Claudia Boscolo: «Le scrittrici italiane hanno trovato la forza di far emergere temi scandalosi»

La nostra rivista inizia una nuova inchiesta a cura di Afrodita Cionchin e Giusy Capone, questa volta nel campo della critica letteraria, con diversi argomenti di attualità e un'ampia indagine sulla ricezione della letteratura romena in Italia, un tema di particolare interesse per noi.
Nell’ambito dei nostri Incontri critici, interviene qui Claudia Boscolo, Ph.D. in Italian Studies presso Royal Holloway University of London. È specializzata in letteratura franco-italiana del Trecento, su cui ha pubblicato la monografia L'Entrée d'Espagne. Context and Authorship at the Origins of the Italian Chivalric Epic (Oxford, 2017). Si occupa anche di narrativa contemporanea, con particolare interesse verso scritture del lavoro e con implicazioni sociali e politiche. Ha curato le raccolta di saggi Scritture di resistenza. Sguardi politici dalla narrativa italiana contemporanea (con Stefano Jossa, Carocci, 2014) e Overcoming Postmodernism: the debate on New Italian Epic (Journal of Romance Studies 10:1, 2010). Insegna discipline letterarie al liceo.


Francesco De Sanctis scrisse che la letteratura di una nazione costituisce una «sintesi organica dell'anima e del pensiero d'un popolo». Posto che la letteratura siauno specchio della rispettiva società in un tempo definito e che varia di opera in opera, quali potrebbero essere il ruolo e la funzione della scrittura nel frangente storico che stiamo vivendo?

Questa domanda è molto importante, perché il pensiero e l’opera di De Sanctis sono ancora oggi rilevanti, ma le condizioni storiche del paese sono radicalmente cambiate. De Sanctis parlava della funzione della letteratura in una Italia che aveva da poco realizzato l’unità nazionale, e che quindi aveva estremo bisogno di una base comune in cui riconoscersi, linguisticamente e culturalmente. Non si può dire lo stesso dell’Italia contemporanea, un paese che vive una lacerazione politica senza precedenti e in cui la dimensione culturale è afflitta da logiche editoriali neo-liberiste che inquinano il dibattito intellettuale e inficiano proprio quella valenza della letteratura come «sintesi organica» di anima e pensiero. Non esiste ora, se mai è esistito (la retorica risorgimentale sta attraversando una fase di ridimensionamento) un popolo italiano, e anche ammesso che si possa ancora parlare di «popolo», di certo non si riconosce in modo omogeneo in una letteratura nazionale (o nazional-popolare, se vogliamo usare ancora la categoria gramsciana). Sono invece riconoscibili diversi gruppi sociali, alcuni dei quali interessati a una propria auto-rappresentazione, altri indifferenti alla rappresentazione che di loro viene fornita dagli autori italiani. Prendiamo ad esempio la corrente di scrittura ecologista che sta conoscendo attualmente un momento fortunato. Si tratta per lo più di testi divulgativi, incentrati sulla retorica della natura come elemento salvifico e scritti solitamente da autori con un retroterra scientifico. Quale sintesi organica offre questa letteratura? Si rivolge a un ceto medio cittadino che ha scarsa dimestichezza con gli ambienti «naturali» e in generale con l’ecologia militante. Oppure pensiamo alla produzione che registra il picco massimo di vendite, cioè il romanzo che noi studiosi ancora facciamo ricadere nel sottogenere psicologico, vicende di famiglie borghesi all’interno delle quali avvengono drammi di diversa natura, a volte narrati seguendo alla lettera il precetto calviniano della leggerezza. Tutto ciò in un momento storico in cui andrebbe valorizzata la pesantezza estrema di una società letteralmente al collasso come quella italiana, con un tasso di disoccupazione giovanile drammatico e stipendi ancora troppo bassi in rapporto al costo della vita. Le condizioni nel paese sono mutate in peggio a partire dal percorso normativo che ha notevolmente ridotto le tutele del lavoro, con ripercussioni molto gravi sulla salute mentale dei più giovani che non trovano più un collante con le generazioni precedenti. Il fatto che l’editoria italiana non svolga più (come faceva nel secondo dopoguerra) la funzione storica di dare voce ad autori che rappresentino davvero lo spirito – notevolmente afflitto – della nazione, e inviti invece il grande pubblico a rifugiarsi in narrazioni di puro intrattenimento va in direzione contraria al pensiero di De Sanctis. Per rispondere alla domanda, il ruolo e la funzione della scrittura oggi dovrebbe essere di rappresentare, attraverso tutti i sottogeneri del romanzo e la produzione poetica, le trasformazioni epocali che stiamo vivendo, invitando i lettori a riflettere criticamente sulla loro condizione e sull’impatto che questo sistema economico sta avendo sulla sopravvivenza della specie e sull’ambiente che la ospita.


