Alessandro Moscè: «Lo scrittore saccheggia le sensazioni di morte che lo ossessionano» «Le ossessioni sono creative. Lo scrittore saccheggia in continuazione le sensazioni di morte che lo ossessionano. Il talento della malattia contiene un avvertimento, un sintomo: il panico, che assomiglia molto alla mortalità e testimonia l’apice della paura come spettro ancestrale e, appunto, l’ossessione delle ossessioni». È questa la premessa del dialogo tra la scrittrice romena Eliza Macadan e il suo interlocutore italiano, Alessandro Moscè, autore di Il talento della malattia (Avagliano Editore 2012), che si occupa di critica letteraria su varie riviste e giornali. Ha pubblicato l’antologia di poeti italiani contemporanei Lirici e visionari (Il lavoro editoriale, Ancona 2003); i libri di saggi critici Luoghi del Novecento (Marsilio, Venezia 2004) e Tra due secoli (Neftasia, Pesaro 2007); l’antologia di poeti italiani del secondo Novecento, tradotta negli Stati Uniti, The new italian poetry (Gradiva, New York 2006). Ha date alle stampe le raccolte poetiche L’odore dei vicoli (I Quaderni del Battello Ebbro, Porretta Terme 2004), Stanze all’aperto (Moretti & Vitali, Bergamo 2008) e Hotel della notte (Aragno, Torino 2013). Ha pubblicato il saggio narrato Il viaggiatore residente (Cattedrale, Ancona 2009) e il romanzo Il talento della malattia (Avagliano, Roma 2012). È tradotto in Spagna e in Messico. La malattia rende metafisici, affermava Emil Cioran. Specie quando si va incontro a ciò che sembra irrimediabile, vale a dire la dimensione di finitudine umana, si apre un vasto orizzonte di domande esistenziali sulla dualità vita/morte, che per me ha contato molto di più di quella pasoliniana natura/storia. Non solo. Una malattia altamente mortale come il sarcoma di Ewing che contrassi da bambino, durante questi anni mi ha «permeato» in modo disuguale. Nel frattempo sono diventato un uomo, e ciò che all’inizio innescava il silenzio per un meccanismo difensivo, di disagio colpevole, si è tramutato pian piano nell’urgenza di dire, di raccontare. Non credo di aver scritto una storia personale, perché molti malati mi hanno cercato confidandomi di essersi ritrovati nelle mie parole. In fondo La montagna incantata di Thomas Mann ci dimostra che «l’interesse per la malattia e la morte è l’altra espressione dell’interesse per la vita». La psicologia moderna è convinta che il malato possa esorcizzare il suo stato psichico mediante la cosiddetta «motivazione antagonista». Il sogno infantile equivale al diversivo, al divertimento: per questo i bambini avrebbero una più alta percentuale di guarigione dai tumori. La mia motivazione era rappresentata dal mio idolo di allora, un calciatore, come per molti bambini: Giorgio Chinaglia, il centravanti della Lazio campione d’Italia nel 1974 e presidente nel 1983, l’anno in cui mi ammalai. Un personaggio bizzoso, in controtendenza, amato quanto odiato dal pubblico sportivo. Volevo conoscerlo e questo mi spingeva ad introiettare lo slogan che gli urlavano, idolatrandolo, i tifosi della Lazio: «Giorgio Chinaglia è il grido di battaglia». Chinaglia: un idolo, un amuleto, un portafortuna, il mio Cristo laico. Posso dire che la malattia non si fronteggia con la sola speranza di guarire. Né con la commozione, che è un sentimento di tenerezza per se stessi. Meno che mai con la rabbia. La malattia va semplicemente ignorata. Lo so, è un compito improbo, tanto è vero che può riuscirci, e in parte, un bambino, nella sua semi-incoscienza. Nei momenti in cui la consapevolezza di poter morire prendeva il sopravvento, la mia reazione salvifica contro il «vuoto pneumatico» consisteva nel pensiero di un simbolo di forza. Un famoso giocatore di calcio è diventato il viatico per far fronte ai luoghi di reclusione e di separatezza dalla vita, gli ospedali. Il campione come simbolo di vittoria, uno spazio di leggerezza come antitesi alla malattia. Il linguaggio con il quale racconti il calcio è, più o meno, quello del giornalismo sportivo dell’epoca. Confessi nel libro che le tue letture comprendevano massicciamente i giornali sportivi. La «divinità» che ci tiene connessi alla vita si mostra in forme diverse. Il tuo Cristo laico era Giorgio