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«Gli invitati di Smaranda Bratu Elian»: al via nuova rubrica. Inizia lo storico Adriano Prosperi
Uno dei più importanti storici italiani dei nostri giorni, Adriano Prosperi, membro dell’Accademia dei Lincei, è stato professore di storia in prestigiose università italiane e nella celebre Scuola Normale Superiore di Pisa. I suoi interessi scientifici sono legati soprattutto alla storia dell’Inquisizione, della Riforma e della Controriforma, e, in genere, alla storia delle culture e delle mentalità tra Medioevo ed età moderna. È autore e curatore di un numero impressionante di studi, molti insigniti di premi scientifici e letterari e tradotti all’estero, e di opere monumentali come la Storia del mondo moderno e contemporaneo (con Paolo Viola, 6 voll., Torino, Einaudi 2004) o il fondamentale Dizionario storico dell'Inquisizione (con Vincenzo Lavenia e John Alfred Tedeschi, 4 voll., Pisa, Edizioni della Scuola Normale Superiore, 2010). La sua opera più nota, Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari (Torino, Einaudi 1996/2009) ha destato una stimolante controversia sul peso dell'Inquisizione e sui rapporti fra Chiesa e società nella storia italiana, confermando la vitalità della storiografia e la sua importanza per la comprensione della società di oggi.
Attento al fenomeno culturale contemporaneo, Adriano Prosperi ha collaborato a lungo alle pagine culturali del «Corriere della Sera» e de «Il Sole 24 Ore», per poi impegnarsi nel dibattito intorno ai problemi di attualità sul quotidiano «La Repubblica», nelle trasmissioni televisive e in altre sedi pubbliche, estendendo il suo campo di intervento a temi di rilevanza politica e sociale.
Di recente l’insigne storico ha gentilmente accettato di collaborare alla collana bilingue «Biblioteca italiana» della casa editrice romena Humanitas scrivendo la prefazione al volume La Ragion di Stato di Giovanni Botero.
Professor Prosperi, i suoi interventi nei dibattiti pubblici su temi di attualità ricorrono non di rado ad argomenti o spiegazioni di ordine storico. Lei fa parte di coloro che considerano la storia maestra del presente? La domanda potrebbe sembrare retorica, se non avessi sentito storici che sostenevano il contrario.
La storia insegna forse qualcosa a chi cerca di imparare dagli errori del passato; ma è anche un inesauribile repertorio di nefandezze a disposizione di chi voglia ripeterle. «Chi non conosce il passato, corre il rischio di ripeterlo»: la celebre citazione di Georges Santayana ha assunto ai nostri tempi un significato cupo e minaccioso che non aveva all’origine: la ripetiamo pensando agli orrori del nazismo e dello stalinismo, con la paura di vedere ripetersi Auschwitz, la Shoah o qualche altra incarnazione della disumanità dei regimi totalitari del nostro tempo. Ma la conoscenza di Auschwitz non ha impedito altre forme di genocidio: sappiamo che c’è stato, dunque può esserci di nuovo: questa è l’unica lezione che ne possiamo ricavare, secondo un testimone come Carlo Levi. E quegli stessi regimi che crearono il lager e la kolyma erano nati in culture nutrite di storia e si erano legittimati con la scienza storica delle università tedesche e italiane o con una presunta conoscenza di leggi scientifiche ricavate dalla storia. Si obietterà che quella era ideologia, non conoscenza storica. Resta il fatto che, se la conoscenza storica fosse capace di migliorare il mondo e i comportamenti umani, noi dovremmo vivere oggi in un mondo molto diverso da quello che conosciamo.
Io credo che il fascino della storia risieda non tanto nelle sue ipotetiche capacità di insegnarci a risolvere i problemi del presente quanto nell’irresistibile desiderio di conoscenza che caratterizza la specie umana. Nessun’altra forma di sapere, salvo forse la cosmologia, l’esplorazione del cielo stellato, offre un campo così vasto e ricco di ricerca. Non solo: a differenza di altre forme di sapere, la storia ci permette di aggirarci nel paesaggio perduto che sta alle nostre spalle, di leggere parole e conoscere pensieri e azioni di un’umanità scomparsa. Possiamo cercare nell’infinita varietà dei mondi umani del passato quelli che ci piacerebbe conoscere, ridare con lo studio il sangue e il respiro alle ombre che si aggirano nell’immensità delle epoche trascorse. Niccolò Machiavelli ha lasciato una testimonianza indimenticabile degli effetti dello studio della storia: ha scritto che quando, al termine di giornate faticose e amare, si raccoglieva nel suo studio e rifletteva sulla storia e sulla politica, entrava in un mondo altro e diverso, che lo assorbiva completamente: «Non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte». Non conosco pagina più straordinaria. E l’incontro nel mondo delle ombre dell’uomo Machiavelli è un esempio del fascino incancellabile della ricerca storica.