La lotta politica, l’adesione a una causa: i nostri tempi possono ospitare, a suo avviso, siffatti propositi di cambiamento sociale attraverso il canale della Letteratura?

La narrativa italiana contemporanea ha offerto nel primo decennio di questo secolo esempi virtuosi di impegno politico, ma nel secondo decennio la situazione è notevolmente cambiata, soprattutto in concomitanza con il degrado della politica e dell’informazione e la frammentazione di movimenti e di gruppi di appartenenza. Attualmente si registra una situazione paradossale, per cui in un frangente storico in cui sarebbe necessaria la massima compattezza degli intellettuali attorno a tematiche fondamentali come l’ambiente, la migrazione, il lavoro, l’uscita dalla marginalità di gruppi sociali prima invisibili, l’unica priorità sembra quella di costruire piccole conventicole. L'obiettivo di questa sottile e invisibile attività lobbistica è unicamente l’autopromozione presso premi importanti, primo su tutti Lo Strega, che è anche il più ambito per via dell’impressionante incremento delle vendite che fa registrare. Ma sono molto appetibili anche il premio Calvino (per gli esordienti) e il premio Campiello, finanziato da Confindustria Veneta, e quindi sostanzialmente un riconoscimento di valore intellettuale da parte della élite economica più potente del paese. È chiaro che se alcune questioni come la disabilità possono rientrare nella logica di mecenatismo che sottende al riconoscimento del valore letterario oggi predominante in Italia, altre, come il conflitto sociale attualmente in corso non rientrano nell’agenda politica di chi finanzia i premi e quindi rimangono fuori dallo spettro della rappresentazione. Possiamo quindi affermare che la letteratura italiana oggi rappresenta una nazione? Io sono del parere che questo compito di rimettere la lotta politica al centro delle narrazioni lo sta portando avanti una esigua minoranza di autori ed editori molto coraggiosi, ma che soffrono di scarsissima visibilità. Questo è un problema, perché la comunità di lettori a cui è negato l’accesso alle informazioni editoriali – obliterate dai media – ne esce di fatto penalizzata.


Hegel sviluppa una definizione del romanzo: esso è la moderna epopea borghese. Lukács afferma che questo genere, essendo il prodotto della borghesia, è destinato a decadere con la morte della borghesia stessa. Bachtin asserisce che il romanzo sia un «genere aperto», destinato non a morire bensì a trasformarsi.  Oggi, si notano forme «ibride». Quali tendenze di sviluppo ravvede di un genere che continua a sfuggire a ogni codice?

Anche questa è una domanda centrale nel dibattito odierno sulla letteratura e ringrazio per avermela posta. Il romanzo è un genere apertissimo, che ha visto nei secoli importanti trasformazioni. Al momento la forma ibrida va per la maggiore, perché intercetta il gusto del pubblico. Bisogna capire quanto questo gusto sia orientato dal mercato, ma in generale il romanzo ibrido pare trionfare sulla finzione pura nella grande e nella piccola editoria. Non sono fra quelli che credono che con la scomparsa della borghesia scomparirà anche il romanzo, perché di fatto la prosa narrativa esiste fin dalla classicità. Al momento a me sembra che la produzione si sia attestata su forme ibride, con un riemergere del gusto per l’illustrazione, quindi con la giustapposizione di forme narrative semioticamente diverse. Il progressivo accertamento da parte della critica accademica della qualità di sottogeneri letterari prima ampiamente disprezzati (noir, fantascienza e fantastico in primo luogo) ha permesso anche in Italia una forzatura dei limiti del romanzo borghese e una rappresentazione più varia e accurata di istanze sociali e politiche.


