Calvino, uno scrittore poliedrico. In dialogo con Angelo Fàvaro

Il nostro dialogo con Angelo Fàvaro, professore a contratto presso l’Università degli Studi di Roma Tor Vergata, parte dall’aggettivo poliedrico riferito allo stesso tempo allo scrittore Italo Calvino e alla sua opera. Perché, per lo scrittore ligure, quel che più conta è la fertile e vivificante possibilità della contaminazione, del superamento degli statuti disciplinari, delle dicotomie e degli sbarramenti fra conoscenze settoriali, muovendosi nella direzione dell’imprevista ed entusiasmante ricerca transdisciplinare e ipertestuale.
È lo stesso Calvino, in una lettera a Giulio Einaudi, a chiedere al suo interlocutore: «Caro […] Che cos’è che tiene insieme poliedri, supernovae e azimut?» e nella forma interrogativa a rivelarci il suo supremo interesse per quell’abbraccio vitale, oggi sempre più necessariamente invocato e auspicato, fra letteratura e scienza. 

 

L’opera e la personalità di Italo Calvino sovente appaiono contraddittorie, considerata la grande varietà di atteggiamenti che, verosimilmente, riflette l’accadere delle poetiche e degli indirizzi culturali nel quarantennio fra il 1945 e il 1985. È possibile, tuttavia, rinvenire un’unità d’intenti?

Italo Calvino, la sua scrittura, la sua opera hanno una tale varietà da risultare, forse, a una lettura eccessivamente rapida o orientata, o con una predisposizione all’attesa di forme e contenuti simili nel tempo, contradditori. Invero, utilizzerei come ho già fatto in altre circostanze, l’aggettivo poliedrico: uno scrittore poliedrico che ha prodotto una vasta opera altrettanto poliedrica. La sua intelligenza, la capacità di spaziare fra temi e argomenti molto differenti, il suo interesse per la sperimentazione e la ricerca in ambito artistico-letterario lo rendono un intellettuale che non ripete mai sé stesso, che non rifà mai la propria opera. Innova… sempre. Come chi sa che la ricerca impone la scoperta, e ogni scoperta necessita di un linguaggio specifico per essere comunicata e condivisa. L’unità d’intenti è difficile, ma c’è coerenza in ogni suo scritto. Coerenza fra la sua vita, nel momento in cui scrive, e la sua scrittura, ma anche rispetto al messaggio.
Se un messaggio complessivo possiamo rilevare è quello di un avvertimento a rimanere umani in una società sempre più complessa. Sufficiente rileggere Il castello dei destini incrociati o Se una notta d’inverno un viaggiatore. E lo esprime esattamente alludendo a una condizione di complessità iperbolica: «complessità che nessuna frase può contenere o esaurire, mi sento vicino a capire che dall'altro lato delle parole c'è qualcosa che cerca d'uscire dal silenzio, di significare attraverso il linguaggio, come battendo colpi su un muro…»


Neorealismo, gioco combinatorio, letteratura popolare sono tra i numerosi campi d'interesse toccati dal percorso letterario di Calvino.
Su quali aree si è concentrata la sua attenzione?

Leggo, studio, analizzo l’opera di Italo Calvino da molti anni, ho iniziato a quindici anni, e ancora non ne sono pago. Rileggo frequentemente i suoi scritti, ho realizzato due regie da sue opere, per spettacoli che attendono un produttore; ho effettuato molte conferenze su di lui e sulla sua scrittura; partecipato a convegni. Non c’è un periodo che prediligo particolarmente, perché egli è sempre sé stesso, pur passando da una scrittura neorealista, che poi a ben guardare è anche fantastica, come nel Sentiero dei nidi di ragno, o emotivamente coinvolgente, come nella Giornata di uno scrutatore, e poi improvvisamente è capace di scrivere testi narrativi come le Cosmicomiche o Ti con zero che sembrano portare il lettore in un mondo altro, direi Epicoscientifico, o Logicocosimbolico. Non possiamo tacere dell’interesse per la fiaba o per la ricerca: ed ecco un capolavoro come Fiabe italiane o Se una notte d’inverno un viaggiatore. Posso rilevare che è l’opera di Calvino a interessarmi e non è possibile leggerla a pezzi o per stagioni, pretende attenzione nella sua interezza. Il mio è tuttavia un caso patologico, non posso non ammetterlo.