Poi certo, a favore della conoscenza storica ci sono tanti altri argomenti. C’è il fatto che il nostro presente è esso stesso storia. Le nostre vite sono un percorso nel tempo. Camminiamo come su di un ponte sospeso tra passato e futuro. Nell'incamminarci verso il futuro siamo sorretti dalla speranza del mutamento in meglio della nostra condizione e resi inquieti dal timore dell'ignoto. Rechiamo con noi il bagaglio del passato che non è solo un peso: è la sostanza di cui siamo fatti noi e le nostre società, è tutto ciò che sappiamo e su cui possiamo fondare le nostre scelte. A differenza di altre specie animali, l'esperienza del passato non diventa per noi istinto, ma si trasmette solo attraverso la conoscenza. A questa realtà oggi l'ideologia che maschera le catene del capitalismo finanziario dominante ha sostituito un'idea della vita come un eterno presente, senza memoria e senza prospettiva, sospeso tra l'abisso della crisi e l'illusione di un illimitato e insensato sviluppo. Bisogna reagire e restaurare di continuo la coscienza della profondità del tempo e delle stratificazioni che sorreggono il sottile strato del presente e ne disegnano il profilo. Anche perché nella coscienza del cambiamento storico è insita la speranza del futuro: il presente, per quanto intollerabile, è pur sempre un passaggio verso il futuro e si può sempre ripetere la frase «Domani è un altro giorno».
Ma poiché Lei mi chiede come mai io collego spesso eventi del presente a cose del passato, ebbene la risposta è semplice: io come chiunque altro ho dovuto cercare di capire in che mondo ero nato. E non ho trovato altro metodo che questo. Quello che ho conosciuto nascendo era il mondo dell’Italia fascista e della seconda guerra mondiale. Walter Benjamin, che moriva suicida mentre io nascevo, aveva scritto che al passato ci si volta nel momento del pericolo, mentre un vento di tempesta spinge verso l’ignoto e lo sguardo si volta indietro.
Lei è un grande specialista dell’Inquisizione. Perché questo interesse per uno dei fenomeni politico-religiosi del passato più bui e controversi?
Io ho avuto, come tutti gli italiani o quasi, una educazione religiosa cattolica e sono vissuto nei miei anni infantili in un’Italia distrutta dalla guerra dove l’unica istituzione esistente era la parrocchia e l’ingiustizia sociale che pesava sulle classi subalterne (da cui provenivo) trovava nella fede cristiana la consolazione nella speranza di una giustizia divina nella vita dell’aldilà. Crescendo, ho abbandonato il cattolicesimo ma ho conservato un interesse particolare per le fedi religiose e per la storia della religione nella società italiana. Qui si confrontavano due tradizioni, quella apologetica della Chiesa che combatteva la civiltà moderna e invitava i poveri alla pazienza e quella laica e anticlericale ereditata dall’ideologia di sinistra che vedeva della Chiesa solo lo spettro dell’Inquisizione. Nessuna delle due immagini coincideva con quella che avevo sperimentato. Così ho cercato di capire rivolgendomi alla storia del passato e in particolare alla storia delle origini moderne del cattolicesimo dalla frattura religiosa del ’500. E l’Inquisizione era l’istituzione che proprio allora aveva conosciuto la sua ristrutturazione per controllare in che cosa credessero gli italiani e punire i dissenzienti. Ma con lo studio ho scoperto che l’Inquisizione di cui si parla ancora tanto e tanto si continuerà a parlare è piuttosto un mito che un oggetto storico. È il mito di un potere crudele e arbitrario, assetato di sangue e di sofferenze delle vittime, adatto a profetizzare e a incarnare la realtà dei regimi totalitari del XX secolo. La realtà storica è un’altra cosa: nell’Italia del secolo XVI il tribunale dell’Inquisizione si legò strettamente con l’altro tribunale, quello sacramentale della confessione: ne risultò un’opera complessa, fatta di seduzione e di persecuzione, di polizia ma anche di conquista delle coscienze.
