In dialogo con Anna Maria Panzera su «Femm[E]. Arte [eventualmente] femminile» Femm[E]. Arte [eventualmente] femminile (2019, Bordeaux Edizioni), a cura di Anna Maria Panzera e Veronica Montanino: 60 profili di artiste gravitanti nell'area romana e non solo; contributi critici di 15 fra studiose e studiosi di discipline storico-artistiche, filosofiche, sociologiche, antropologiche, psicologiche. Questi sono i numeri di FEMM[E]: un progetto – e ora un libro – nato sotto la denominazione e l'intento di una «ricerca sulla specificità (eventuale) dell'arte femminile», realizzata dal 2016 al 2018 su iniziativa e cura della storica dell'arte Anna Maria Panzera e dell'artista Veronica Montanino, con la collaborazione di Giorgio de Finis, curatore e direttore del MAAM Museo dell'Altro e dell'Altrove di Metropoliz_città meticcia e attuale direttore di Macro Asilo. Un progetto nato dall'idea di mappare la presenza delle artiste sul territorio romano e di creare una rete di interazioni professionali nel quale l'ingresso di ciascuna partecipante per autocandidatura è stato un'assunzione di responsabilità; ogni contributo è un frammento specchiante della varietà dell'attuale ricerca artistica e umana. Ne è emerso uno spaccato di pensiero attivo e militante non solo sull'arte femminile ma sul femminile nell'arte. L’arte femminile possiede delle peculiarità? Quali sono gli apporti della filosofia, della sociologia, dell’antropologia, della psicologia all’arte? Tutte queste discipline hanno contribuito, nella rispettiva specificità, a comprendere i diversi aspetti della questione femminile nell’arte. La sociologia in particolare è quella che restituisce i dati numerici, oltre che qualitativi, della presenza femminile nel sistema dell’arte: che costituisce ancora un problema, benché un altissimo numero di donne lavori nei vari campi dell’arte (ma diverso è il riconoscimento economico o la posizione di potere che esse possono raggiungere). Conoscere le statistiche è molto utile per avere la percezione netta di cosa accada ancora nel presente, e per intervenire di conseguenza contro chi nega la situazione. Le altre discipline osservano il problema nel suo sviluppo storico e nei significati più reconditi. Penso, per esempio, al contributo di filosofe come Eva Cantarella, Adriana Cavarero, Federica Negri, Agnes Heller o Linda Nochlin, recentemente scomparsa; la loro ricerca puntualizza un assunto imprescindibile: chi voglia fare ricerca sulle donne e sul femminile deve accettare di conoscere e scontrarsi con un pensiero millenario, che risale alle origini della nostra cultura occidentale e che dev’essere scardinato. Se non si colgono tale genesi precisa e le sue motivazioni, si potrebbe cadere nell’errore di pensare che il vissuto del «femminile» sia tale da sempre, intrinseco e naturale. Non lo è; esso è determinato da ragioni antropologiche (talvolta così remote che possono essere solo ipotizzate) e da scelte politiche (molto più facilmente rintracciabili), che come tali possono essere cambiate. Senza quest’approccio, non c’è speranza di trasformazione. La psicologia, poi, ci spiegherà quali dinamiche profonde accompagnano questi processi, che – prima di essere storici – sono umani. A maggior ragione se pensiamo che la dimensione che chiamiamo inconscio, irrazionale, ecc. è stata fatta coincidere – da quella stessa cultura di cui parlo sopra – alla realtà mentale e affettiva, persino fisiologica, della donna. Con la stessa stigmatizzazione che ha subito anche l’arte. I testi dei filosofi ci parlano di quanto entrambe siano «pericolose», perché spezzano l’integrità, la compostezza e la produttività dell’uomo. Sì, uno psichiatra ci serve, certamente! Quali deduzioni si possono trarre rispetto all’attuale status della ricerca artistica? La prima e la più importante è che c’è ancora moltissimo da fare. Il nostro libro è un contributo corposo ma molte delle sue argomentazioni possono e devono essere sviluppate ulteriormente. Molti musei stanno tentando di recuperare la selezione escludente le artiste, dedicando alle loro opere intere sezioni o esposizioni monografiche e collettive. Un esempio recente è l’iniziativa del Museo del Prado: la mostra Invitadas vuole indagare il ruolo delle donne nel periodo compreso tra il regno di Isabella II e quello di Alfonso