«Nel Novecento è un uso intellettuale (e non più emozionale) del fantastico che s’impone: come gioco, ironia, ammicco, e anche come mediazione sugli incubi o i desideri nascosti dell’uomo contemporaneo»
. Così Calvino.

Esatto. Ma non darei eccessivo valore all’aggettivo «intellettuale» contro «emozionale», in Calvino troviamo certamente la parte di rielaborazione intellettuale, è nelle sue intenzioni dichiarate e più determinate, ma è anche, forse suo malgrado, un autore lirico, emotivamente coinvolgente, misterioso. Soprattutto quando desidera raccontare l’avventura, l’eroismo del quotidiano, la magia dell’infinitamente piccolo o del macroscopico. Non sento e non credo alla maschera di uno scrittore tutto testa e senza cuore o emozione: sufficiente rileggere le pagine del Barone rampante, per cogliere il desiderio, la fanciullezza, l’emozione di un primo amore, la ribellione.


In qual misura il «fantastico» calviniano si fa pioniere del contemporaneo?

Calvino rilegge e analizza, spiega L’Orlando furioso di Ludovico Ariosto, questa è la lezione più sincera su come il fantastico, quando è vero fantastico, è senza tempo, ovvero è sempre contemporaneo. Le città invisibili, Il cavaliere inesistente, Il castello dei destini incrociati rimembrano il nostro fantastico, oggi, che non vuol dire irrazionale, illogico, irregolare o assurdo, ma capacità di immaginare il possibile o l’impossibile. Liberamente. Il fantastico a cui ci spinge Italo Calvino è liberatorio e libertario.


Il 2023 celebra il centenario della nascita di Italo Calvino. Qual è il suo lascito alla posterità letteraria?

Le lezioni americane raccolgono una significativa intenzione dell’eredità di Calvino, non tutto, non completamente, ma molto. Alla posterità letteraria Calvino lascia la bellezza, la forza, la fiducia nell’espressione attraverso la parola, la ricerca della parola e nella parola. E poi un’eredità necessaria è nelle parole del Visconte dimezzato:
«Ero intero e tutte le cose erano per me naturali e confuse‚ stupide come l’aria; credevo di veder tutto e non era che la scorza. Se mai tu diventerai metà di te stesso‚ e te l’auguro‚ ragazzo, capirai cose al di là della comune intelligenza dei cervelli interi. Avrai perso metà di te e del mondo‚ ma la metà rimasta sarà mille volte più profonda e preziosa. E tu pure vorrai che tutto sia dimezzato e straziato a tua immagine‚ perché bellezza e sapienza e giustizia ci sono solo in ciò che è fatto a brani».


Quali sono, secondo lei, le sfide più ardue che la critica letteraria, ein particolare l’italianisticadeve affrontare al giorno d’oggi?

Le sfide più ardue sono ancora quelle affrontate e segnalate da Italo Calvino: consentire alla Letteratura italiana di ampliare i confini, attraverso le traduzioni e la conoscenza degli autori, maggiori e minori della nostra tradizione; far dialogare la Letteratura con le altre arti; aprire un confronto costante fra Letteratura e Scienza, in modo fecondo per entrambi, tanto da consentire agli scienziati, ai fisici, ai matematici, ai biologi di giovarsi della Letteratura; e alla Letteratura, ai poeti, ai narratori, ai romanzieri di attingere alle scoperte scientifiche per implementare il loro immaginario. Forse nel saggio Mondo scritto e mondo non scritto di Italo Calvino è condensata la sfida più ardua per la critica letteraria. Non c’è critica senza scrittura letteraria, non c’è critica senza opere di scrittori che sollevino problemi e non siano compiacenti con il sistema editoriale o del mercato. L’Italianistica è un settore di studio molto importante e significativo che dovremmo tutti, e ribadisco tutti, frequentare maggiormente: leggere, comprendere, studiare gli autori del canone letterario italiano e coloro che scrivono, e hanno scelto di esprimersi letterariamente in lingua italiana, nonostante siano provenienti da altre culture, lingue, civiltà, mi sembra oggi l’attività più sfidante non solo per gli italianisti, ma anche e più per gli italiani, giovani e meno giovani.