In un mio libro (Tribunali della coscienza, 1996) ho tentato di analizzare un periodo della storia italiana – quello che va dal XVI al XVII secolo, che alcuni chiamano della Controriforma, per sottolineare la volontà di autodifesa e di reazione del papato alla Riforma protestante, e altri hanno definito col termine di «rinnovamento cattolico» pensando alle riforme introdotte dal Concilio di Trento – per cercare di capire com’è accaduto che la Chiesa cattolica, nella sua forma di potere supremo del papato, ha vinto contro la rivoluzione protestante e, soprattutto, ha «convinto» gli italiani. Cito questo esempio per dire che non sono uno «specialista» dell’Inquisizione: se debbo indicare un nucleo speciale di interessi all'interno delle mie ricerche e letture di storia, debbo dire che mi riconosco una passione speciale per la storia delle forme in cui si è incarnata la ricerca e la pratica della giustizia.
È vero che l’organizzazione giudiziaria dell’Inquisizione ha raffinato e spinto in avanti i concetti della giurisprudenza e le pratiche giudiziarie, così da servire poi a un più evoluto diritto laico.
È bene ricordare che all’origine dell’Inquisizione come tribunale ecclesiastico per i delitti di eresia, magia e stregoneria, ci fu l’affermazione del modello del processo inquisitorio: un tipo di processo creato per garantire la ricerca («inquisitio») della verità come premessa necessaria per giudicare e condannare. Alle origini e alle radici di questo sistema troviamo il più imponente sforzo della tradizione cristiana occidentale di sostituire l'uso della ragione e la mediazione dell'uomo di legge alla soggezione passiva a codici magici e religiosi. Che poi il processo inquisitoriale, col ricorso alla tortura e la volontà di conoscere e punire intenzioni e pensieri, si sia rivelato lo strumento per consolidare e proteggere il potere di caste sacerdotali e di regimi politici fa parte delle contraddizioni della storia. Nel mio ultimo libro (Delitto e perdono. La pena di morte nell'orizzonte mentale dell'Occidente cristiano, secoli XIV-XVIII, 2013) credo di avere mostrato su quali basi e in quali forme si sia affermata nelle società cristiane occidentali una lunghissima pratica dell'esecuzione capitale come rito collettivo posto a fondamento della legittimazione del potere ma anche della ricomposizione della frattura sociale provocata dal delitto.
Bisogna osservare anche che nella sua versione di età moderna, quella del Sant’Uffizio romano nato nel 1542, l’attività locale dei frati inquisitori – francescani e domenicani – venne assoggettata al controllo della Congregazione del Santo Uffizio della Inquisizione formata da cardinali e assistita da giuristi e teologi che avocò a sé i casi più importanti e si fece mandare informazioni su tutte le cause trattate localmente, inclusi i verbali dei processi. Questo limitò molto l’arbitrio dei frati e tenne a freno il loro fanatismo. Fu così che all’inizio del ’600 una istruzione della Congregazione romana tolse valore di prova a molti indizi che fino ad allora erano stati considerati decisivi contro le donne accusate di stregoneria. È un esempio di come il processo inquisitorio – grazie alla cultura giuridica del personale, alla registrazione scritta delle testimonianze, al riconoscimento del diritto alla difesa da parte degli imputati – poté per certi aspetti anticipare qualche carattere di quella che Lei definisce un più evoluto diritto laico.
Pur tuttavia l’Inquisizione ha segnato un’epoca di fanatismo e di angosciosa dissimulazione. Che insegnamenti o che rivelazioni porterebbero a noi oggi il fanatismo istituzionalizzato dell’Inquisizione e la sua connivenza con il potere laico? E quando dico noi, mi riferisco sia ai popoli che hanno avuto a che fare con l’Inquisizione sia agli altri, tra cui anche quello romeno.
I nostri tempi hanno conosciuto una regressione nell’amministrazione della giustizia e nel rispetto dei diritti umani che sembrava inimmaginabile dopo la fine della seconda guerra mondiale. Allora la «Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo» (San Francisco 1948) sembrò inaugurare un’epoca nuova, con le grandi democrazie occidentali impegnate a garantire la difesa dei fondamentali diritti di ogni essere umano. Nella prima metà del secolo le società di massa del mondo contemporaneo avevano visto affermarsi poteri totalitari capaci di fanatizzare le popolazioni e di piegare al loro servizio anche le chiese. E oggi vediamo in atto nelle società del mondo musulmano l'uso della religione come strumento di rinnovate e inedite forme di fanatismo. In ambedue i casi gli orrori e i costi umani sono stati incomparabilmente più gravi di quelli provocati dal tribunale ecclesiastico dell'Inquisizione. Se dobbiamo cercare un insegnamento, dobbiamo cercarlo nella laicità come separazione dei poteri tra lo Stato e la Chiesa e nel rafforzamento della conoscenza e della tutela dei diritti fondamentali degli esseri umani.