Chinaglia, hai detto. Qual è il tuo rapporto con la fede, da adulto? L’ossessione della morte è il tema prediletto dei grandi creatori. Ti chiedo in che modo gestisci l’ossessione della morte e se altre ossessioni stanno migrando nella tua creazione. Il calcio simboleggia la lotta antropologica per la sopravvivenza. Al termine di una partita c’è chi vince e c’è chi perde, proprio come quando due animali si azzannano, primitivamente, per uccidersi, per nutrirsi l’uno dell’altro. Ed è come nella partita esistenziale tra sanità e malattia, per cui l’uomo, alla fine della sua avventura, deve soccombere ad un destino di morte. Per me il calcio è anche una passione nata prima della letteratura. In esergo a Il talento della malattia ho inserito una frase di Pier Paolo Pasolini: «Il calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. È rito nel fondo, anche se è evasione. Mentre altre rappresentazioni sacre, persino la messa, sono in declino, il calcio è l’unica rimastaci. Il calcio è lo spettacolo che ha sostituito il teatro». Si può raccontare come faceva Gianni Brera, per sublimare il gesto atletico e un’esecuzione tecnica o per cogliere le radici etniche di un campione. Insomma, è qualcosa di più complesso di una radiocronaca scarna, domenicale, di un resoconto che appare tutti i giorni sulla «Gazzetta dello Sport». E poi c’è l’emulazione del campione, qualcosa che assomiglia alla poesia che cristallizza impressioni, immagini, ricordi anche vaghi. Quindi va ben oltre la faziosità del tifoso che osanna esclusivamente la propria squadra. Venendo alla tua considerazione, non credo che il calcio al quale faccio riferimento sia solo quello del giornalismo dell’epoca. Può essere anche questo, ma specie nella seconda parte del libro si instaura un rapporto simbiotico tra me e la Lazio di Chinaglia, che ho conosciuto per la prima volta dalle fabulazioni di mio padre, il quale tornando da Roma (dove lavorava) a Fabriano, la città dove ancora vivo, mi prendeva in disparte e mi raccontava dell’epopea del 1974, l’anno del primo scudetto, come si trattasse della favola di Pinocchio. La mia fede infantile, invece, nasce dalla formazione cattolica. Sono stato educato in un istituto di suore dove «dialogavo» sottovoce con Chinaglia, ma oggi non penso di avere una visione confessionale. Tutt’altro. Il mio Dio è interrogativo e filosofico, teologico. Il Dio del dubbio, difficilmente situabile, come un punto di dolore o una cicatrice. Forse è una specie di leggenda celestiale e crudele. La morte mi spaventa e quindi, per un meccanismo compensativo, mi affascina. La immagino, a volte anche in modo insolente, come quando creo l’entità che mi interpella nella veglia notturna. Un’apparizione misterica che sancisce le regole di una nuova, possibile vita. Ma questo saltus non è pienamente comprensibile per l’essere umano. E allora la fede subentra come una grazia. Per quanto riguarda le ossessioni, esse sono creative. Permettono cioè di soffermarsi sull’ascolto della propria interiorità come esperienza non corporea. Non danno certezze, liberazioni. Sono il preambolo per la creazione di una storia, per pianificare un romanzo. Oppure per una fulminea illuminazione che si traduce in poesia. La morte è inevitabile, quindi imperitura, «un’usanza che dobbiamo rispettare», diceva Jorge Borges. Ed è chiaro che non possiamo dimenticarla. Lo scrittore saccheggia in continuazione le sensazioni di morte che lo ossessionano. Il talento della malattia contiene un avvertimento, un sintomo: il panico, che assomiglia molto alla mortalità e testimonia l’apice della paura come spettro ancestrale e, appunto, l’ossessione delle ossessioni. È passato un anno dall’uscita del libro. I feed back sono stati quelli che ti aspettavi? Hai avuto delle presentazioni con il pubblico? Sei andato in qualche istituto pediatrico per leggere davanti ai ragazzi? Cosa hai in mente adesso? Altre narrazioni, altri romanzi? Il talento della malattia è alla sua quarta edizione ed ha avuto decine e decine di recensioni sulla stampa nazionale. La gente lo ha apprezzato soprattutto perché tratta una storia vera, senza infingimenti. Ed è una storia a lieto fine che peraltro coinvolge un bambino. Ho preso parte