Con Carmine Castoro su «Covideocracy. Virus, potere, media. Filosofia di una psicosi sociale»

Covideocracy. Virus, potere, media. Filosofia di una psicosi sociale di Carmine Castoro, Male Edizioni 2020: Il Covid, un male che credevamo confinato in lande lontanissime, serpeggia fra la popolazione: l'ansia, il dubbio, la grancassa social-televisiva diuturna e stressante portano a provvedimenti biopolitici dal sapore apocalittico e, nel breve volgere di due settimane, a fine febbraio, ci ritroviamo in pieno isolazionismo di massa, denunciati per una passeggiata col cane, impediti nella mobilità, sospettosi del vicino, trasfigurati da mascherine distopiche, con le Borse che crollano, la produzione congelata, lo spettro della «peste» e della miseria che ribussano alle nostre porte dai tempi della Milano di Renzo e Lucia. Ma nessuna analisi complessa di tipo storico, sociale, critico e genealogico del contagio è stata fatta in tempo reale, preferendo le semplificazioni ossessive, luttuose, statistiche e paranoiche dell'informazione mainstream che ha incatenato le nostre menti. Non sono state indagate le cause antropiche del virus visto come «flagello», le responsabilità a livello di malasanità territoriale, la finanziarizzazione della medicina; nemmeno evidenziati i conflitti di interessi dei guru della Scienza, i raffronti con altre malattie in Italia e nel mondo.

Carmine Castoro, filosofo della comunicazione, giornalista professionista, è stato collaboratore e inviato per quotidiani e magazine nazionali. Come autore televisivo ha firmato numerosi programmi per il palinsesto notturno della RAI e per canali Sky. Ha ricoperto incarichi alla Link Campus University di Roma e ai Master di Criminologia e Psicologia investigativa all’università di Foggia. Insegna Antropologia filosofica e Sociologia criminale e della devianza alla UCM di Malta. Collabora a Comunicazione all’università di Bari.
Fra le sue opere: Crash Tv. Filosofia dell’odio televisivo (Coniglio 2009), Maria De Filippi ti odio. Per un’ecologia dell’immaginario televisivo (CaratteriMobili 2012), Filosofia dell’Osceno televisivo. Pratiche dell’odio contro la tv del nulla (Mimesis 2013), Clinica della tv. I dieci virus del Tele-Capitalismo (Mimesis 2015), Il sangue e lo schermo. Lo spettacolo dei delitti e del terrore. Da Barbara D'Urso all'ISIS (Mimesis 2017). È stato visiting professor alle università di Modena, Pontificia di Napoli, Varese, Roma La Sapienza, Roma Tre e all'Accademia di Belle Arti di Brera. Negli ultimi anni ha collaborato in Cultura con il portale-tv del Messaggero, l’Unità, la Notizia.

 

Professore, «Covideocracy» recita il titolo del suo saggio. Cos’intende, scomponendolo e ricomponendo il termine?

Il titolo del libro è una fusione fra Covid e Videocracy, termine ormai alquanto sdoganato per «videocrazia», ovvero governo delle immagini e condizionamento sui nostri comportamenti da parte della tv e dei new media, ma che corrisponde a un lungometraggio omonimo lanciato nel 2009 da Erik Gandini. In quell’opera, però, il regista italo-svedese faceva capire come il potere della televisione non dipendesse solo da fattori artistici o culturali, anzi, come fosse intramato da ratio politiche, visioni della vita di oligarchie francamente lasche e corrotte, e che tutto dietro le telecamere serpeggiasse all’insegna del nulla, dell’ignoranza, di una insostenibile leggerezza dell’essere, per così dire, al riparo da ogni dottrina, da ogni scrupolo morale e analitico. Perfetta epitome per me che, sin dalle prime pagine del mio libro, sostengo che non esistano – Covid incluso – fatti sociologicamente neutri o oggettivi, fotografabili e indagabili nella loro nuda positività, ma sempre impigliati in rapporti di forza, euristiche di appoggio, condizionamenti di diverso calibro da parte di soggetti pubblici e privati, che siano riscontri elettorali, conservazione del proprio status, profitti industriali o reputazionali, convenienze logistiche. La Francia vuole diminuire la quarantena da 14 a 7 giorni. Conte dichiara che non ci sarà mai più un lockdown totale. A quale tipo di approccio corrispondono affermazioni di questo tipo? Scientifico? Non credo…

Lei ha accuratamente selezionato articoli pubblicati negli scorsi mesi, a tema «contagio», su quotidiani e magazine; spunti desunti da format; approfondimenti televisivi che, nelle intenzioni, esponevano le problematiche connesse al pubblico sintonizzato, incappando, soventemente, in un esito depistante, pasticcione e sviante. Quali comuni difetti di comunicazione ha riscontrato e ritiene che l’informazione sia stata volutamente fuorviante?