Per lo meno dal XIX secolo in poi, da quando la filosofia e le ideologie hanno preso la piega dello storicismo, la storia è stata usata, o, come si dice, manipolata, per scopi politici. Tutto sommato, tale uso non potrebbe essere considerato piuttosto benefico per la memoria storica, dato che tiene alto l’interesse del pubblico per il passato?
L'uso politico dei paradigmi storici è una pratica abituale nella nostra cultura così come era abituale in quella dell’età umanistica l’uso pedagogico delle vite dei grandi dell’antichità. Questo per dire che l’interesse per il passato è un dato fondamentale della nostra natura dal momento che nascendo si comincia a diventare consapevoli della nostra identità attraverso il racconto di chi ci ha preceduto. E oggi l’uso della storia nella discussione pubblica conosce un posto sempre maggiore da parte di giornalisti, pubblicisti, uomini politici, con l’effetto di sconcertare e irritare i titolari della scienza accademica della storia sempre più emarginati. Altra cosa è l’abuso della storia: la si ha quando si affermano come verità storiche delle falsificazioni o deformazioni evidenti dei dati conosciuti in funzione di legittimazione di convinzioni ideologiche o di scelte politiche: tale è il caso del cosiddetto «negazionismo» – la negazione o minimizzazione della Shoah – da parte di seguaci di ideologie nazifasciste. C’è un punto in cui l’uso della storia da parte dello studioso o del politico si incontrano e questo è quando ci si richiama al passato per comprendere il presente. Lo definirei come il punto del «come». Quando si parla di democrazia e di dittatura, quando si ragiona di forme del totalitarismo o si giudicano gli eventi del presente è abituale e spontaneo usare il «come» e richiamarsi per analogia o per differenza a precedenti storici. Come ci ha ricordato uno studio di Luciano Canfora, il ricorso all’analogia è fondamentale nel modo di pensare la storia: l’analogia crea un ponte tra ciò che ci è noto e ciò che ci è meno noto o pochissimo noto. Come studiosi ma anche in generale come cittadini e perfino come politici ci rivolgiamo agli eventi passati che non conosciamo proiettando su di loro il contenuto della nostra esperienza del presente e ricercando analogie e differenze. Del resto, come ha scritto Johann Droysen, «anche il contenuto del nostro Io è un contenuto mediato, divenuto un risultato storico».
Quali argomenti storici sono più usati ora in Italia per appoggiare le diverse ideologie o scelte politiche e che uso se ne fa?
L’orizzonte degli interessi storici si è molto concentrato e ristretto col trionfo della storia contemporanea, che oggi è di gran lunga la più frequentata nelle Università e quella a cui si riferiscono i dibattiti culturali e le battaglie politiche: il fascismo, il movimento socialista e quello comunista, la storia dei partiti politici, la Shoah, il terrorismo e anche e soprattutto l’evoluzione della Chiesa cattolica. Ma adesso stiamo vivendo una fase di revisione della Costituzione e questo ha scatenato una diffusa polemica tra chi vuole creare un maggior concentramento di potere nelle mani del governo e chi difende l’ordinamento costituzionale del 1948 che reagendo alla dittatura fascista aveva moltiplicato le istituzioni intermedie di controllo e di garanzia democratica. E un altro terreno dove storia e diritto si intrecciano è quello delle questioni etiche e del rapporto tra culture diverse: l’aborto, l’eutanasia, cioè il diritto di nascere e quello di morire, il diritto di presenza delle religioni nello spazio pubblico, l’educazione morale e religiosa nella scuola pubblica, pongono di continuo davanti alla revisione della nozione tradizionale del rapporto tra società italiana e chiesa cattolica così come fu fissata nel Concordato del 1929 poi accolto nella Costituzione repubblicana. E questo riporta d’attualità anche la riflessione sull’età del grande conflitto europeo della Riforma e sulle differenze religiose e civili che caratterizzarono allora la società europea. Naturalmente l’integrazione in corso nella Comunità Europea riporta poi davanti alla nostra esperienza le differenze di mentalità e di leggi tra i diversi stati europei che derivarono dagli sviluppi della Riforma e della Controriforma, così come l’immigrazione di forti minoranze islamiche costringe a rivedere molti aspetti della nostra tradizione e della nostra cultura.