al «Progetto Martina» (come testimonial), che si prefigge l’obiettivo di informare i giovani sulle modalità di lotta ai tumori, sulla possibilità di evitarne alcuni, sull’opportunità della diagnosi tempestiva, sulla necessità di impegnarsi in prima persona. La mia produzione narrativa proseguirà con un romanzo dal titolo Telefonami la sera. Ho in mente una trilogia: dall’infanzia all’adolescenza fino all’età matura, passando da Il talento della malattia a Telefonami la sera e ad Eresia d’amore. Sto lavorando ad un progetto composito che vuole invertire la tendenza tutta italiana per cui ciò che conta appare in televisione o sul «Corriere della Sera». Il resto è oscurità. C’è invece una zona franca, aleatoria, la quotidianità di chi non finisce sullo schermo o sui giornali, quella della gente comune che gioisce o soffre dentro una casa, nel posto di lavoro, in mezzo alla strada ecc. Gli scrittori devono fare questo: un’operazione di repechage delle storie straordinarie eppure usuali. Non sono esseri alieni, tutt’altro. Mi ha molto divertito, a proposito, un’intervista rilasciata di recente da Umberto Eco che citava il grande Leopardi e la sua frequentazione delle prostitute. La gente si è scandalizzata perché non può accettare un’ovvietà così offensiva, pur nell’ipocrisia di maniera. È stata una provocazione per dire che il padre del modernismo europeo non viveva solo per l’«infinito». Telefonami la sera è il romanzo dell’adolescenza (un’età sempre più prolungata) e dei vent’anni. Tre ragazzi universitari, mentre studiano, si raccontano e senza accorgersene, lentamente si innamorano. Luigi, Anna e Gaia costituiscono un triangolo che è anche metafora dell’esistenza. Uno dei tre è sempre, a turno, un incomodo per gli altri due. Si svelano le identità fragili dei giovani e degli adulti degli anni Novanta, lontani dai clamori metropolitani, precari e residenti in una provincia immortale, romantica. Luigi rivede il suo passato e decide di rincorrere ancora le due ragazze, preso dal rimorso per non averle capite abbastanza. Oggi fa il giornalista e viene inviato prima a L’Aquila per il terremoto e poi in un campo profughi in Tunisia. Ho lasciato per ultima la risposta alla domanda sulla mia formazione letteraria. Sono uno scrittore di luoghi e provengo dal magistero di Franco Scataglini, il poeta anconetano che ha coniato il concetto di «residenza». Che senso ha vivere qui e non altrove? Cioè in un luogo alienato come qualunque altro. La stessa cosa pensavano i kantiani. Il luogo, però, non è difensivo, localistico, ma universale. La postazione, cioè, per porsi quegli interrogativi che sono contenuti in tutti i miei scritti, su nascita, vita, morte, perdita, assenza, malattia: gli archetipi dell’esistenza che si prefigurano come una certificazione. E in questa ottica penso a Cesare Pavese, scrittore che amo molto, per cui le persone e le cose debbono venire a noi nell’«unità del ricordo». Sono un lettore onnivoro di poeti e narratori italiani e stranieri. Leopardi, Baudelaire e Proust rimangono tre capisaldi della mia formazione, così come gli scrittori che ho incontrato personalmente. Penso a Giorgio Saviane, l’autore di Il mare verticale ed Eutanasia di un amore, oggi dimenticato e che andrebbe assolutamente riscoperto. Il talento della malattia presenta una zona che chiamerei fantastica, come nei racconti della donna dei vicoli. L’atmosfera è permeata da questa magia che esercita su di noi un altro tempo, mitologico e sacro. I riti magici evocati dalla donna che occupa il posto della madre assente per lavoro sono, a mio avviso, un punto di forza nella narrazione. Mircea Eliade diceva che l’uomo non può vivere nel caos, che la sua casa è orientata in un determinato modo, che è il centro del mondo, che ogni abitato è stato creato come copia di un modello transumano, di origine divina, e che solo una certa organizzazione mette in comunione e, perché no, in comunicazione, cielo e terra. Racconta un po’ il tuo ricordo della donna dei vicoli, depositaria di un sapere ancestrale. Il talento della malattia è un libro evocativo. Ci sono dei personaggi marginali, secondari, i mattocchi dall’impronta felliniesque, come si possono definire, che si