Con Claudio Giovanardi, uno sguardo sull’italiano che cambia

La lingua registra e annota i cambiamenti che avvengono nella società. Questa a sua volta influisce sui modi d’uso della lingua, sulle sue regole, sulle strutture fonomorfologiche e sul lessico. Anche l’italiano, come e più di altre lingue, negli ultimi cent’anni si è andato progressivamente e sensibilmente modificando, passando da lingua prevalentemente letteraria a strumento di comunicazione reale ed efficace per la gran parte dei parlanti italiani. In questa prospettiva, affrontiamo alcuni argomenti di maggior interesse con Claudio Giovanardi, professore ordinario di Linguistica italiana presso l’Università degli Studi Roma Tre. È autore di numerosi saggi dedicati alla comunicazione scritta dell’italiano, all’influsso dell’inglese sull’italiano, alla lingua del teatro e al rapporto lingua-dialetto a Roma. Tra le sue pubblicazioni: Dal Belli ar Cipolla. Conservazione e innovazione nel romanesco contemporaneo (con P. D’Achille, Carocci, Roma, 2001); Le strategie dell’italiano scritto (con M. Dardano, Zanichelli, Bologna, 2001); Lingua e dialetto a teatro. Sondaggi otto-novecenteschi (Editori Riuniti, Roma. 2007). Ha curato l’edizione critica di Giovanni Filoteo Achillini, Annotationi della volgar lingua (Libreria dell’Università, Pescara, 2005), nonché il volume Lessico e formazione delle parole. Studi offerti a Maurizio Dardano per il suo 70° compleanno (Cesati, Firenze, 2005). Per l’editore Manni di Lecce ha pubblicato, con R. Gualdo e A. Coco, Inglese-Italiano 1 a 1. Tradurre o non tradurre le parole inglesi? (II ediz. riveduta e ampliata, 2008). Con I. Consales ha pubblicato Petrolini inedito (Gremese, Roma 2010), una raccolta di macchiette e di commedie inedite del famoso attore romano. Con l’editore Liguori di Napoli ha pubblicato L’italiano da scrivere (2010), con un Eserciziario in collaborazione con E. De Roberto. È socio ordinario dell’Arcadia e del Centro Studi «Giuseppe Gioachino Belli» e socio corrispondente dell’Istituto Nazionale di Studi Romani.


Professor Giovanardi, quali sono le tendenze più significative dell’italiano che cambia?

L’italiano solo da pochi decenni è diventato la lingua degli italiani anche nella conversazione di tutti i giorni. Ciò ha comportato un forte cambiamento, perché da lingua prevalentemente scritta e di impronta letteraria l’italiano ha assunto le sembianze di una lingua comune, più dimessa. Meno ricca, ma certamente fruibile da tutti, a prescindere dalla collocazione regionale o dal livello di istruzione.


Quali, invece, gli aspetti più problematici?

Il definitivo tramonto del modello letterario, che per secoli ha rappresentatola stella polare della nostra lingua, ha lasciato un vuoto che è stato colmato solo in parte da quell’italiano tecnologico e omologato di cui parlò Pasolini negli anni Sessanta del Novecento. Oggi si fa fatica a individuare una varietà alta di riferimento, e così molto spesso si ricorre ai linguaggi tecnico-scientifici o al «burocratese» per innalzare il registro linguistico. Mediamente il lessico si è fortemente impoverito e la sintassi si è semplificata fino allo stile telegrafico. Probabilmente è il prezzo da pagare per consentire all’italiano di sostenere il suo esame di maturità.


Possiamo oggi parlare della rivincita del dialetto, utilizzato non al posto ma accanto all’italiano?

Com’è noto i dialetti sono una caratteristica tipica del dominio italo-romanzo. A differenza di quanto è avvenuto in altri Paesi europei, in Italia per secoli la gran parte della popolazione sapeva usare solo il dialetto nella comunicazione quotidiana. Raggiunta l’italofonia diffusa nel corso degli ultimi settant’anni, il dialetto ha progressivamente mutato la propria funzione: non più risorsa esclusiva, ma risorsa aggiuntiva rispetto all’italiano. Oggi il dialetto è spesso usato a fini espressivi e ludici anche dalle generazioni più giovani, che pure sono (almeno si spera) perfettamente italofone.


Il dialetto napoletano non è riconosciuto patrimonio dell’UNESCO, nonostante qualche fuorviante articolo giornalistico, ma uno dei tanti dialetti italiani ‘in pericolo’. La differenza è qualitativa o d’uso?

Tra i tanti dialetti italiani, il napoletano mi sembra tra quelli che gode di miglior salute. A differenza di quanto avviene in altre città (ad esempio a Roma), a Napoli il dialetto non è sentito come espressione socialmente svantaggiata, ma come una vera e propria risorsa diversa dall’italiano. Basti pensare alla grande tradizione letteraria in napoletano, da Di Giacomo a Eduardo De Filippo, da Petito a Viviani; ma anche ai grandi attori (lo stesso Eduardo, Peppino De Filippo, Totò, Massimo Troisi) e all’illustre tradizione della canzone napoletana. Aggiungerei che tutti i dialetti, come tutte le lingue, sono patrimonio dell’umanità e vanno preservati e difesi.


