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Celestina Fanella: «Scrivere è stato come una traversata nell'oceano della memoria»
La professoressa Celestina Fanella, romenista di spicco, esperta di lingua e letteratura romena, ha dedicato la sua carriera alla ricerca e alla divulgazione della cultura romena in Italia. Già lettrice e ricercatrice presso l’Università degli Studi di Udine, ha contribuito con approfondimenti sulla letteratura e sul teatro romeno curando per l’editrice Utet le voci di letteratura romena del Grande Dizionario Enciclopedico (1984-1991), del Dizionario dei capolavori (1987) e del Dizionario dei personaggi (2000). Per Einaudi, ha curato le sezioni dedicate al teatro romeno nella Storia del teatro moderno e contemporaneo (2003). Autrice del saggio L’altra Europa. Percorsi narrativi romeni tra Otto e Novecento (Edizioni dell’Orso, 2005), si è distinta anche come traduttrice, portando in Italia opere di Mircea Eliade (ll romanzo dell’adolescente miope, Jaca Book, 1992), Gabriela Adameșteanu (Verrà il giorno, Cavallo di Ferro, 2012) e Ion Luca Caragiale (Racconti e schizzi, Cacucci Editore, 2012, in collaborazione con Adriana Senatore), pubblicati anche con il sostegno dell’ICR tramite il TPS.
Nel suo romanzo Marzolino (Edizioni dell’Orso, 2024), Celestina Fanella intreccia memoria e narrazione storica, dipingendo uno spaccato della Romania degli anni Sessanta attraverso gli occhi di Selina e Costin, due giovani fratelli alla ricerca di un’identità sospesa tra due mondi. Nei viali di Bucarest, in una primavera in cui i ragazzi si scambiano i bianco-rossi mărțișor, i «marzolini» portafortuna, la Romania affronta i cambiamenti dell’era Ceaușescu. Gli studenti, divisi tra corsi di Educazione Ateista e letture di Sartre e Mann, sognano un futuro fatto di viaggi, musica e libertà.
Selina e Costin, definiti ‘malsani’ per la loro doppia appartenenza culturale, provengono da una famiglia variopinta: la madre, impiegata in banca, il padre, allenatore di rugby e sognatore, e un nonno muratore emigrato dall’Italia in Romania agli inizi del Novecento, che ha lasciato in eredità storie e radici da riscoprire. Per Selina, l’Italia non è solo una terra lontana, ma un luogo dell’immaginazione che esplora attraverso i film di Antonioni, le canzoni di Rita Pavone e i libri di Cesare Pavese.
Marzolino è una ‘saga’ familiare che fonde la storia personale con quella collettiva, catturando il passaggio dall’adolescenza all’età adulta, tra il desiderio di appartenenza e il richiamo delle origini. Il romanzo, che si muove con grazia tra le sfumature culturali di due mondi, è un omaggio alla memoria e alla ricerca di sé stessa attraverso le sue altre radici familiari e storiche.
Come è nata l’idea di scrivere Marzolino? Quali sono stati i motivi personali che l’hanno spinta a raccontare questa ‘saga familiare’ tra Romania e Italia? Si è ispirata a qualche modello letterario?
Ho cominciato a scrivere prima di capire i motivi di tale impresa. Il periodo lo ricordo: stava per esplodere la pandemia. In principio fu una conversazione telefonica con l’amica Graziella Riviera (regista e autrice di due interessanti romanzi storici). Le stavo raccontando gli avventurosi lavori patriottici ai quali prendevano parte gli studenti universitari della generazione fine anni Sessanta in Romania (l’episodio si trova ora nel capitolo Le pesche di Nazarcea). Lei disse: perché non scrivi qualcosa? sarebbe interessante”. Pensai a un racconto. Così cominciò l’avventura.
In quanto a modelli letterari non me ne viene in mente uno in particolare. Tutti conserviamo tracce delle letture che hanno segnato la nostra crescita e le nostre predilezioni culturali.
I numerosi personaggi di Marzolino – sembra il cast di un film che fonde insieme la ‘verve latina’ italiana e romena – sembrano avere una forza narrativa unica. Può parlarci dei protagonisti principali? Come si intrecciano le loro vite con i temi di identità e delle loro radici culturali?
Diciamo che il problema dell’identità nasce nel momento in cui ci si trova davanti a una scelta che cambierà il paesaggio noto in cui si è vissuti fino a un determinato momento. Nel caso dei protagonisti del libro non esiste ancora la consapevolezza di questo tratto definitorio della vita. Perché la giovinezza è più forte di tutto, ignora le definizioni. Selina e Felice vivono una storia di innamoramento e di conoscenza. A distanza. La distanza nutre l’immaginazione, le fantasie, e sicuramente limita la possibilità di approfondire la conoscenza.
Il romanzo sembra muoversi tra memoria personale e storia collettiva. Qual è stato il ruolo degli intimi ricordi nel costruire la narrazione, e quanto delle vicende narrate è avvolto nella finzione e quanto è autobiografico?
