Angela Cerasuolo e l’arte del restauro nella «Madonna del Divino Amore» di Raffaello Angela Cerasuolo è restauratrice e storica dell’arte, lavora come conservatrice-restauratrice presso il Museo e Real Bosco di Capodimonte, Napoli, dove dirige il dipartimento di restauro. Nel dialogo a cura di Giusy Capone, ci introduce all’arte del restauro, professione oggi quasi tutta al femminile, tramite la «Madonna del Divino Amore» di Raffaello, mirabile rappresentazione della Sacra Famiglia del genio urbinate, oggi nella collezione Farnese conservata al museo. Ritenuto per anni un lavoro di bottega, le indagini di Angela Cerasuolo e della sua squadra ne hanno ristabilito la diretta paternità raffaellesca.
Per me si tratta di una definizione insuperata. Sono messi a fuoco gli aspetti centrali del restauro in una sintesi che riesce a racchiudere tutta la complessità e la problematicità della disciplina. La trasmissione al futuro, il debito che abbiamo nei confronti di chi verrà è un imperativo morale che non dovremmo mai dimenticare: e l’opera d’arte va conservata nella sua consistenza fisica, non un’immagine svincolata dalla materia. Spesso la Teoria del restauro viene banalizzata, diventa una facile formula per giustificare ogni scelta di intervento: si troverà sempre il modo di dire che è stata rispettata l’istanza estetica o l’istanza storica, svilendo la ricchezza del pensiero di Brandi. Giorgio Vasari nella Vita di Raffaello ricordava la Madonna del Divino Amore fra le più belle del periodo romano: «Lavorò un quadro al signor Leonello da Carpi signor di Meldola… miracolosissimo di colorito e di bellezza singulare… di forza e d’una vaghezza tanto leggiadra che io non penso che si possa far meglio». Qual è la vicenda diacronica di quest’opera di cui è stata indicata la sostanziale autografia solo nel 2012? La storia del dipinto è abbastanza semplice: quando Vasari ne parla, già era passata nella collezione di Rodolfo Pio da Carpi, alla cui morte fu acquistato nel 1564 da Alessandro Farnese e conservata a Palazzo Farnese a Roma fra i capolavori più ammirati. Dopo, ha seguito le vicende della collezione Farnese, che a partire dal 1734 è stata condotta a Napoli da Carlo di Borbone. Fino alla fine dell’Ottocento l’autografia del dipinto non era stata messa in dubbio, poi è iniziata la progressiva svalutazione dell’apporto di Raffaello che ha portato a considerarla un’opera totalmente di bottega, anzi di mano di Giovan Francesco Penni, il meno distinto dei suoi allievi. Come si pone il già citato dipinto, emblematico dell’iconografia devozionale, nella specificità dell’arte rinascimentale? La Madonna del Divino Amore è una delle opere di Raffaello che sono state più copiate, sin quasi dal momento dell’esecuzione fino a tutto il XIX secolo: questo dimostra che è divenuta subito un prototipo di immagine devozionale. A noi oggi sembra quasi banale nella sua limpida compostezza, ma poi scopriamo che è il frutto di una elaborazione lunga e complessa, quasi stupefacente. Anche in questo, è emblematica dello spirito del Rinascimento, un esempio di sprezzatura: l’arte che cela l’arte, per apparire naturale. Tommaso Puccini, erudito toscano direttore degli Uffizi, negli appunti di viaggio sulla visita al palazzo di Capodimonte, scrisse sulla Sacra Famiglia: «dirò che ha una leggerezza, la quale non ha reso mai alcuno in tutte le copie che ho veduto, le quali sono assai meschine per farle grandiose, come grandioso e leggero è l’originale». Come si re-staura la leggerezza, rievocando il significato latino di ʽrendere solido’? Ma il termine d’origine credo significhi anche recuperare, in ogni caso è il significato che preferisco. Non dare stabilità con aggiunte e apporti estranei, ma riportare a uno stato di stabilità rispettando la consistenza materiale dell’opera e la funzione estetica insita nei suoi materiali. La leggerezza è una qualità rara, come la semplicità. Si ottiene con poca materia – nel caso in questione con stesure pittoriche trasparenti e delicate – facilmente le aggiunte e le manomissioni la compromettono. Il restauro in questo caso rimuove ciò che è stato aggiunto di improprio e recupera la trasparenza luminosa, la leggerezza. Naturalmente ciò è possibile quando l’opera è sostanzialmente ben conservata, come è avvenuto per la Madonna del Divino Amore. Il restauro ha fatto emergere l’alternanza dei colori: arancio, ocra, lacca, l’intenso azzurro del manto a magnificare l’incarnato roseo del Bambino, il verde delicato e caldo della vegetazione in primo piano a cui fa riscontro la nota acuta del verde tenue del ginocchio di