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Alberto Ravasio: «Le donne sono molto più coraggiose e storiche e polifoniche degli uomini»
Continua la nostra inchiesta, a cura di Afrodita Cionchin e Giusy Capone, nel campo della critica letteraria, con diversi argomenti di attualità e un'ampia indagine sulla ricezione della letteratura romena in Italia, un tema di particolare interesse per noi.
Ospite dei nostri Incontri critici è Alberto Ravasio (Bergamo, 1990), laureato in Scienze filosofiche presso l’Università degli Studi di Milano. I suoi testi Pornogonia e Le vite sessuali sono stati segnalati dal Premio Calvino nel 2018 e nel 2020. Suoi lavori in prosa sono apparsi su La Balena Bianca, L’Indice dei libri del mese, Pangea, Verde, la nuova carne, micorrize, la Domenica del Sole 24 Ore (col racconto vincitore del concorso «Leggere i Venti», organizzato dal Premio Calvino in collaborazione con il Sole e Book Pride). Con il romanzo L’educazione sentimentale di Guglielmo Sputacchiera (Quodlibet, 2022) è stato finalista alla xxxiv edizione del Premio Calvino. Si è interessato anche alla letteratura romena, in particolare all’opera di Mircea Cărtărescu (si veda qui).
Guglielmo Sputacchiera, inetto sociale e sessuale, si sveglia trasformato in ciò che più gli manca: una donna, è diventato una donna. Ovidio, Tiresia, Ermafrodito, Ifi, Ceni, Kafka narrano o sono essi stessi casi di ‘metamorfosi’ che minano e demoliscono ciò che è la certezza, l’edificio stabile su cui si accomodano gli esseri umani. Il corpo potrebbe, oggidì, essere reputato un «fatto sociale totale» atto a decodificare dinamiche culturali di carattere più generale?
La transessualizzazione di Sputacchiera è prima di tutto una castrazione socioeconomica. Freud diceva che la famiglia si fonda sulla proibizione dell’incesto, cioè sulla proibizione per il figlio di definirsi sessualmente andando a letto con la madre. Se le condizioni economiche odierne impediscono ai figli di emanciparsi dai genitori, allora questa proibizione del sesso si estende anche alla fase adulta e i figli restano dei castrati, disabili sociali e sessuali appunto. Sputacchiera non ha rapporti con donne, ma le cause riguardano più Marx che Freud. Come vede, i riferimenti colti ci sono, ma tanto per citare Nietzsche, penso che quando uno comincia a scrivere innanzitutto deve smettere di leggere, togliere i libri dalla scrivania, perché l’affabulazione letteraria, almeno per me, è il contrario della competenza. Chi sa trascrive, chi non sa prova a scriverne.
Paesani cattonazisti, l’odiato parentume, la dottoressa che palpa, il santone mariano. Lei srotola un ‘freakshow’ davvero virtuosistico. Il suo sguardo ha implicazioni morali?
Lo sguardo di cui parla è l’unico sguardo che ho, mi tengo quello e ci faccio autocritica letteraria a posteriori, a fatto letterario compiuto. Il mondo che sta sulla pagina è il mondo così come lo vedo, e se qualche volta me lo invento alla fine finisco per crederci anch’io. Da qualche parte Philip Roth dice che La metamorfosi non deriva dal rapporto di Kafka con suo padre, ma al contrario è proprio scrivendo La metamorfosi che Kafka costruisce, diciamo pure inventa, il suo rapporto col padre. In questo non c’è nulla di psicomagico, è solo un fatto di priorità temporale. Gli scrittori, sia santi che porci, passano più tempo coi libri che con le persone.
La digitalizzazione della vita e della sessualità. L’Eros non è una tematica tra le altre bensì la stessa coscienza erotica dell’immagine come sensibilità e corporeità. La digitalizzazione come ha cambiato la fruizione del porno, volendolo reputare uno dei prodotti più peculiari del tecnocapitalismo ipermediale?
La digitalizzazione della sessualità conduce inevitabilmente all’obsolescenza del corpo, o quantomeno all’obsolescenza di sensi come tatto, olfatto, gusto. Se quarant’anni fa (e parlo per amici) avessi voluto travestirmi da Mary Poppins e vivere una sessualità alla Mary Poppins, sarebbe stato tutto molto più costoso e rocambolesco, mentre ora posso aprire un profilo Facebook e dichiararmi Mary Poppins e la gente mi scriverà trattandomi e maltrattandomi come tale. Io nel romanzo parlo di digitalizzazione della sessualità, ma ovviamente la sessualità, come in Sade, Foucault, Pasolini, è una cartina al tornasole per affrontare politica, società, economia, insomma quella cosa chiamata vita umana sulla terra.
Oggi, Alberto, la rappresentabilità e la rappresentazione del sesso sono divenute un obbligo?