La contemporaneità non contempla esclusivamente le opposizioni oralità/scrittura e poesia/prosa, ma anche la possibilità di scelta tra e-book/online e cartaceo, tra letteratura cartacea e digitale. Quanto lo sguardo della critica è condizionato dal profumo della carta stampata o, viceversa, dalla comodità del digitale?

Dopo anni di riflessione sull’argomento devo dire che la lettura su dispositivo non ha avuto l’impatto epocale che ci si aspettava. Con lo sviluppo delle tecnologie legate al testo digitale anch’io pensavo che saremmo stati testimoni di cambiamenti radicali nelle forme testuali, ad esempio il testo aumentato e tutte le implicazioni dell’interazione fra i vari medium e supporti. Invece, al contrario la produzione e la ricezione del testo, sia da parte della critica sia dei lettori, è solo marginalmente legata al supporto. Pare che i lettori preferiscano ancora leggere su carta stampata, mentre da parte dei critici non vedo differenze tra la ricezione del testo stampato o digitale. All’atto pratico, la valutazione di un testo non ha relazione con il supporto che lo veicola, quindi credo che alla fine lo sguardo della critica non sia stato influenzato dalla rivoluzione digitale, mentre di certo lo è stato in termini di ampliamento delle piattaforme coinvolte nel discorso critico. Se un tempo la critica preferiva esprimersi attraverso riviste cartacee blasonate, oggi la pubblicazione su quelle online è quasi più ricercata, perché garantisce una maggiore visibilità ai critici che la preferiscono.


La scrittura contemporanea può annoverare letterate illuminate, vere pioniere quanto a innovazione e rispetto della tradizione. Qual è l’attuale status della letteratura esperìta da donne?

Credo che su questo argomento ci siano percezioni molto diverse. In generale, questo è un buon momento per le scritture femminili, tuttavia non sono certa che le istanze femministe siano rappresentate in maniera ottimale in questa produzione. Innanzitutto, vi è una frammentazione tale nel femminismo italiano da non permettere di parlare di scrittura femminista tout court. È necessario indagare a fondo le istanze promosse da questa prosa e lo stesso discorso vale per la poesia. A volte si tratta di scrittura di empowerment mutuata direttamente dagli Stati Uniti. Ciò che è positivo è che le scrittrici italiane hanno trovato la forza di far emergere temi scandalosi come la violenza domestica e il femminicidio, e quello molto diffuso della disparità di condizioni nel lavoro, dello sfruttamento del lavoro femminile in ogni campo. La letteratura femminile italiana è generalmente apprezzata, ma ripeto, è difficile comprendere di primo acchito quali posizionamenti adottino certi testi all’interno della galassia femminista, e se il sottotesto e gli impliciti siano intenzionali o emergano anche come riflesso delle posizioni di chi li interpreta.


Le scrittrici sono e sono state sensibili a diverse ideologie, visioni del mondo, sensibilità politiche e filosofiche; personalità diverse tra loro e spesso assolutamente inconciliabili. Riesce a scorgere un fil rouge che annoda le plurime e molteplici anime della letteratura declinata al femminile?

No, come dicevo sopra non c’è alcun fil rouge. C’è sicuramente un legame di amicizia e collaborazione fra certi gruppi di scrittrici, ma la scrittura femminile oggi è più che altro un caos, da cui emergono alcune voci molto rilevanti. La tematica che accomuna sicuramente è la questione della agency femminile, ma trattandosi di una tematica complessa e, soprattutto, visto che il femminismo europeo e italiano conta, a partire dalle sue stesse origini, voci diverse e dissonanti, ogni autrice si appoggia ai riferimenti in cui meglio si identifica, senza che emerga un vero e proprio filo conduttore. A volte, come nel caso della Ferrante, il tema è quello dell’amicizia femminile, oppure in altri casi può essere quello della memoria famigliare sul modello di Natalia Ginzburg, ma non manca quello della violenza, anche in ottica Lgbtq.


