alla pacerisponde all’esigenza – oramai non più procrastinabile – di redigere un patto tra le generazioni presenti e quelle future per la salvezza del pianeta, le cui sorti sono indissolubilmente legate alle scelte che gli esseri umani faranno nell’immediato presente e nei prossimi anni, sul versante economico, politico ed ecologico. È importante quindi rivolgersi ai più giovani perché facciano da volano nei processi di cambiamento. La Scuola di pace, negli anni, ha mostrato che la pace, nel significato più autentico, non è un concetto astratto o un ideale utopico, oggetto di mera speculazione filosofica o di fede religiosa, ma un modo peculiare e concreto di guardare la realtà, una categoria vitale, pienamente laica, alla luce della quale vivere le relazioni tra gli individui e tra i popoli per affrontare in modo funzionale al bene comune le più urgenti questioni. Pace come valore ‘positivo’, ha significativamente contribuito al superamento della definizione in ‘negativo’ come mera assenza di guerra, prevalente nell’immaginario comune e certamente riduttiva e poco flessibile. Difatti, la pace autentica non è ‘assenza’, ma ‘presenza’, che investe gli aspetti fondamentali del nostro essere nel mondo (il lavoro, la salute, il cibo, l’acqua, l’istruzione, l’uguaglianza, la giustizia, la libertà, la nonviolenza, la solidarietà, l’accoglienza, i diritti umani, ecc.). Ha una dimensione locale, ma anche globale. È un sentimento individuale, ma pure un comportamento collettivo; ha una dimensione personale, ma anche una politica. Essa richiede il superamento dell’individualismo e della competizione selvaggia – tipici della nostra epoca – e una piena disponibilità al dialogo: l’abbandono dell’autoreferenzialità e l’adozione dell’ottica della reciprocità e della cooperazione. L’educare alla pace implica, nello stesso tempo, l’educarsi alla pace, attraverso un processo dinamico nel quale la funzione docente e quella discente risultino intercambiabili nella sostanza, pur nel rispetto formale dei ruoli. Pertanto, in un’esperienza scolastica ‘laboratoriale’ e aperta, la pace non è una disciplina tra le altre che si aggiunge a quelle curriculari ampliando quantitativamente il piano dell’offerta formativa, ma è il substrato di ogni disciplina e di tutto il processo formativo, che incide qualitativamente sul modo di essere e di fare scuola».
L’impegno della «Scuola di Pace» si profonde altresì per una società interculturale rispettosa delle differenze e della dignità di ogni persona. Come nasce «La scuola di italiano per immigrati» e quanto ritiene sia efficace un insegnamento glottodidattico che poggia su metodi comunicativi ma soprattutto umanistico-affettivi?
La scuola di italiano per immigrati nasce nel settembre del 2008 con il proposito di reagire concretamente a un clima politico che alimenta la paura del diverso, del «clandestino», in particolare in seguito all’attuazione della legge Bossi-Fini. L’attività della scuola si fonda sulla passione e sulle competenze di un gruppo di docenti, convinte del ruolo fondamentale della comunicazione nel processo di integrazione, un processo a doppio senso che mira alla convivenza pacifica e rispettosa e alla partecipazione di ciascuno alla vita sociale, culturale, economica e politica del paese.
(Lascio la parola alla linguista Marta Maffia che certamente ne sa più di me di italiano L2).