XIII. Saranno presentate 133 opere d’arte mai esposte prima, con il dichiarato intento di «chiedere scusa». Purtroppo, già sul titolo si potrebbe fare una riflessione (le donne sono «invitate»?!). A Milano, invece, è in apertura una mostra sulle pittrici del Seicento, a dimostrazione del fatto che le artiste sono esistite anche in epoche in cui non ci s’immagina che tante donne abbiano lavorato nei campi dell’arte, e che la storiografia deve ridisegnare completamente i propri orizzonti e le proprie ricostruzioni, riscoprendo fonti e nomi dimenticati. Lo sa che molti archivi di artiste sono stati distrutti, perché ritenuti poco importanti? Insomma, in poche parole siamo alla fase della discriminazione giuridicamente intesa, il cui intento è senza dubbio positivo; ossia, si assiste all’insorgere d’iniziative che devono tenere conto dell’inesistenza di un’effettiva uguaglianza di genere nel campo dell’arte e perciò si misurano con una scelta inversa rispetto a quella tradizionale. È un’operazione storica importantissima, perché contribuisce a modificare la percezione del pubblico, che non si chiede mai abbastanza «perché non si vedano grandi nomi di donne nell’arte» (cito il titolo del famoso testo di Nochlin). Il passaggio successivo, però, è estendere questa ricerca all’arte in toto, al ruolo dell’artista. L’ingresso a pieno titolo delle donne nell’arte deve corrispondere all’ingresso a pieno titolo dell’arte nella vita di tutti. L’arte non è fatta esclusivamente da artiste ma anche da collezioniste, critiche, curatrici. Esiste una rete di raccordo delle specifiche professionalità, un connubio tra i paradigmi teorici e le pratiche dell’arte? Credo che esistano tentativi di raccordo fra le diverse professionalità, ma non è un processo semplice. Quando con Veronica Montanino abbiamo condotto il nostro progetto e poi la pubblicazione del libro, abbiamo potuto costatare che effettivamente si era creata una rete di relazioni che ha sviluppato anche collaborazioni. Molte artiste si sono conosciute in quell’occasione e hanno potuto apprezzare quanto le rispettive ricerche avessero incredibili punti di contatto, affrontati da prospettive e con materie diversissime ma risonanti. Gli incontri che abbiamo chiamato “maratone” (giornate in cui le artiste hanno presentato se stesse e i loro lavori) hanno fatto emergere tante individualità che non avevano intenzione di costituire un gruppo, né di uniformarsi a un manifesto, ma erano interessate alla relazione, al confronto e allo scambio, anche produttivo. Abbiamo visto quanto gli artisti e le artiste siano sinceramente interessate/i al lavoro altrui, facciano vera ricerca e sappiano esprimerla in termini verbali degni dei discorsi altisonanti dei critici; soprattutto, quanto siano in grado di incidere sulla realtà. Ma questo piace al sistema dell’arte? Se il mantenimento delle relazioni sta alla volontà e alle disponibilità personali, sono soprattutto altri fattori che determinano, al contrario, la parcellizzazione e la frammentazione delle ricerche (devo dire che accade soprattutto in Italia) o l’isolamento dell’artista. E qui il genere c’entra fino a un certo punto. Un certo tipo di mercato, l’atteggiamento delle istituzioni, il distacco dei teorici (penso alle università, ai centri di studio, alle fondazioni) dalla pratica degli artefici e dalla frequentazione degli studi, la volontà politica di non coinvolgere l’artista nella costruzione della società, sono tutte consuetudini deleterie, che non ignorano ma negano la valenza sostanzialmente politica dell’arte. Se qualcuno dovesse affermare che l’arte è troppo sognante, astratta o altri simili attributi, risponderei che è esattamente là la sua sostanza politica: nel praticare quelle fondamentali dimensioni umane che l’utilitarismo quotidiano della nostra società non considera, pur conoscendone benissimo l’esistenza. Accade così che gli artisti rimangano estranei al vissuto collettivo (o sembrino rimanere, perché poi in realtà non lo sono) e che i paradigmi teorici diventino i nemici dell’arte, per il fatto stesso di essere paradigmi, ossia indicazioni normative. La pelle dell’artista, reazione e resistenza, la materia tra apparire sensibile e intelligenza manuale, lo spazio, estetica ed esistenza sono le sezioni del volume Arte [eventualmente] femminile. La