Sono passati più di trent’anni dalla pubblicazione dei primi libri della cosiddetta letteratura della migrazione. Pensa che ci sia sufficiente attenzione su di essa? Ritiene inoltre che abbia avuto qualche influenza nella produzione letteraria degli autoctoni?

Non credo purtroppo che l’attenzione sia alta quanto dovrebbe esserlo, visto il coinvolgimento diretto dell’Italia nella questione dei migranti economici e climatici, specialmente dall’Africa. Non mi è chiaro cosa si intenda per autoctoni, se il riferimento è ad autori e autrici afro-italiani e di altre provenienze, non credo che le scritture delle migrazioni italiane abbiano influenzato il loro modo di raccontare la propria identità, anzi semmai mi pare il contrario. Tranne rarissime eccezioni, lo sguardo italiano è pesantemente condizionato dalla mancanza di un approccio critico e di una presa di distanza netta dal passato coloniale fascista, e questo credo che impedisca alla letteratura dei migranti di ricoprire il ruolo di primo piano che dovrebbe avere nella letteratura italiana contemporanea.


La letteratura romena si fregia di una robusta altresì varia produzione. Essa è costantemente tradotta in lingua italiana e la rivista “Orizzonti culturali italo-romeni” ne registra le pubblicazioni nel database Scrittori romeni in italiano: 1900-2022. In che misura pensa sia conosciuta in Italia anche tra i non addetti ai lavori?

La letteratura romena sta conoscendo un momento di particolare fortuna in Italia. Senz’altro, Mircea Cărtărescu è attualmente uno degli autori stranieri di punta per il suo voluminoso romanzo Solenoide, molto amato soprattutto da un certo tipo di pubblico colto e informato, ma conosciuto anche da lettori più generalisti. Emil Cioran fa parte integrante del bagaglio di ogni lettore colto, mentre purtroppo su Mircea Eliade pesa ancora un sospetto legato alla sua appartenenza politica, nonostante i suoi studi siano ritenuti all’unanimità dalla comunità scientifica importanti per la storia delle religioni e del mito. Questi sono di sicuro gli intellettuali romeni noti a chiunque si dedichi alla lettura colta, ma anche ai non addetti ai lavori. Per quanto riguarda i numerosi autori presenti nel database della vostra rivista, devo dire che non mi sono noti, ma penso che ciò accada più o meno per tutte le letterature nazionali: si tende a interessarsi di un autore o autrice stranieri quando raggiungono una fama legata a premi oppure a un’opera di promozione massiccia, alla traduzione da parte dei colossi editoriali, e all’amicizia personale con intellettuali famosi. Anche degli autori italiani si sa poco all’estero e si tende a leggere solo ciò che è tradotto, quindi una parte irrisoria della effettiva produzione narrativa italiana.


Accanto a Mircea Cărtărescu, Emil Cioran e Mircea Eliade, potremmo aggiungere anche Ana Blandiana, Herta Müller oppure Norman Manea. Le sono noti e hanno attirato la sua attenzione?

Con l’eccezione di Ana Blandiana, gli altri non solo mi sono noti, ma sono autori che amo e la cui lettura consiglio. Herta Müller conobbe un momento di grande popolarità dopo l’assegnazione del Nobel nel 2009. Un aneddoto molto grazioso mi è stato raccontato dal suo editore italiano, Keller, e riguarda lo shock di avere in catalogo l’autrice a cui era stato assegnato il massimo riconoscimento internazionale, la fretta di mandare in ristampa il libro e il prestigio che l’autrice ha apportato al catalogo dell’editore, che di fatto è uno dei migliori nel panorama italiano, per la ricerca e la cura dedicata alla narrativa straniera, soprattutto dell’Europa orientale.


A cura di Afrodita Cionchin e Giusy Capone
(n. 3, marzo 2022, anno XII)