L’insegnamento della lingua italiana diviene quindi uno strumento, un canale, per entrare in contatto con l’enorme eterogeneità dei cittadini stranieri residenti a Napoli. Tredici anni di scuola (proseguita anche durate il confinamento), circa 4.500 studenti iscritti e tanti volontari, tirocinanti, docenti impegnati: si tratta di un’attività solida, che ha la forza di associare al «cuore» del volontariato, la «mente» della riflessione e le «mani» di un’azione glottodidattica non guidata dall’improvvisazione ma costantemente monitorata e fortemente motivata. L’esperienza glottodidattica ci ha insegnato moltissimo, probabilmente più di quanto abbiamo saputo insegnare a nostra volta. Ci ha insegnato innanzitutto che ogni classe è diversa e che, all’interno di una classe, ogni apprendente presenta le proprie specificità, di cui è necessario tenere conto. Abbiamo imparato e consolidato le basi di una glottodidattica centrata sugli apprendenti, sui loro bisogni comunicativi, sulle motivazioni, sulle loro caratteristiche biografiche, sul loro repertorio linguistico e sul percorso educativo pregresso. Dalle classi rivolte ad apprendenti analfabeti o debolmente alfabetizzati nella lingua materna, passando da quelle di livello A2 e B1, che prevedono, tra gli obiettivi, il superamento degli esami di certificazione per l’italiano L2, fino alle classi formate dagli studenti con una competenza più avanzata, che richiedono di perfezionare l’uso della lingua: in tutti questi contesti, l’approccio glottodidattico comunicativo e quello umanistico-affettivo si traducono nella realtà di tanti percorsi che, a diversi livelli di complessità, in diversi domini, attraverso metodi e tecniche diverse, intendono favorire negli apprendenti lo sviluppo della competenza linguistico-comunicativa in lingua italiana. Obiettivo trasversale è sempre, inoltre, in tutti i gruppi e per tutti gli attori dell’azione didattica (studenti, docenti, tutor, ecc.) lo sviluppo di una sensibilità e competenza di natura interculturale, intesa come la capacità di saper interagire con culture altre, di saper instaurare un pacifico e proficuo confronto, di saper anche prendere maggiore consapevolezza critica verso la propria ‘veste’ culturale, in un’operazione di sano decentramento. Nascono proprio a questo scopo le numerose attività che negli anni hanno accompagnato i corsi di italiano: gli incontri di cucina e di musica, i cineforum, le visite guidate alla scoperta delle radici interculturali della città di Napoli.
«Parole di mamme» è un progetto rivolto a donne immigrate con bambini molto piccoli. Da quali esigenze è nato?
Rispondo a questa domanda con le parole di Claudia Portadibasso, una delle menti più lucide del nostro staff docenti di italiano L2, che ha curato la stesura del progetto.
«Napoli è una città estremamente complessa e multiculturale caratterizzata da un eterogeno panorama di cittadini stranieri: richiedenti asilo, rifugiati, lavoratori stagionali, COLF e badanti, soggiornanti di lungo periodo, ricongiunti famigliari, dublinati, espulsi (61.593 residenti stranieri a Napoli nel 2019 - dati Istat). In questo panorama le donne, che rappresentano il 52% dei residenti stranieri e in particolare le madri stranieri, sono quelle che faticano maggiormente a intraprendere percorsi di tipo inclusivo e di soddisfacimento dei propri desideri, nonché percorsi professionalizzanti ed esperienze di socializzazione. Scarseggiano servizi pensati ad hoc per le mamme e per le loro esigenze. L’accesso ai servizi pubblici è spesso difficoltoso a causa di barriere linguistiche e culturali; in genere la prima visita della gravidanza viene effettuata tardi e la gravidanza viene vissuta in totale solitudine in mancanza di una rete di sostegno famigliare e di amicizie su cui poter contare. Rispetto al mondo del lavoro, la percentuale di occupate cresce col crescere dell’età dei figli, in modo più consistente che per le italiane. La lingua è una barriera insormontabile, quasi sempre le donne non riescono a comunicare con il mondo esterno e quindi con tutti i servizi presenti sul territorio se non con l’aiuto di un mediatore. Per cui tali servizi risultano irraggiungibili e inutili. La difficoltà ad accedere ai servizi di base, l’estraneità di una nuova lingua e una nuova cultura, la solitudine e la lontananza dagli affetti famigliari e la mancata socializzazione hanno spesso conseguenze negative da un punto di vista psicofisico e si ripercuotono anche sul sano processo di sviluppo che ogni bambino dovrebbe poter affrontare. La Scuola di Pace di Napoli, da anni impegnata nell’inclusione dei cittadini stranieri tramite lo strumento della lingua italiana vuole impegnarsi affinché nessuno resti escluso. Il progetto Parole di Mamme nasce quindi con l’obiettivo di creare delle classi di lingua e cultura italiana per donne e mamme straniere immigrate in Italia, nello specifico nella città di Napoli, realizzando in parallelo uno spazio di baby-parking per i figli delle studentesse, i quali molto spesso rappresentano il maggior impedimento nell’accesso a percorsi educativi, formativi e di socializzazione».