Intanto Sputacchiera ha un titolo ossimorico perché, mi si conceda la scortesia dello spoiler, questa è la vita sessuale di un uomo che non ha una vita sessuale se non a partire dalla fine del libro, dopo l’ultima parola dell’ultima riga dell’ultimo capitolo. Nel romanzo sesso e sessualità sono sempre potenziali, immaginati, completamente masturbatori. Rispetto all’obbligo o meno di scriverne, anche in questo caso penso che un autore non scelga il materiale. Ogni scrittore vagamente consapevole sa di poter scrivere solo di un numero limitato di questioni, mentre il resto lo deve lasciare agli altri presunti scrittori. Io mi muovo bene, credo, quando parlo di oscenità e le due maggiori oscenità contemporanee e direi di sempre sono il discorso sul sesso e il discorso sui soldi, che in Sputacchiera si intrecciano. Il vero luogo del tabù non sono le mutande ma il portafoglio.
La contemporaneità non contempla esclusivamente le opposizioni oralità/scrittura e poesia/prosa, ma anche la possibilità di scelta tra e-book/online e cartaceo, tra letteratura cartacea e digitale. Quanto lo sguardo di un autore è condizionato dal profumo della carta stampata o, viceversa, dalla comodità del digitale?
I libri dovrebbero contenere opere estetiche e il libro in carta e carta è un oggetto ben più estetico di tablet, kindle o quello che è. Dunque credo che per elezione reciproca il bello rimarrà con il bello e gli e-book non prenderanno mai il posto del cartaceo. A mio avviso il vero problema è un altro: quanto la lettura digitale, così frettolosa, supponente, frammentaria, influenza la lettura cartacea, che è invece lenta, lineare, monotematica? Detto in soldoni, la nostra dipendenza cognitiva dallo smartphone ci permetterà in futuro di leggere con lo stesso profitto, con lo stesso ardore conoscitivo che aveva il giovane Marx o anche solo il giovane Cacciari?
Francesco De Sanctis scrisse che la letteratura di una nazione costituisce una «sintesi organica dell’anima e del pensiero d’un popolo». Posto che la letteratura siauno specchio della rispettiva società in un tempo definito e che varia di opera in opera, quali potrebbero essere il ruolo e la funzione della scrittura nel frangente storico che stiamo vivendo?
Tempo fa seguivo un corso di Daniele Giglioli e lui appunto mostrava come il romanzo storico italiano nascesse dalla disperazione, dalla paralisi, dal trasformismo politico, dall’incomunicabilità tra le classi sociali. Il romanzo storico da Manzoni in avanti racconterebbe dell’impossibilità tutta italiana di cambiare le cose. Concordo ed estendo: il romanzo italiano testimonia anche dell’umiliazione dei suoi scrittori, quasi sempre esclusi, fraintesi, ridotti a straccioni, clown o straccioni clown. In questo senso, senza buttarla sul profetico, il romanzo soprattutto italiano indica la via verso il peggio, verso il peggio plausibile, perché a scrivere per davvero sono quasi sempre figure marginali, fuori dal discorso del potere, nelle cui vite i paradossi socioeconomici sono più estremi, più insanabili. La letteratura è l’unico luogo intellettuale che sfugge in parte a ogni predestinazione sociale, il giornalismo no, l’accademia no, il cinema manco a parlarne. La letteratura non ha centro, non ha padrone, non ha bisogno di niente se non di se stessa e di un abbonamento alla biblioteca, e di conseguenza può produrre l’inaudito, il paradosso, il vero e autentico politicamente scorretto, e qui mi riferisco a scrittori come Trevisan, Permunian, Busi, Moresco, Genna, Falco, non a 'stregati' o 'campiellati' vari.
Hegel sviluppa una definizione del romanzo: esso è la moderna epopea borghese. Lukacs afferma che questo genere, essendo il prodotto della borghesia, è destinato a decadere con la morte della borghesia stessa. Bachtin asserisce che il romanzo sia un «genere aperto», destinato non a morire bensì a trasformarsi. Oggi, si notano forme «ibride». Quali tendenze di sviluppo ravvede di un genere che continua a sfuggire a ogni codice?
Alla fine del mio percorso universitario avevo pensato bene di suicidarmi ogni speranza accademica consegnando una tesi sull’impossibilità di scrivere una tesi. Nel testo sostenevo che il romanzo era morto, perché il mondo era troppo complesso per poter essere esaurito, compendiato, catturato in un contromondo letterario. Banalmente facevo la solita musilata adolescenziale, dando retta a quelli come Magris. Qualche anno dopo non la penso più così, o meglio non la penso proprio. Come l’universo o la stupidità umana, il romanzo non ha fine. Basta pensare ai Detective selvaggi, un libro prodigioso, inatteso, in grado di spernacchiare da solo tutte le teorie predittive dei vari teorici per rassegnazione. Ci sono luoghi del mondo che si conquistano proprio ora un’alfabetizzazione creativa, il diritto ad avere un immaginario, e basterebbe questo a rilanciare la sfida del romanzo, qualunque essa sia, da qui ai prossimi due millenni buoni.