Antonio Gramsci scriveva che «ogni volta che affiora, in un modo o nell’altro, la questione della lingua, significa che si sta imponendo una serie di altri problemi: la formazione e l’allargamento della classe dirigente, la necessità di stabilire rapporti più intimi e sicuri tra i gruppi dirigenti e la massa popolare-nazionale». Reputa che tale questione sia a tutt’oggi aperta?

Quest’anno celebriamo il centenario della nascita di Pasolini, il quale è stato probabilmente l’ultimo grande scrittore e intellettuale italiano in grado di riflettere sui mutamenti linguistici in corso e di avanzare diagnosi e prognosi in gran parte azzeccate. A differenza di quel che crede Gramsci, la questione della lingua in Italia è stata limitata al dibattito tra letterati che si sono interrogati su quale potesse essere il modello migliore per la lingua letteraria. L’interesse per le ricadute sociali delle questioni linguistiche è molto tardo e direi che si avvia solo dopo l’Unità d’Italia. In fondo anche il primo Manzoni era alla disperata ricerca di una lingua per il suo romanzo. Solo nella parte finale della sua vita pensò alla lingua come strumento di unificazione e di coesione sociale. Oggi la questione della lingua consiste nella mancanza di modelli forti, in grado di soppiantare, senza snaturarlo, l’italiano di eredità letteraria.


Grammar Nazi è quel soggetto che corregge l’utilizzo della lingua degli altri e non sopporta coloro i quali la storpiano. Quale significato assume il dito censorio puntato sugli scambi social?

Non amo i social e non ritengo sinceramente che possano essere luogo di dibattiti seri e approfonditi. Vi è poi in Italia, da qualche tempo, a disconoscere il principio di autorità in ogni campo, anche linguistico. Persino le prese di posizioni dell’Accademia della Crusca vengono messe spesso in discussione da persone di dubbia competenza. Ciò detto, trovo l’etichetta «grammar nazi» un classico slogan da social senza alcuno spessore scientifico.


Secondo Tullio De Mauro, la lingua è come una cassetta degli attrezzi. Può commentare siffatta osservazione?

Questa è una chiara prospettiva funzionale della lingua. Noi ci serviamo della lingua per comunicare, quindi ogni mezzo è buono per ottenere il nostro scopo, così come l’elettricista o l’idraulico estraggono di volta in volta dalle loro cassette l’attrezzo utile per un determinato problema. Se ci poniamo in un’ottica di semplice comunicazione il discorso non fa una piega; ma la lingua non è solo comunicazione, è anche espressione, è strumento d’arte. In questo caso c’è bisogno di attrezzi raffinati e di mani che sappiano maneggiarli con destrezza.


De Mauro sosteneva inoltre che «siamo in grado di pensare solo ciò che sappiamo anche dire». Siffatta asserzione come si coniuga con l’attuale semplificazione e impoverimento del linguaggio, soprattutto giovanile?

Il legame tra pensiero e linguaggio è stato messo in evidenza già ai tempi di Aristotele, ed è una costante della riflessione della branca della filosofia che prende il nome di «filosofia del linguaggio». De Mauro aveva dunque ragione (seguendo anche la lezione di Don Milani) nel sostenere che un linguaggio ricco e articolato consente di affinare e circostanziare meglio il proprio pensiero. Non esiste pensiero senza linguaggio. La vera democrazia linguistica consiste nel dare a tutti le stesse opportunità in fatto di conoscenze e competenze linguistiche. Chi conosce più parole avrà sempre la meglio su chi ne conosce di meno, perché sarà in grado di articolare meglio il proprio pensiero.


Tradurre o non tradurre le parole inglesi? Dovremmo assumere un atteggiamento difensivo di fronte all’«assalto» dei neologismi?

I neologismi sono una parte essenziale del lessico di qualsiasi lingua. «Multa renascentur quae iam cecidere vocabula» afferma Orazio, sottolineando il movimento ciclico del lessico tra parole che si perdono, che si acquistano, che si ritrovano. Nessun atteggiamento difensivo, quindi, può arginare l’afflusso di parole nuove, che ci piaccia o no. Per quanto riguarda gli anglicismi il problema è diverso. Sempre più spesso se ne fa uso in contesti di comunicazione pubblica da parte di enti, ministeri, agenzie, banche, ecc. Ciò viola un elementare principio democratico, ovvero il diritto di tutti i cittadini di capire con chiarezza ciò che gli viene comunicato. Secondo me questo è inaccettabile, ed è per questo che faccio parte del gruppo INCIPIT, attivo presso l’Accademia della Crusca, il quale si è assunto il compito, a partire dal 2015, di vigilare sulla comunicazione istituzionale e intervenire con proposte di traduzione italiana per quei termini inglesi non perspicui per tutti. Nessun oscurantismo, dunque, e nessun atteggiamento grammar nazi, ma solo l’espressione di un dovere civico da parte di chi, professionalmente, si occupa (e preoccupa) della lingua italiana.



A cura di Afrodita Cionchin e Giusy Capone
(n. 7-8, luglio-agosto 2022, anno XII)