«Interminati spazi. Leopardi e L’infinito». In dialogo con Alberto Folin

La nostra sezione Italianistica Orizzonti dedica questo mese un ampio spazio a Leopardi, a partire dal volume Interminati spazi. Leopardi e L’infinito a cura di Alberto Folin, Donzelli Editore, 2021. Vi proponiamo qui il nostro dialogo con Alberto Folin, già docente di Ermeneutica leopardiana e di Scritture e poetiche all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli. È membro del Comitato scientifico del Centro nazionale di studi leopardiani di Recanati, vicepresidente del Centro mondiale della poesia e della cultura Giacomo Leopardi e membro del Comitato nazionale per le celebrazioni del bicentenario della composizione dell’Infinito (1819-2019). Tra le sue pubblicazioni: Leopardi e la notte chiara (Marsilio, 1993); Pensare per affetti. Leopardi, la natura, l’immagine (Marsilio, 1996); Leopardi e l’imperfetto nulla (Marsilio, 2001); Leopardi e il canto dell’addio (Marsilio, 2008); Costellazioni del pensiero. Scritture e poetiche dell’Occidente (Moretti & Vitali, 2009); Sott’altra luce. Leopardi e il pensiero del ’900 (Anterem, 2009); Il celeste confine. Leopardi e il mito moderno dell’infinito (Marsilio, 2019). Per Bompiani ha curato e tradotto l’edizione completa del Libro delle interrogazioni di Edmond Jabès (2015).


«Da dove proviene il più inquietante dei nostri ospiti?», domandava Nietzsche. Quali sono le risposte suggerite da Giacomo Leopardi?

Lei si riferisce, ovviamente, alla famosa espressione con cui Nietzsche definiva un fenomeno, come quello del nichilismo, dilagante nella modernità e pervasivo della cultura occidentale. Molti sono gli studi, i saggi e le ricerche che si sono sviluppati su questo tema, a partire dalla seconda metà del Novecento, e culminate nei volumi che Emanuele Severino ha dedicato a Leopardi. Prima di rispondere a questa domanda, credo sia opportuno ricordare qual è il significato della parola «nichilismo», così come era pensato da Nietzsche. Sia in La gaia scienza sia in numerose altre opere (in primis nello Zarathustra), Nietzsche, a differenza di Turgenev, che – nel romanzo Padri e figli –aveva diffuso questo termine in Europa dalla metà dell’Ottocento, vede questa ‘figura’ come espressione della distruzione di tutti i valori. Non dunque dei valori antichi, in nome di valori nuovi, ma del valore in quanto tale. La distruzione dei valori che, per Nietzsche, nascono con Platone e con la sua affermazione della preesistenza delle idee alle cose, fonderà, secondo lui, una nuova vita riportando l’uomo alla Terra e trasformando la scienza del positivismo, arida, sterile e geometrica in una scienza felice, aperta alla vita e quindi, appunto gaia. Alla domanda «è possibile superare il nichilismo, per una fuoriuscita dalla metafisica?», Nietzsche risponde in modo positivo: sì, è possibile, portando fino in fondo la distruzione e pensando a un uomo diverso, l’Übermensch, che in Italia è stato tradotto con «superuomo» o «oltre-uomo». Questa premessa è necessaria per rispondere alla sua domanda. La risposta che, a mio avviso, avrebbe dato Leopardi sarebbe stata: «No, non è possibile uscire dal nichilismo. È però possibile conviverci». Per quanto la ragione abbia distrutto il mito (che era il modo originario di vedere la natura, all’inizio), esso continua a permanere negli anfratti del sapere scientifico, in momenti di oblio o di una ricordanza che si rivela in attimi estatici di oltre tempo, nei quali il «colpo d’occhio» coglie le più intime relazioni che fanno del mondo un’unità inscindibile. Tale visione ‘inattuale’ ha la sua dimora nel linguaggio poetico.


Leopardi si rivela non solo il più decisivo antesignano del nostro tempo, ma anche il primo inatteso genealogista del «nichilismo europeo». Ebbene, dove è possibile reperire i preludi di tale composito fenomeno, che rinviano altresì alla sapienza ‘negativa’ degli antichi?