Romano Luperini sostiene che il saggio critico, così come ereditato dal secolo passato, non ha più futuro. Come vede lei la trasformabilità di questa forma che si è istituzionalizzata in un vero e proprio genere letterario, sul quale si sono cimentati filosofi e critici celebri, tra cui Adorno e Lukács?

Bisognerebbe prima tentare di definire cosa si intende per saggio critico: se da un lato abbiamo una tradizione saggistica che risale almeno al Cinquecento, attraverso la trattatistica, e non possiamo ignorare quanto queste forme di scrittura critica abbiano contribuito alla comprensione di epoche e di opere capitali, e penso a due autori di saggi straordinari come Francesco De Sanctis e Giosuè Carducci; al contempo, oggi, in particolare abbiamo almeno una triplice forma saggistica. Vi sono i saggi tecnici di storia, di critica, di pensiero inerenti a singole opere o autori; poi abbiamo la critica letteraria specialistica; infine, vi è cosiddetta critica militante. In particolare la scrittura critica saggistica volta a elucidare e far emergere i valori di un’opera letteraria non credo affatto sia superata: ci sono saggisti di grande interesse come Raffaele Manica, Andrea Cortellessa, Sandra Petrignani e molti altri che scrivono su blog, su riviste, su magazine culturali; quel che ritengo invece necessario è rendere la critica meno ostica, meno ermetica, meno esercizio di vuota retorica o falsa argomentazione, e invece maggiormente ausilio reale a un pubblico di lettori sempre più impreparato e che confonde la letteratura con l’intrattenimento.


L’edizione 2023 del Premio Strega ha segnato non solo la vittoria di una scrittrice, ma anche un record di donne: otto scrittrici nella dozzina e quattro nella cinquina.
Come si configura l’attuale status della letteratura esperita da donne?

Non confido nei generi né nella critica che parte da questa condizione: una valida e grande opera letteraria è tale indipendentemente dal sesso, dalla provenienza, dallo status di chi l’ha ideata, composta e realizzata. Leopardi non sarebbe stato più poeta se fosse stato donna, trans, bisex o cinese… né Amelia Rosselli sarebbe stata meno poeta se fosse stata uomo, gay, o di colore. Non mi interessano i gender studies. È evidente.


La letteratura romena è costantemente tradotta in italiano, con nomi di punta quali Ana Blandiana, Herta Müller, Norman Manea, Mircea Cărtărescu, Emil Cioran, Mircea Eliade, e la rivista «Orizzonti culturali italo-romeni» ne registra le pubblicazioni nel database Scrittori romeni in italiano: 1900-2023. In che misura pensa sia conosciuta in Italia e quali scrittori romeni hanno attirato la sua attenzione?

La condizione è drammatica, se non tragica: gli italiani non leggono nemmeno un libro all’anno, e sovente non è un volume di letteratura. Gli italiani non leggono la letteratura italiana, figuriamoci se leggono quella straniera. Detto ciò. La letteratura romena è una grande letteratura. Ricordo le lezioni del mio professore di Letterature comparate all’Università di Roma La Sapienza, il prof. Armando Gnisci, che ci fece conoscere tanti poeti rumeni, e dedicò numerose lezioni a Mihai Eminescu e a Mircea Cărtărescu. Io in particolare amo la scrittura aforistica e nichilista di Cioran. Trovo un fine intellettuale e uno scrittore emozionante, anche per la sua passione per l’arte italiana e la storia antica, Grigore Arbore-Popescu.


A cura di Afrodita Cionchin e Giusy Capone

(n. 11, novembre 2023, anno XIII)