Il vecchio cancro dell’informazione – l’ho sostenuto in tanti miei libri – è l’attenersi al dettaglio morboso, al grandangolo di un fatto che risulta così dopato, «aumentato» da un carattere emozionale, attenzionale, e dunque monetario, sovrabbondante, fuorviante, declassante per la conoscenza, che proletarizza la complessità e la risonanza di un avvenimento. Si dimentica la filiera delle cause di un fenomeno e la raggiera delle sue implicazioni a solo vantaggio del «come» si è manifestato e del “quanto” urta le nostre coscienze o ci inchioda di fronte ai teleschermi. L’esatto contrario di un giornalismo ragionato, partecipato, verificato e democraticamente attivo.

Dichiarazioni quotidiane ossessive, psicotiche, paranoiche, semplicistiche perché limitantisi a snocciolare dati statistici privi di spiegazioni logiche ma nessuna analisi. Qual è la ragione per la quale, a tutt’oggi, manca una disamina storica, sociale, critica e genealogica della cosiddetta «pandemia da coronavirus»?

Esattamente così. Abbiamo assistito sotto Covid a un’informazione insulare, insultante e insuperata – ho scritto –, fatta di particolarità sciolte, perse, multidirezionali, di parole-mitraglia e immagini-balloon, dentro un arcipelago classificatoriopermeabile solo al sensazionalismo, al livore, al raccapriccio, alla destituzione di ogni continuum storico e di ogni responsività col passato di un popolo, di un paese, dei suoi apparati. Che per giunta ha lesionato in profondità i gangli stessi, la muscolatura e la nervatura di un immaginario collettivo che aveva bisogno di ponderatezza, costituzionalità, assisi pubbliche, confronti full time, pacatezza di giudizio e, in seconda battuta, di un Welfare vero, propositivo, tangibile e assistenziale nell’accezione più nobile del termine. In pratica una vera schizofrenia. Perché vige questo modello? Semplice. Siamo un popolo con un basso livello di istruzione, leggiamo pochissimo, ci interroghiamo ancor meno, siamo impiccati ai social e ai selfie, e i media mainstream, colpevolmente, cinicamente, hanno fatto di tutto questo una incubatrice di insipienza, di risparmio e di omologazione comportamentale che porta tanto bel commercio e cultura zero. Siamo in trappola.

Isolazionismo forzato, blocco della mobilità, volti camuffati da mascherine, delazioni manzoniane. Perché abbiamo lasciato che, a colpi di approssimativi, ansiogeni ed apocalittici DPCM, fossimo catapultati in un mondo distopico?

Per due motivi. Col coronavirus abbiamo ritrovato l’abbraccio gelido della morte, abbiamo riscoperto all’improvviso che si muore senza dubbi e senza deroghe, che la nostra esistenza non è programmabile e rinviabile sine die, che insomma siamo esseri fragili e finiti. Dunque, abbiamo avuto una continua paura per la nostra incolumità, per una fine imminente. Abdicando al nostro solito universo che era saponoso, show-addicted, pubblicitario e liscio. Qualsiasi cosa, insomma, pur di salvarci. Il secondo aspetto, collegato al primo, è che – mi ripeto – non siamo cittadini meditanti, non siamo avvezzi alle analisi, la dimensione cooperante e raziocinante l’abbiamo disseminata nei liquami dei reality e dei meme virali che infradiciano la nostra insipida esistenza giornaliera. Da dove avremmo dovuto tirar fuori quell’arte della politica che significa capire e confrontarsi, innanzitutto? Meglio obbedire e acconsentire, e fare i patrioti condominiali a cospetto degli inviati di Barbara D’Urso.

I social media hanno riprodotto in maniera maniacale ed ossessiva querelle asfittiche, perché polarizzanti ed impedienti punti di vista neutri o critici. Essi hanno coercitivamente imposto scelte plebiscitarie: «Mascherina: sì o no?», «Running: sì o no?», «Al bar con gli amici: sì o no?», «A letto con la congiunta: sì o no?». Ebbene, l’assenza di alternative e le risposte urlate a suon di like hanno condotto a scelte politiche viziate dall’onda anomala dell’emotività e dell’ignoranza?