Leopardi non usa mai l’espressione «genealogia», ma in tutto l’«infinito intrattenimento» (per usare un’espressione di Maurice Blanchot) costituito dalla sua immensa opera, sia in versi che in prosa, il senso profondo di questo termine, ancora una volta nietzschiano, è indubbiamente presente. Esso consiste in un gesto speculativo che va nella direzione di uno scavo nelle profondità della cosiddetta «cultura occidentale», mirante a cogliere il senso dell’orizzonte ontologico dell’uomo, a partire da una svolta fondamentale, aurorale, che ne determinerà il destino. La lettura che Leopardi fa dei greci è pervasa dal desiderio di cogliere l’origine dell’infelicità dell’uomo, dapprima collocata in una trasgressione delle leggi della natura (che per Leopardi si fonda sul non sapere la causa della cosa – sembra un gioco di parole, ma bisogna riflettere sul fatto che i termini causa e cosa hanno la stessa radice). In un secondo momento (almeno dal 1824 in poi) si fa strada in modo sempre più deciso la convinzione che il male e l’infelicità non sono il risultato di una colpa (come viene spiegato nella tradizione giudaico-cristiana), ma sono connaturate con l’essenza stessa, non solo dell’uomo, ma di tutto ciò che è: anche della materia e degli esseri non umani. I «preludi», come lei dice, di questo complesso itinerario speculativo, a mio avviso, si ritrovano già nell’Infinito (1819), anche se in modo non discorsivo e concettuale. Ricordiamo sempre che Leopardi, come è stato osservato prima di tutti da Cesare Galimberti (Linguaggio del vero in Leopardi, 1959), anticipa molto spesso nella lirica quello che poi teorizza discorsivamente in filosofia. Questo significa che in Leopardi agiva in maniera inconscia un pensiero subliminale che veniva alla luce solo attraverso il canto (e la voce), per trovare poi compimento e riposo nella riflessione concettuale.


Nel Saggio introduttivo lei scrive che L’infinito «offre al lettore moderno una straordinaria gamma di possibilità interpretative, non solo sul piano critico e filosofico, ma anche su quello delle scienze umane e di quelle cosiddette “esatte”». Ebbene, è possibile rintracciare un sentire comune, pur nella diversità?

Come si può vedere dagli interventi degli specialisti di diverse discipline qui riuniti per far sentire la loro voce su questa celeberrima lirica a partire dalle singole prospettive esegetiche, L’infinito si presta a scavi semantici estremamente diversi sia sotto il profilo metodologico che disciplinare. Lei mi chiede se esista un «sentire comune» che unisca queste diverse focalizzazioni. Credo che la risposta sia affermativa: sì, esiste un «sentire comune». Altra cosa, però, è ipotizzare che questo punto di incontro possa essere raggiunto una volta per tutte. La grande poesia è arrischiata su questo crinale che rappresenta il limite del pensabile. E tale limite è irraggiungibile, anche se il poeta cercherà sempre, disperatamente, di raggiungerlo. Sta qui la tragedia del pensare per immagini o, come mi sono espresso in un mio libro, del pensare per affetti.


Dalla ricostruzione della modernità spinta sino alle soglie della contemporaneità affiora l’immagine di un Leopardi smarrito e indocile. Cede forse il passo alla disperazione?

Si può dire che Leopardi sia «smarrito» solo perché non si accontenta mai di alcun approdo. È «smarrito» in quanto è errante, come il pastore nel suo canto. Ce lo possiamo immaginare sempre sul bordo di una fontana nella quale, come lui stesso racconta, desidererebbe immergersi e naufragare. Eppure, come è stato detto in modo magistrale da Francesco De Sanctis, anche quando Leopardi dichiara nel modo più intransigente la negatività del tutto e il trionfo del male e del dolore nel mondo e nei mondi, egli fa desiderare come pochi altri la vita, avvertendone la bellezza e la delicatezza del passare. La vita è splendida proprio perché è passante. Come Giacomo dice a Nerina, ne Le ricordanze: «Passasti…Ma rapida passasti e come un sogno fu la tua vita.». La bellezza della vita vissuta come sogno è tanto più grande quanto è rapido il passare. Il vero annientamento è rappresentato dall’uomo moderno che, attraverso la tecnica, e il progresso, pensa di aver vinto la morte, senza comprendere che la bellezza della ginestra, il suo profumo, sta proprio in quel suo chinare il capo non renitente di fronte alla potenza bruta del vulcano. Qui, in questa somma fragilità, a mio avviso si colloca, per Leopardi, il senso profondo del sacro.


Professore, i suoi studi chiariscono che uno dei temi della meditazione leopardiana si concentri sull’«unità indisgiungibile di corpo e anima, di sensazione e sentimento, di idea e percezione». Leopardi può aver anticipato gli sviluppi delle neuroscienze?

Mi sembra eccessivo vedere in Leopardi un anticipatore delle neuroscienze. Tuttavia, esiste un tratto che accomuna Leopardi alla psicologia e alla psichiatria moderne. Si tratta dell’idea, conquistata non senza traumi e difficoltà, che l’anima (psyké) non esiste come entità separata dal corpo (soma). Essa è imbricata al corpo e, come tale, illumina non solo il corpo umano, ma tutti i corpi, anche quelli non dotati di vita (si pensi alla riflessione di Leopardi sulla «materia pensante») rendendoli in qualche modo, come dicevo, espressioni di una singolare sacralità.






A cura di Giusy Capone e Afrodita Cionchin
(n. 2, febbraio 2022, anno XII)