Subito subito non ho pensato a un romanzo generazionale ma piuttosto familiare e dell’amicizia. Ho voluto rievocare, almeno attraverso un nome, un tratto fisico, un modo di dire, una circostanza, una vicenda, ogni persona che ha lasciato un’impronta, un’orma vitale sulla mia età ‘precedente’ (intendo: romena). Ma siccome i personaggi si muovono prima negli spazi piccoli (casa, cortile, strada), poi in quelli più grandi (quartiere, città) ho esteso la memoria verso buona parte dei luoghi che sono rimasti intrecciati con le vicende come i fili di seta che si annodano sulla spilla dei martisor.
Per rispondere alla sua domanda riguardo alla dicotomia finzione/realtà, posso dire che in larga misura la finzione coincide con i ricordi indiretti. Vale soprattutto per la storia del nonno paterno, aquilano di origini, trapiantato ai primi del Novecento in Romania, storia che Selina conosce grazie ai racconti della madre.
Lo stile e la lingua del romanzo sono una delle forze del romanzo. Come ha lavorato sulla scrittura per rendere giustizia alla complessità della saga e ai diversi contesti? C’è poi un buon numero di espressioni e parole romene, vere e proprie spie lessicali storico-socioculturali – ora chiosate, ora lasciate in originale, ora tradotte – molto interessanti (il titolo stesso del romanzo è l’azzeccatissima resa italiana di mărțișor).
Ho lavorato come lavorano i pensieri bilingui. Come in una stampa a due colori sovrapposti. Nessuna delle due lingue doveva prendere il predominio anche se poi, in concreto, era l’italiano la scelta finale. Sono stati due i livelli del lavoro sulla scrittura. Il primo è consistito nel trovare le parole che dessero un senso a ciò che provavano i personaggi mentre vivevano per lasciare al lettore l’impressione dell’immediatezza, del presente, benché le vicende appartengano a un’età passata da decenni. Stavo cercando un equilibrio fra azione e riflessione. Tuttavia, mentre il racconto andava avanti, mi sono resa conto che le riflessioni avrebbero accorciato le distanze fra autore e personaggi e la narrazione sarebbe scivolata sul versante nostalgico o passatista. Cosa che invece ho tentato ostinatamente di evitare.
Il secondo livello ha riguardato la limatura linguistica. Un’impresa impegnativa ma stimolante. Ci sono volute molte riletture prima di scegliere quale peso e forma dare alle parole che mi arrivavano in modo disordinato e affastellato. Le due lingue si mescolavano continuamente, insieme ai ricordi: persone, oggetti, luoghi, ciascuno con il proprio colore e profumo. Dovevo trovare l’abbinamento. Ho mantenuto nella forma originale, per il loro carico affettivo, alcuni toponimi e nomi comuni del reparto gastronomia, pasticceria e profumeria
Da sottile traduttore qual è, riferendosi alla presenza di parole e di espressioni romene (a volte in originale, altre volte tradotte), lei le definisce ‘spie lessicali storico-socioculturali’. Perché lei conosce a fondo buona parte del contesto in cui si sviluppa la trama del racconto. Sarei invece curiosa di sapere ‘l’effetto che fa’ in un lettore privo, in senso metaforico, del dizionario italo-romeno.
Marzolino mi sembra un libro unico, forse il primo nel suo genere che fonde storia e memoria con al centro le vicende di due famiglie tra l’Italia e la Romania. Quale contributo pensa che il suo libro offra al dialogo tra biografia e narrativa storica, tra il racconto personale e quello universale? E cosa ha significato per lei scrivere questo libro?
Come le stavo rispondendo alla prima domanda, cominciai a scrivere per caso e per divertimento. Un messaggio senza destinatario. Capita, però, che i ricordi diventino trappole, ma non in senso necessariamente oppressivo. Anzi: si è costretti a uscire dal presente per cercare nel passato la via della continuità. Tornando al romanzo, la protagonista, mentre costruisce un suo progetto di futuro (lasciare la famiglia e il paese d’origine) sente il bisogno di cercare le ‘altre radici’. Quelle paterne, vale a dire l’Italia. Il ‘nuovo’, sconosciuto paese, rispecchia, senza dubbio, anche questa esigenza intima, personale. Forse sarebbe questo l’aspetto peculiare di una storia di emigrazione, per diverse ragioni collettiva, spesso drammatica che ha vissuto la generazione degli anni Sessanta e Settanta.
Per completare la risposta, le dirò che scrivere il libro è stato come una lunga crociera che ho voluto regalarmi: la lenta attraversata di un oceano casa, famiglia e giovinezza.
Ha altri progetti narrativi per il futuro, o legati anche alla sua attività di traduttrice o di studiosa e ricercatrice di romenistica?
Nel mio caso la parola ‘progetti’ è troppo pretenziosa. Ammetto di avere la fortuna di potermi dedicare, senza scadenze e senza rendiconti, a ciò che amo fare. È un privilegio non da poco. Ho smesso di essere ricercatrice dieci anni fa e ora studio solo per divertirmi. A ogni modo, la traduzione resta una tentatrice, quindi mi lascio tentare di tanto in tanto. Ho sul tavolo il teatro di Sebastian, autore che lei, fortunatamente e splendidamente, ha regalato al lettore italiano. Forse varrebbe la pena di completare il ritratto di un così delicato autore con la traduzione di qualche sua commedia. Ci sto pensando.
A cura di Mauro Barindi
(n. 12, dicembre 2024, anno XIV)
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