Esattamente quello che sostengo io. Bomba epidemiologica e bomba epideologica si sono sovrapposte perché non esiste rischio, emergenza, urgenza e protocolli sanzionatori conseguenti che non vivano – anch’essi oramai – di fosforescenze mediatiche, di verbosità insistenti, di mobilitazioni più o meno tettoniche e insensate. Interessante al riguardo la tesi analitica di Luigi Giungato secondo la quale, nella mutua influenza fra media e politica, in occasione dell’inizio dell’infezione da Covid, in Italia il problema sarebbe stato portato all’attenzione pubblica «dall’alto», mentre nei paesi anglosassoni e poi negli Usa, «dal basso», sull’onda oceanica di istanze di timore e senso di precarietà fatte rimbalzare nei nodi della Rete. Intuizione che sembra cogliere anche Paolo Flores d’Arcais quando su Micromega ha scritto: «Ed è stato solo quando la possibile pressione di un’opinione pubblica spaventata ha fatto temere ai politici una perdita di consensi che sono state prese le misure che avrebbero dovuto essere adottate ben più rapidamente».

Abbiamo guardato pazienti intubati, donne ed uomini in agonia, mani e nasi di personale sanitario trasfigurati da turni sfiancanti. In che misura e, soprattutto, per quale necessità, è stata violentata la dignità del corpo e la decenza del corpo stesso nella malattia?

La rappresentazione desimbolizzata e pornografica del dolore umano in diretta tv è solo il tassello più moderno di una medicina sempre più burocratizzata, iper-specializzata e monetizzata, al punto da perdere di vista non solo la totalità somatopsichica dell’individuo che soffre, ma anche la dimensione olistica, multi-assiale delle relazioni e della provenienza sociale dell’uomo che affida la sua debolezza a chi indossa il camice bianco. La malattia, insomma, assomiglierebbe sempre più alle astrattezze dei protocolli internazionali e dei tracciati nosografici e molto, molto meno a una condivisione empatica di lacrime, nostalgie e speranze sfinite. Dice Umberto Curi: «Il medico trasferisce e oggettiva la sua sollecitudine in una pluralità di atti concreti, inevitabilmente neutri dal punto di vista affettivo, la cui efficacia dipende dunque esclusivamente da una incidenza misurabile in termini quantitativi, dal successo che essi realizzano soprattutto dal punto di vista della scomparsa o della diminuzione della sintomatologia morbosa»: Ecco, oggi questo «neutro affettivo» è anche sottoporre corpi agonizzanti o precadaverici all’assurdo supplizio di uno «spettacolo» che di pietoso, comunitario e conoscitivo non ha davvero nulla.

Come districarsi in questa pericolosa dissociazione tra verità storica e narrazione menzognera?

A riflettere sulle vere origini del Covid, ovvero la pressione industriale dell’uomo sugli habitat naturali che così vengono a contaminarsi reciprocamente in violente zoonosi, esso è stato il nunzio della razzia di un antropomorfismo smodato. Sullo sfondo di variazioni climatiche, imperitura carbonizzazione, latitanza di energie alternative, abbiamo abitudini nutrizioniste di un certo tipo, disboscamenti selvaggi, obsolescenze programmate, l’economico che intrude l’ecologico, lo stravolgimento dell’uso del suolo, la biodiversità considerata come un fondo inesauribile da espropriare, con conseguenze a livello infettivologico che non sono più inimmaginabili o periferiche. Dunque, uno scenario mondiale di non-sostenibilità, di incuria e di scarsa porosità a tutto quanto sia realmente comunitario, cooperante, co-generato, co-gestito, co-vi(d)sibile: lo Stato che si disinteressa della sua terzietà, l’assistenza pubblica che reclina, i servizi al cittadino che sono castelli kafkiani, la sanità che deve reinventarsi in temporalità ristrette per un’atavica mancanza di pianificazioni-green – diremmo con un abusato aggettivo. Da qui dobbiamo partire, dal Covid come sfida e come risorsa abissale. Dunque, anche da una profonda rigenerazione etica del fare informazione e del fare lavoro intellettuale dentro le cattedrali mediatiche sempre più transnazionali e di irrevocabile incisività nella mente degli spettatori-lettori, evitando le odiose risacche sentimentalistiche grossolane e spoliticizzate che hanno fatto e fanno business pure col Covid.








Intervista realizzata da Giusy Capone
(n. 9, settembre 2020, anno X)