Sant’Anna. In che misura Raffaello riflette la temperie culturale del tempo e quanto se ne discosta, assumendo tratti d’originalità e innovazione? La qualità più straordinaria di Raffaello è stata la capacità di sentire e assimilare tutte le sollecitazioni che gli arrivavano dagli artisti del suo tempo. Gli anni in cui è vissuto hanno visto l’arte trasformarsi e raggiungere vertici di espressività e di raffinatezza assoluti. Raffaello ne è stato protagonista accogliendo quanto di grande gli succedeva attorno e restituendolo con una grazia e un’armonia perfetta. Nel primo rinascimento l'artista era ideatore ed esecutore di un'opera, mentre anni dopo, in quelli di Raffaello, per la sua fase tecnico-esecutiva, l'opera veniva affidata ai collaboratori della bottega. Quanto deve Raffaello ai suoi collaboratori e qual è il ruolo della ʽbottega’ nel Rinascimento? È un discorso complesso. Raffaello si servì molto della bottega, delegando parti della realizzazione delle sue opere, soprattutto nella pittura murale. Ma continuò a mantenere sempre il controllo su quanto si produceva, che alla fine portava il suo marchio. Per dirla in termini moderni efficienza e produttività non inficiavano la qualità del prodotto. Questo anche perché gli allievi di Raffaello erano artisti di prim’ordine, ma soprattutto grazie alla capacità di Raffaello di indirizzare e utilizzare con intelligenza le loro qualità. Un elemento inatteso emerso nell’infrarosso della Madonna del Divino Amore è un tracciato grafico creato da linee, una sorta di ‘piramide prospettica’ inseribile nella costruzione spaziale del gruppo di figure, studiata per armonizzare la scansione tridimensionale. Quali sono le più recenti innovazioni tecnologiche in uso nell’opera di restauro? Le innovazioni tecnologiche sono in continua evoluzione, le metodologie di indagine non invasiva delle opere oggi ci consentono di conoscere tantissimo della loro struttura, di come sono state realizzate, e conoscere ci aiuta a restaurare e conservare meglio. La stessa riflettografia infrarossa in pochi anni è stata perfezionata enormemente. Una delle applicazioni più recenti riguarda gli scanner per il mapping della fluorescenza X, apparecchiature che rilevano sulla superficie del dipinto gli elementi chimici di cui è composto, senza bisogno di prelievi, e ci restituiscono delle immagini della loro distribuzione immediatamente comprensibili. La sfida più grande continua a essere la lettura di queste indagini, l’interpretazione di immagini e grafici mettendoli in relazione con quello che possiamo verificare con l’osservazione visiva diretta, più o meno amplificata. Solo con l'Istituto Centrale per il Restauro, costituito nel 1939 da Cesare Brandi, anche le donne iniziarono ad approcciarsi a questo mondo. Le prime diplomate furono Nerina Neri, Laura Sbordini e Anna Maria Sorace. Nel 1964 per la prima volta il numero delle allieve della scuola superò quello degli uomini. Oggi si sono affermate molte personalità femminili. Quanto incidono le discriminazioni di genere? Fra i tanti meriti dell’Istituto Centrale, quello di aver introdotto le donne nel mondo del restauro non è un’innovazione assoluta. Già nel XVIII secolo in Francia operavano molte donne che avevano raggiunto una certa popolarità, tanto che ce ne sono giunti i nomi: si trattava spesso di vedove che continuavano l’attività dei mariti restauratori grazie alla pratica del ‘segreto’, dei ritrovati che i restauratori tenevano nascosti per poter mantenere un’esclusiva e alzare il loro prezzo. Anche a Napoli, nel Settecento la vedova di Moriconi, un restauratore che aveva ‘scoperto’ una vernice che ravvivava i dipinti pompeiani appena rinvenuti e non ne aveva mai rivelato la composizione, continuò a esercitare l’attività del marito dopo la sua morte. A Roma era famosa Margherita Bernini… Oggi nel restauro le donne sono la stragrande maggioranza, nei corsi universitari la quasi totalità, tanto che scherzando parliamo di ‘quota azzurra’ per gli allievi maschi: il rapporto è effettivamente di uno a dieci.
Ci sono molti motivi per questo, non tutti gratificanti, ma diciamo che la pazienza, l’attitudine alla cura, la disponibilità verso l’altro da sé, la sensibilità, la capacità di ‘ascolto’, sono tutte doti ‘femminili’ – per quanto possano aver senso tali generalizzazioni – che predispongono a esercitare questa splendida professione. E il contributo di tante donne, nel restauro come nella storia dell’arte, è oggi fondamentale per continuare a ‘trasmettere al futuro’ il prezioso patrimonio che abbiamo in custodia.
Intervista realizzata da Giusy Capone |