aggiravano ancora dalle mie parti, durante gli anni Settanta e Ottanta. Sembravano sospesi nel tempo perché potevano essere senza età anagrafica, provenienti da un mondo geograficamente irrintracciabile, quasi inesistente. Pierino della casa di riposo che parlava con la Madonna lanciando la sua eco nei pozzi, o la stessa Miranda, che si prendeva cura di me, quando ero piccolo. Aveva dei riti per scacciare la febbre e sapeva narrare oralmente come si faceva all’inizio del secolo scorso nelle veglie contadine davanti al fuoco acceso del caminetto. Riconosceva i demoni ed era convinta di vederli sotto forma di gatti e pipistrelli. Proprio la civiltà contadina era foriera di fantasie a metà tra il reale e l’immaginario. Questo contenitore di storie lunari, stravaganti, mi ha sempre colpito. La donna dei vicoli aveva un volto da Azteca, solcato di rughe. Non parlava mai e non conosceva l’uso dell’energia elettrica. Era una donna ottocentesca, con il fazzoletto in testa. La via in cui abitava, stretta, lunga e compressa, conserva ancora delle finestre e dei portoni molti bassi. I riti della vita casalinga si possono occhieggiare tra una tendina e l’altra, mentre la luce delle lampadine appese ai soffitti accarezza le cose e dà loro una dimensione suggestiva. A pochi passi dal caos delle automobili ci si sente immersi in un mondo remoto che non conosce progresso né tecnologia. La donna dei vicoli si chiamava Maria Santa, era la suocera di Miranda. A pranzo beveva due bicchieri di vino rosso uno dopo l’altro, si allontanava dalla tavola e tornava alla sua macchina Singer per cucire. Faceva una certa impressione vederla in quell’angolo dove in bella mostra allineava nastri, merletti, federe. Maria Santa non guardava la televisione e non utilizzava il telefono. Quando scendeva il tramonto appoggiava il gomito sul davanzale della finestra e fissava i tetti per ore. Sotto il naso pendulo aveva dei baffi ai lati che non tagliava mai. Non ricordo la sua voce né una sua espressione. Una donna astratta trasformata in carne ed ossa, insomma. Poteva essere muta, del tutto estraniata da quella casa, da quel vicolo, da quel quartiere dove oggi vivono soprattutto famiglie albanesi e macedoni. Alcune con il permesso di soggiorno, altre clandestinamente. La società multietnica ha in parte espiantato le radici della società contadina marchigiana formatasi nei dintorni di Fabriano (nelle frazioni di Nebbiano, Moscano, Vallemontagnana ecc.), che è stata una capitale mondiale dell’elettrodomestico e della carta e che oggi sta attraversando una grave recessione economica. Siamo in un tempo di crisi economica, di crisi delle varie ideologie, di crisi della società e della cultura. Sembra che l’uomo moderno viva in un continuo stato di allarme. La Fabriano della tua infanzia è scomparsa per sempre, la convivenza multietnica è regola. So che non vivi solo della scrittura creativa, dei romanzi e delle poesie, ma anche della scrittura giornalistica. Come si rispecchia nella tua opera l’attualità? Pensi che lo scrittore debba essere coinvolto politicamente? Ha gli strumenti per cambiare qualcosa? Oggi lo short message, il linguaggio ridotto in pillole ed estrapolato dal web, dall’Ipod e dal cellulare ha impoverito la forza dell’espressione testuale. È il male inguaribile di una civiltà sempre più tecnocratica. Tanto è vero che la comunicazione ha soppiantato la conoscenza. Il sapere è stato scavalcato da un asettico informare, da ciò che ha portato il Premio Nobel Mario Vargas Llosa a decretare provocatoriamente che la cultura è sempre più pop. Non credo che lo scrittore possa fare molto per cambiare questa triste situazione. Anzi, ne è la prima vittima, visto che il calo dei lettori di libri letterari è stato drastico, negli ultimi anni. Lo scrittore è un reduce, di fronte all’avvento prima delle arti audio-visive e poi di Internet, questo grande contenitore senza distinzione dove tutte le spezie hanno lo stesso sapore. Tanto da spingere un critico eccellente come Franco Brevini, nel suo saggio Un cerino nel buio, a disquisire su come la cultura dovrebbe sopravvivere ai «barbari» per evitare il collasso. Detto questo, vengo al mio ruolo di giornalista. Mi occupo di