ricerca si può dichiarare conclusa? Direi di no, per tutti i motivi sopra esposti e perché questi stessi temi sono in continuo aggiornamento. Valerie Solanas in SCUM, manifesto del 1967, affermava che «a male artist is a contradiction in terms». Può commentare questa asserzione? Come dicevo sopra, gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso sono stati anni assertivi, di rivendicazione e di denuncia dell’uso e abuso del corpo delle donne, di rottura a ogni costo e con ogni mezzo dei canoni ricorrenti di un sistema dell’arte che relegava il corpo e l’identità femminile a oggetto della rappresentazione, ideale formale, al massimo musa ispiratrice. Valerie Solanas, autrice la cui biografia ha avuto non poco peso nella successiva produzione artistica, vedeva nell’arte una forza antagonista, sovversiva del potere costituito, nel cui mirino era il maschio in quanto attore principale del sistema stesso e parte di un binomio – quello uomo/donna – esclusivamente contrastivo e conflittuale. Con accenti crudi Solanas criticava la concezione della donna proposta da Freud, considerato il caposaldo della cultura contemporanea ma portatore delle più violente negazioni nei confronti dell’identità femminile. Per far questo, l’artista sostituiva i termini appartenenti ai due ambiti di genere, facendo «esplodere» il consueto mainstream culturale e affermando che l’uomo è un essere degenerato, privo del più intimo contatto con la vita, pertanto incapace di arte. Comprendo la necessità della provocazione e della battaglia di quegli anni ma oggi non porrei mai la questione in tali termini. «Resistenza», «rivolta», «rivoluzione», «cura», «responsabilità» sono parole ricorrenti al MAAM Museo dell’Altro e dell’Altrove di Metropoliz_Città meticcia. Anche l’arte è vittima della coercizione, spesso istituzionalizzata, del patriarcato? Sì e no. Gli artisti sono abilissimi a mantenere, anche nella condizione più controllata, grandi spazi di libertà. Lo dimostra molta arte del passato, creata per i grandi committenti, per gli uomini di potere, per le istituzioni e le chiese, e nonostante questo ribelle, innovativa, trasgressiva. Quello che oggi si lamenta, invece, è la sparizione degli artisti – agita dalle istituzioni – dallo scenario della vita pubblica, dalla trasformazione e proliferazione del tessuto urbano, dall’esistenza quotidiana della collettività e del consesso civile che, di conseguenza manca d’immagini di riferimento, tende a perdere la propria dimensione e il proprio naturale movimento, incapace di ridefinirsi in accordo con le inevitabili trasformazioni di un mondo sempre più policentrico e plurale, il cui cuore sono le città. Quand’anche bellissime, come nel caso di Roma, esse sono subite, più che vissute; il loro aspetto e la loro percorribilità, i loro spazi dal centro alla periferia e viceversa, suggeriscono inevitabilmente le sperequazioni tipiche della nostra società. In Italia l’artista fatica a inserirsi in questo contesto e a trasformarlo. Nel MAAM, però, caso unico nel Paese anche in virtù del numero straordinario di artisti presenti, si assiste a un fenomeno di segno opposto. Non si tratta della solita riqualificazione del quartiere o dello stabile disastrato, ma di una forte presa di posizione politica, che mette al centro del proprio agire il diritto all’abitare e all’esistenza e lo difende non con la lotta o lo scontro, ma con la produzione, la profusione d’immagini. È una questione che coinvolge direttamente le parti sociali più fragili ma riguarda tutti, perché mette in gioco l’identità stessa dell’essere umano, legata all’abitare e al pensare per immagini. Veronica Montanino lo ha spiegato molto bene in un recente intervento a Radio Sonar. Perché il titolo del libro pone l’avverbio «Eventualmente» tra parentesi? Per tutto quello che abbiamo detto fin qui, perché è una parola che accostata a «arte» può creare perplessità e noi volevamo che il nostro libro fosse improntato alla pluralità delle opinioni. Resta che il femminile è qualcosa su cui interrogarsi, forse cui conferire una nuova lettura. Per me e per chi ha prodotto FEMM[E] non è tanto una qualifica di genere ma un modo di vedere, pensare, sentire, vivere il mondo. Persino qualche filosofo del passato ci aveva pensato... la ricerca è ancora aperta.
A cura di Giusy Capone |