Dal sistema al frammento. Divagazioni di filosofia tra Italia e Romania Dal sistema al frammento: la filosofia nella cultura contemporanea e il suo ruolo, ormai marginale, nei dibattiti pubblici, sono alcuni dei temi del dialogo tra il filosofo romeno Ciprian Vălcan e il suo interlocutore italiano, Alfonso Cariolato, che non esita ad affermare: «Quando i filosofi sono ammessi nei luoghi in cui si costruisce l’“opinione pubblica” gli esiti sono quasi sempre piuttosto deludenti. Ci vorrebbe una nuova inattualità, dopo quella nietzschiana, che sapesse ancora una volta incidere il reale. Ma è proprio questo il problema sociale e politico, prima ancora che filosofico, che stiamo vivendo».. A.C. A prima vista, sembra che tale visione abbia più di qualche probabilità di essere corretta. Anzi, sembra quasi andare da sé. E chiaro ad esempio come il periodo che va da Kant a Schelling, passando per il cruciale snodo hegeliano, sia caratterizzato, più che da un’ossessione, direi da un’ebrezza quasi bacchica, quanto mai produttiva e tutt’altro che sterile, per il sistema, e che più tardi con l’avvento di filosofi come Kierkegaard e Nietzsche, ad esempio, ma non solo ovviamente, si assista a una sorta di deflagrazione di ogni tenuta che si ripercuote in dinamiche di pensiero differenti e in stili di scrittura affatto diversi. E così per molti altri momenti della filosofia, basti pensare al medioevo che vede l’esigenza sistematica espressa in primis dal tomismo, ma anche pensatori altrettanto straordinari come Gugliemo d’Ockham, ad esempio, nel quale emerge una straordinaria passione per il concreto e il particolare che mal si concilia con una rigida sistematicità. E così via, si potrebbero portare molti altri casi. Certamente alla base di tutto questo vi sono delle ragioni storiche, delle congiunture economiche e sociali, oltre che condizioni politiche ogni volta determinate, a cui c’è anche da aggiungere il venire alla luce di un certo spirito nazionale per cui un filosofo inglese affronta i problemi in modo diverso rispetto al filosofo tedesco o francese ecc. Ma tutto questo è piuttosto evidente e dunque, in fondo, poco stimolante. Piuttosto, ciò che mi interessa è vedere come il problema stesso costruito da ciascun filosofo porti con sé differenti piani di esplicazione. Nessuno parte mai astrattamente dal sistema o dal frammento. Si parte da una questione, ed è il suo sviluppo a richiedere determinate modalità di espressione. Che cos’è, allora, ogni volta, l’esigenza di un sistema o l’urgenza della frammentarietà? Certo, le modalità di esplicazione di un pensiero risentiranno delle influenze, e dovranno tenere conto delle forme, chiamiamole “istituzionali”, attraverso le quali si scrive di filosofia in una determinata epoca. E tuttavia lo stile di un filosofo finisce per imporsi, trovare un suo ritmo, la sua scansione. Pensate a cosa diventa la forma trattato con l’Ethica di Spinoza, o a quanta filosofia si può trovare nei piccoli opuscoli d’occasione scritti da Leibniz oppure all’epistolario cartesiano dove l’intento di sistema viene assediato da tutte le parti dalle idee, dalle riflessioni, dai pensieri più disparati su cui Descartes riflette, dialoga, discorre e che riprende, amplia, estende, spesso in modo assai poco sistematico. Si potrebbe dire che nel ’600 questa era la situazione della filosofia, ma i grandi filosofi portano all’eccesso ogni schema riconosciuto e sembrano animati ogni volta da esigenze diverse che mal si conciliano con le determinazioni generali. Per questo bisognerebbe leggere i creatori di sistemi cercando quanto in essi vi sia di disarticolato, di vago, di implicito e, d’altra parte, rilevare una sorta di sistematicità tutta particolare nei pensatori del frammento. Non ho alcuna avversione contro il termine “sistema”, né sento una particolare propensione per la frammentazione. Secondo l’etimologia, il sistema è un “porre insieme”. Anche nel pensatore meno “sistematico” vi sono echi, richiami e relazioni. Ciò che è importante è che il pensiero non faccia di questo “porre insieme” un tutto autoreferenziale dal quale significare, spiegare o giudicare l’esistenza. Viviamo in un’epoca del frammento? O sogniamo ancora le metanarrazioni la cui morte è stata presagita dai pontefici del postmodernismo? A.C. È difficile dire in che epoca viviamo. Per non parlare della situazione della filosofia oggi. Da una parte, specie in ambito accademico, si assiste sempre più a una sorta di tecnicizzazione della filosofia che tenta di legittimarsi attraverso un lavoro di specializzazione intellettuale. Dall’altra, è ormai chiaro che la filosofia non ha niente da perdere perché in un certo senso ha già perso tutto, ed è dunque aperta a un avvenire imprevedibile. Per tornare alla sua domanda, se c’è stata un’epoca del frammento è stata quella del romanticismo dove l’esplosione di un mondo oggettivo ha portato alla frammentazione interiore, e dunque al formidabile paradosso di un finito illimitato ogni volta puntuale. Nella nostra epoca si assiste all’espropriazione della stessa possibilità di un frammento dato e riconosciuto come tale. La frammentazione che è la nostra non dà luogo ad alcuna figura, ma è l’esperienza stessa dell’esposizione e della finitezza. Un pensiero