cultura, ma anche di altro. La cronaca quotidiana è indispensabile nel mio lavoro, perché permette di capire come si evolve la società, come cambiano i costumi e gli atteggiamenti delle persone. L’attualità entra nei miei romanzi, tanto è vero che come accennavo in una delle risposte precedenti, il protagonista del romanzo inedito Telefonami la sera fa il giornalista e viene inviato prima a l’Aquila per verificare lo stato della ricostruzione, e poi in Tunisia dopo lo sbarco dei profughi. In Eresia d’amore, l’ultimo dei romanzi che fa parte della trilogia, un giovane architetto ascolta i racconti di un amico che frequenta i salotti e le alcove romane dei politici, dove la promiscuità è la ragione che gli permette di ottenere favori professionali. L’attualità ha un ruolo se non rimane confinata dentro gli schemi laconici del resoconto, se costituisce l’input per ambientare una storia e per caratterizzare i personaggi che la compongono. Lo scrittore può essere coinvolto politicamente, anche se non credo affatto alla letteratura di stampo politico, meno che mai all’ideologia. Sono anzi convinto che l’ideologia abbia spesso commutato i valori, sia nella critica che nella storia della letteratura del Novecento. Il lavoro dello scrittore è solitario: l’impatto con la parola è duro e selettivo. Non si nasce scrittori, lo si diventa attraverso un procedimento che, come disse una volta un critico americano del quale non ricordo il nome, dovrebbe indurre a leggere molto e a scrivere poco affinché si possa scrivere bene. Non condivido, infine, una certa spettacolarizzazione della nostra produzione romanzesca mutuata dal cinema americano. Sembra che il giallo e il thriller siano l’unica risorsa rimasta. C’è uno sbilanciamento verso questo genere di libri di intrattenimento. Gli scrittori che raccontano un mondo sono rimasti davvero pochissimi. Ci si nutre di fiction allo stato puro, di fatti sanguinosi come fossero il pane quotidiano. Oggi Marcel Proust non sarebbe mai stato pubblicato. Per quale ragione scrivi? Lo fai con fatica o con facilità? Quali consigli daresti ad un giovane, aspirante scrittore? Quali sono i tuoi tic, le tue superstizioni, le tue paure? Svela un po’ della persona che sei. «Si scrive per capire ciò che si scrive», asseriva Alberto Moravia. Si scrive per un conflitto interiore, per guarire, per fermare il tempo, per il bisogno di sostituire il sogno alla realtà, per la paura della morte, per lasciare qualcosa. Come dice il mio amico Roberto Pazzi, si scrive per un accrescimento di vitalità, per una pulsione seducente e terapeutica. Scrivo con fatica quando non sono convinto della mia immaginazione, mentre credo che l’ispirazione non esista. Scrivo con facilità quando entro in una specie di transfert e sento che un doppio dentro me stesso mi guida con disinvoltura. Ad un aspirante scrittore darei il consiglio di leggere i classici e i contemporanei, di formarsi, innanzitutto, sapendo che l’editoria italiana è fortemente in crisi, che i libri si vendono sempre meno e che la fonte principale della scrittura destinata a durare è esistenziale, cioè non sollecitata dalla vanagloria. Caratterialmente sono soprattutto un ansioso. Ma l’ansia è produttiva, è uno stato psichico che spinge a ricercare e a scoprire quel di più di sé e degli altri. La vita degli altri è la nostra vita, in fondo. Lo scrittore impara continuamente ad universalizzare, ad individuare affinità, similitudini. Quindi ben venga la mia ansia. Scrivo sempre all’alba, raramente di pomeriggio. Rileggo tutto e correggo le mie bozze con una matita rossa e blu stando sdraiato a letto. Non sono mai contento dei miei dattiloscritti e finisco con il tormentarli. Scrivo per lo più al computer, ma tengo un quaderno sul tavolo di lavoro e un altro in macchina dove annoto tutto ciò che mi colpisce. A volte sono preso dalla paura di non riuscire più a scrivere poesie, racconti, romanzi, recensioni. Quando dormo sogno, e spesso cerco di ricostruire alcune delle visioni notturne. Questi sogni attengono realmente al passato, come se aprissero i cassetti della memoria e mi consegnassero ciò che ho dimenticato.
Intervista realizzata da Eliza Macadan
(n. 7-8, luglio-agosto 2013, anno III) |