La scrittura contemporanea può annoverare letterate illuminate, vere pioniere quanto a innovazione e rispetto della tradizione. Qual è l’attuale status della letteratura esperìta da donne?
Per dirla con Nabokov, io come lettore purtroppo sono sempre stato rigorosamente omosessuale. Da adolescente leggevo solo maschi e questa brutta abitudine nel tempo si è fatta vizio, o qualcuno potrebbe dire destino. Non sono abbastanza competente per parlare bene di Tokarczuk quanto parlerei malissimo di un Murakami. Il conformismo politico mi spingerebbe a dire che non esistono più binarismi, che siamo tutti fluidi e contenti e non ha più senso 'genitalizzarsi' nemmeno quando si scrive, ma la mia impressione è che questa distinzione resti. Per quanto riguarda il passato il canone continua a essere maschile, perché la società era quella che era, recupereremo la Murasaki certo, ma almeno fino alla prima metà del Novecento i grandi scrittori sono quelli, Shakespeare, Dostoevskij, Proust eccetera, e tutto questo non è fallocentrismo ma fattualità estetica. Quanto al cosiddetto presente, alla letteratura italiana contemporanea quasi giovane, ho l’impressione che le donne (Maini per dirne una) siano molto più coraggiose e storiche e polifoniche degli uomini, che invece si rivelano sempre più onanistici in ogni senso, vale a dire ripiegati su se stessi, iperletterari, iperbibliografici, ma prima di farci sopra un canone de Noantri aspetterei ancora un po’, perché in letteratura il maschio è spesso un po’ ritardatario (penso agli esordi senili di Cavazzoni, Moresco, Siti, Permunian).
Lei è un conoscitore dell’opera di Mircea Cărtărescu. Quali sono i tratti definitori della sua scrittura e a quale scrittore lo vede più vicino?
Di Cărtărescu sono un conoscitore per così dire mondano. Se uno frequenta la scena letteraria italiana, anche solo virtuale, non può farsi vedere in giro senza aver letto Cărtărescu, è un oltraggio al buon gusto collettivo, ti ridono dietro e anche davanti. Bon ton letterari a parte, di Cărtărescu ammiro moltissimo la pagina. Penso sia uno dei massimi prosatori poetici europei. Mi ricorda la Woolf o Márquez e qualche volta ho il sospetto che sia anche più bravo. Le mie riserve riguardano il cosiddetto contenuto. Cărtărescu, soprattutto in Abbacinante, scommette sulla possibilità di una sintesi onnicomprensiva tra discipline, ma poi nei fatti si limita a compiere una sintesi solo lessicale, una sintesi suggestiva, anche se epistemologicamente un po’ furbesca. Essendo io uno che si è conquistato la lingua rubandola ai preti, cioè al fideismo, sono per una parola chiara, non abbacinante ma luminosa il giusto, e in questo senso Cărtărescu a volte mi sembra un grande falso profeta. Magari è un problema mio, che ho fatto lo scientifico e cerco sempre il due più due uguale quattro.
La letteratura romena si fregia di una robusta altresì varia produzione. Essa è costantemente tradotta in lingua italiana, con nomi di punta quali Ana Blandiana, Herta Müller, Norman Manea, Emil Cioran, Mircea Eliade, accanto al nostro Cărtărescu, e la rivista «Orizzonti culturali italo-romeni» ne registra le pubblicazioni nel database Scrittori romeni in italiano: 1900-2022. In che misura pensa sia conosciuta in Italia e quali scrittori romeni hanno attirato la sua attenzione?
Oltre a Cărtărescu, ho letto Cioran, o meglio me lo sono fatto raccontare da varie ragazze umanistiche 'adelphiane', che se ne servivano per decorare le loro depressioni. Trovo che alcuni titoli dei suoi libri siano involontariamente comici (L’inconveniente di essere nati), ma quella sua filosofia narrativa, per quanto appunto non sistematica, mi piace molto. Se dovessi fare comparatistica da bar, lo accosterei a uno Sgalambro, amico musicale di Battiato. Detto questo, restando ai romeni, il mio 'minchionismo' letterario mi spinge ad essere più ioneschiano che cioraniano. Come vede, anche un pantofolaio letterario come me, un 'haroldbloomiano' che legge sempre le solite cose, conosce vari autori romeni. Fossi in voi quindi non mi preoccuperei troppo.
A cura di Afrodita Cionchin e Giusy Capone
(n. 6, giugno 2022, anno XII)
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