Tanti volontari, tante attività, tanti sguardi e storie incrociati nel corso dei decenni. Ci offre un ricordo personale?
Trent’anni di attività sono tanti come tanti sono i ricordi delle cose fatte, ma i ricordi più belli sono legati alle persone conosciute. Ne ricordo uno di storia recente. A fine febbraio 2019 un nostro allievo che chiameremo ‘Muhammad’ per motivi di sicurezza, ingegnere, cittadino pakistano, dissidente politico nel suo paese, richiedente protezione internazionale, rimane vittima di una violenta aggressione perpetrata da una banda di adolescenti, armati di mazze da baseball, a tarda sera mentre rincasa dal turno di lavoro in ristorante. Questo fatto suscita la reazione dei docenti e degli alunni della Scuola di italiano che si riuniscono in assemblea condannando fermamente l’accaduto con una lettera alle autorità e sollecitando più prevenzione e contrasto per i ripetuti episodi di violenza a sfondo razzista. La reazione e il comportamento di Muhammad è stato esemplare: ha denunciato e ha chiesto a tutti di denunciare e lottare sempre per i propri diritti e la dignità della persona.
Il sindaco di Napoli Luigi De Magistris il 15 aprile 2019 ha ricevuto a palazzo S. Giacomo Muhammad e una folta delegazione della Scuola di pace in segno di solidarietà e di impegno contro il clima di violenza generato dalla cattiva politica. Questo episodio ci colpì tutti profondamente e nei giorni seguenti non mancarono commenti all’accaduto. Parlando poi della serata dell’assemblea a scuola, alla domanda come avesse accolto quella riunione improvvisata, una frase di Muhammad mi è rimasta stampata nella mente: «Io quella sera mi sono sentito benedetto». Muhammad è musulmano praticante e io ancora oggi mi chiedo cosa avesse voluto dire quella frase, quale fosse per lui il significato autentico di quella frase. È che forse, quando meno ce lo aspettiamo, compiamo un atto profondamente religioso. Ho poi sentito Muhammad nei giorni di quarantena del 2020, era a Pompei, ospite a casa del «dottore cinese» che gestisce un ristorante e ha seguito a distanza le lezioni di italiano. A ottobre 2021 è ritornato in presenza e ora frequenta il corso B1. Grazie Muhammad per la tua presenza e la tua amicizia.
Tutte le vostre attività sono impastate di cuore e passione. Qual è la sua definizione di «volontariato»?
Viviamo un tempo in cui sembra prevalere egoismo e narcisismo, a tutti i livelli, sia personali che collettivi. Il Covid trascina con sé comportamenti inusuali che separano le persone, anche quelle amiche. Spesso tutto sembra volgere verso una deriva di individualismo senza regole, senza moralità e a volte senza senso. Per fortuna che ogni medaglia ha due facce e anche la realtà segue questa norma. Guardandosi intorno si scorge, più vicino di quanto si pensi, tanto impegno per essere vicino alle persone in difficoltà. Impegno di singole persone e impegno che si organizza in associazioni di volontariato e che ha origine e motivazioni le più diverse ma unite da una forza trainante che è «fare qualcosa per gli altri» e ciò che spesso meraviglia e che questo qualcosa lo si fa sempre gratuitamente. I soggetti di queste prassi solidali conoscono e comunicano la bellezza della gratuità e scoprono che dedicare, donare tempo agli altri arricchisce se stessi. Ma è la vera dinamica del dono che deve prevalere; il rapporto con l’altro se è asimmetrico crea elemosina da parte del più forte e dipendenza da parte del più debole. Per realizzarsi il dono deve avvenire sul piano della parità che lo contraddistingue. Perché ci sia dono è indispensabile che si verifichi il circolo virtuoso di donare – ricevere – contraccambiare. Abbiamo scoperto queste potenzialità anche per quanto riguarda la didattica della lingua con i nostri allievi della Scuola di italiano per immigrati. È facile concludere che il volontario non è un sognatore o un utopista, ottimista sicuramente, testimone di speranza, ben piantato a terra e immerso nella realtà che per quanto può cerca di trasformare. Questa è Scuola di pace.
A cura di Giusy Capone e Afrodita Cionchin
(n. 2, febbraio 2022, anno XII)
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