all’altezza di quanto accade non può essere che un pensiero turbato da questa vertigine. Qual è, secondo lei, il ruolo di Nietzsche nella legittimazione del frammento quale forma valida della riflessione filosofica? A.C. L’influenza di Nietzsche è enorme, naturalmente. E non soltanto per quanto concerne la legittimazione del frammento. Con Nietzsche è la filosofia stessa che si apre a ciò che non può dominare. È un gesto straordinario di cui siamo ben lontani dall’averne compreso tutti gli effetti. Nietzsche toglie ogni alibi alla filosofia – il pensatore “privato” rovescia i piani, gli usi e le consuetudini. D’ora in poi non si sa più cosa aspettarsi da un filosofo. E un filosofo può nascondersi ovunque. Nietzsche non si affida a una tradizione, ma a un istinto, per questo il suo pensiero si muove come un animale che segue le tracce, segna il territorio, sfugge ai predatori, si ciba di ciò che trova. Nietzsche affronta ogni cosa di petto, senza mediazioni, e tuttavia mette in campo ogni sorta di astuzia e di maschera. È sconcertante e straordinariamente efficace. I suoi concetti sono come delle pietre che rotolano: diventa difficile scansarli e gestirli. Questo vuol dire anche che – dopo di lui, soprattutto – non è più possibile per il pensatore richiamarsi a nessuno. O meglio: non possiamo che riferirci a qualcuno, ma questo riferimento non è più sufficiente. Pensare è affrontare il mare aperto, anche se bisogna subito aggiungere che non vi è qui nulla che giustifichi un compiacimento di qualsiasi tipo. Il frammento rimane ancora un mezzo di espressione utilizzato dai pensatori iconoclasti per sfidare le regole sacrosanti della filosofia ufficiale? Possiamo dire che il frammento è ormai diventato classico, che il suo potenziale di ribellione è stato “addomesticato”? A.C. Non so se esistano pensatori “iconoclasti”. Esiste chi pensa, ed è questo che importa. Del resto ogni grande filosofia distrugge e costruisce. È come una pioggia violenta e improvvisa. Per quanto riguarda invece la “filosofia ufficiale”, come dice lei, è curioso: chi al giorno d’oggi rivendica più quel ruolo? Anche gli accademici più retrivi stanno bene attenti a nascondere la loro “ufficialità” e a minimizzare in ogni occasione pubblica il loro potere. Ci troviamo quindi di fronte al paradosso per cui tutti, ma proprio tutti, gridano contro una certa immagine, sempre diversa, della filosofia, mentre ogni cosa resta in definitiva così com’è. Non è neanche più il caso di parlarne. E tuttavia è evidente che il problema sussiste, e che investe lo statuto stesso della filosofia e la sua potenza creativa. Per quanto riguarda il frammento, poi, esso non solo è diventato una delle tante modalità attraverso cui è possibile “fare filosofia” (pratica che, a quanto pare, non abbisogna necessariamente del pensare), ma in sé – come mezzo d’espressione tra gli altri – non credo abbia più ormai alcun potenziale sovversivo. Forse per pensare la frammentazione di cui parlavo sopra è necessario, una volta di più, che il pensiero trovi da sé differenti procedure di esplicazione. Quale pensa sia il posto della filosofia nella cultura contemporanea? Ha ancora un ruolo importante nei dibattiti pubblici? A.C. Mi pare assolutamente marginale, almeno in Italia. Forse in altri paesi è diverso, ma non credo di molto. Da tempo, ormai, ci sono altre figure che hanno sostituito il filosofo nel dibattiti pubblici. E devo dire, peraltro, che quando i filosofi sono ammessi nei luoghi in cui si costruisce l’“opinione pubblica” gli esiti sono quasi sempre piuttosto deludenti. Ci vorrebbe una nuova inattualità, dopo quella nietzschiana, che sapesse ancora una volta incidere il reale. Ma è proprio questo il problema sociale e politico, prima ancora che filosofico, che stiamo vivendo. Il frammento potrebbe rappresentare una forma quasi clandestina di sopravvivenza della riflessione filosofica dopo la constatazione del decesso della filosofia? A.C. Ripeto, non credo che la forma frammento – come qualsiasi altra forma disponibile, del resto – possa salvaguardare la sopravvivenza della filosofia. C’è da dire comunque che da un certo punto di vista il pensiero non può che sopravvivere, anzi è sempre un sopravvissuto che testimonia della vita contro la morte anche quando non fa che dire che tutto è vano. Sì, vi è qualcosa di clandestino in ogni grande filosofia. Chi pensa, lo sappia o no, vive e opera in luoghi dove la luce arriva solo incidentalmente e i contorni delle cose così come le conosciamo diventano sempre più incerti. Vedo che lei parla di “decesso” e non di “morte” della filosofia. È curioso – sembra riecheggiare la famosa distinzione di Sein und Zeit tra l’uomo che muore (sterben) e l’animale che invece cessa semplicemente di vivere o crepa (verenden). In questo modo la filosofia passerebbe per una sorta di strano animale. È una definizione che mi piace molto. Ma non giurerei sulla dipartita di questo animale. Non mi convince questa constatazione di morte, troppo affrettata, troppo semplice. Oppure, se volete, sì: è morta e, dunque, pensiamo – così come Beckett diceva “imagination morte imaginez”.
Intervista realizzata da Ciprian Vălcan
(n. 2, febbraio 2012, anno II)
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