In Romania, secondo quanto a me pare, il più delle volte la storia è invocata o per destare certe emozioni rispetto a eventi odierni (riguardanti, per esempio la politica territoriale o il pericolo esterno) o per indurre una specie di rassegnazione, del tipo «è successo sempre così». Secondo Lei, per il grande pubblico gli argomenti storici possono andare al di là dell’effetto emozionale?
Io penso che al di là della tendenza istintiva a una superficiale generalizzazione o a qualche momentanea reviviscenza emotiva di ricordi di grandi personalità e di eventi tragici, ci sia una fame di storia, ma di storia vera, non di quella «accademica» né di quella che è solo ideologia in formulette delle organizzazioni politiche e di potere, Stato e Chiesa compresi naturalmente. La mia esperienza mi dice che nelle scuole così come negli incontri pubblici si riesce sempre ad appassionare studenti e gente del popolo: basta ricordarsi che le persone del passato di cui raccontiamo le vicende furono persone vive e che quel passato per noi concluso fu per loro un presente incerto e la vita una scommessa aperta.
Siamo in molti, e non solo in Romania, a constatare che, forse anche a causa del cambiamento mentale che sta producendo la civiltà digitale, c’è una tendenza, specie nei giovani, a non percepire più lo spessore del tempo storico. Per esempio, parecchi miei studenti non davano importanza se sbagliavano una datazione storica di mille anni o se un fatto storico fosse avvenuto tanti secoli prima o dopo Cristo. Crede che questo sia solo un fatto di cattiva istruzione oppure stiamo perdendo veramente il senso della storia?
Quello che Lei mi dice della tendenza dei giovani in Romania coincide con la mia esperienza italiana e non solo. Nel nostro tempo si è affermata un’idea della vita come fatta solo di presente, senza passato e senza futuro: nel movimento del ’68 ebbe grande fortuna la lettura dello scritto di Herbert Marcuse su L’uomo a una dimensione. Oggi l’avanzata inarrestabile di un neocapitalismo finanziario che sta espropriando le masse umane di ogni diritto è accompagnata da una colonizzazione delle coscienze con l’uso dei mezzi potentissimi della civiltà digitale. Il risultato è quello di costruire personalità fragili, cancellare progetti di vita duraturi, abolire i diritti al lavoro e alla dignità personale sacrificando tutto a una superiore necessità, quella della garanzia della redditività dell’investimento finanziario. Lo scenario che abbiamo davanti è quello di un mondo dove le differenze sociali sono diventate barriere altissime: i consumi delle classi dominanti hanno raggiunto livelli inimmaginabili. E intanto assistiamo alle migrazioni di masse umane spogliate di tutto: non dimenticherò mai l’immagine fotografica di migranti dall’Africa naufraghi nel Mediterraneo che si tenevano a galla attaccati a un relitto: non più esseri umani, ma corpi destinati a diventare cibo per i pesci. È una fotografia vecchia di decenni. Oggi le stragi dei profughi non si contano più e noi ci siamo abituati senza accorgercene alla «naturalità» della violenza dell’uomo sull’uomo.
Diamo ora uno sguardo alla collana bilingue «Biblioteca italiana» della Humanitas: dato che il suo orizzonte sono i testi classici italiani in senso lato, parlando di storiografia che criteri dovrebbero ispirarci la scelta?
Credo che si potrebbe procedere mirando a due obiettivi: da un lato rendere accessibili ai lettori romeni i grandi classici del canone della storiografia italiana, come mi sembra che Lei stia già facendo: Machiavelli, Guicciardini, Paolo Giovio, Paolo Sarpi, portando avanti il percorso fino a Francesco De Sanctis, Benedetto Croce, Paolo Gobetti, Antonio Gramsci. Dall’altro proporre una selezione delle opere più significative dei maggiori storici dell’ultimo secolo, come Arnaldo Momigliano, Federico Chabod, Delio Cantimori, Franco Venturi, Marino Berengo, Carlo Ginzburg.
Grazie per la sua disponibilità e per questi suggerimenti.
Intervista realizzata da Smaranda Bratu Elian
(n. 11, novembre 2014, anno IV)
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