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Con Adriana Beverini su Montale tra filosofia, scienza e spiritualità
Ospite questo mese dei nostri Incontri critici è Adriana Beverini, giornalista pubblicista, che opera in campo culturale da più di trentacinque anni. Ha all’attivo varie pubblicazioni. È socia fondatrice, nel 1997, e più volte Presidente del rinato Premio di Poesia internazionale LericiPea – Golfo dei Poeti. È stata responsabile, dal 1996 al 2006, del Parco Letterario Eugenio Montale di Monterosso. Nel 1997 crea il Premio Montale Fuori di Casa, di cui è Presidente fin dalla fondazione, che si svolge ogni anno nelle tre città legate alla memoria di Montale: Genova, Firenze, Milano e in altre sempre legate alla memoria del Premio Nobel ligure. Su Eugenio Montale e sul Premio da lei presieduto ha scritto alcuni saggi, tra i quali Montale Apuano (Giovane Holden Edizioni, 2018), con testi dei professori Antonio Zollino e Giuseppe Benelli, e Verdi e Montale: musica e parole (Centro Studi Ligure, 2001).
Alla figura e all’opera di Montale è dedicato anche il suo nuovo saggio dal titolo L’Oltre: Eugenio Montale tra filosofia, fisica e religione, da cui prende spunto il nostro dialogo.
Nel suo saggio, l’«oltre» di Montale appare come uno spazio liminale tra il conoscibile e l’inconoscibile. Crede che questa tensione sia più vicina al Kant della «cosa in sé» – irraggiungibile eppure presupposta – o al Wittgenstein del «su ciò di cui non si può parlare si deve tacere», dove l’oltre è la soglia dell’indicibile?
La tensione montaliana sembra oscillare tra entrambe le visioni. Da un lato, l'«oltre» possiede la stessa inattingibilità della «cosa in sé» kantiana, una realtà che sfugge alla comprensione empirica, ma di cui si avverte la presenza. Dall’altro, il silenzio che circonda questo «oltre» riecheggia Wittgenstein e il suo invito a tacere di fronte all’ineffabile, facendo dell’assenza stessa una forma di testimonianza.
La poesia di Montale e la fisica contemporanea: si potrebbe dire che la sua idea di «frammento di verità» echeggi la meccanica quantistica – dove la realtà è probabilistica e parziale – anziché la fisica classica deterministica? In tal senso, Montale anticipa una visione postmoderna della verità?
Sì, Montale sembra anticipare una concezione postmoderna della verità, frammentaria e sfuggente. La sua idea di «scorcio di verità» si allinea più alla fisica quantistica, dove la realtà è una rete di possibilità, mai completamente determinabile. La verità, per Montale, non si possiede interamente: la si intravede, la si sfiora, in un movimento continuo tra svelamento e perdita.
La nozione di «oltre» montaliana sfugge al puro nichilismo, pur lambendolo. Potremmo leggere Montale come un poeta che risponde al nichilismo – sulla scia di Nietzsche – non con una rassegnazione passiva, ma con una forma di «nichilismo attivo», che scava nell’assenza per cercare nuove forme di senso?
Montale sembra incarnare proprio questo «nichilismo attivo» nietzschiano: la consapevolezza della mancanza di senso definitivo non si traduce in resa, ma in una ricerca ostinata di frammenti di verità. È una lotta contro il nulla, dove il poeta accetta l’assenza ma non smette di cercare un significato che, pur sfuggente, rimane necessario.
La sua analisi mostra come Montale non aderisca né a una fede dogmatica né a un ateismo radicale. Si potrebbe paragonare il suo «oltre» a una forma di «fede negativa», simile a quella proposta da Simone Weil, dove l’assenza di Dio diventa paradossalmente il luogo in cui si può percepire la sua mancanza come presenza?
Il parallelo con Simone Weil è suggestivo. L’«oltre» di Montale si presenta come una presenza nell’assenza, una fede che non si nutre di certezze ma di vuoti percepiti. È una spiritualità priva di dogmi, che trova nell’assenza stessa – nel non raggiunto – la traccia di qualcosa di più grande.
Montale sembra oscillare tra la parola che tenta di catturare l’oltre e il silenzio che ne testimonia l’irraggiungibilità. Pensa che il suo approccio possa essere accostato alla filosofia negativa di Plotino o alla «teologia apofatica» di Pseudo-Dionigi l’Areopagita, in cui il divino può essere definito solo per negazione?
Il richiamo alla teologia apofatica è appropriato: Montale sembra avvicinarsi a quella tradizione che definisce il divino attraverso ciò che non è. La sua poesia non afferma dogmaticamente, ma suggerisce per sottrazione, lasciando spazio all’«oltre» come una possibilità che si intuisce proprio attraverso il fallimento della parola.
In opere come La bufera e altro, il tempo appare come una dimensione fluida e sfuggente, che svela e vela simultaneamente l’oltre. Crede che la concezione montaleana del tempo abbia punti di contatto con la «durata» bergsoniana, dove il tempo interiore sfida la sequenza cronologica e si apre a una dimensione più profonda?
Il tempo di Montale si allinea alla durata bergsoniana: non è una sequenza lineare di attimi, ma un’esperienza interiore, densa e stratificata. La realtà montaleana si percepisce nel sovrapporsi di passato e presente, dove l’«oltre» emerge in lampi di consapevolezza improvvisa e irripetibile.
Montale descrive spesso una speranza vaga, indefinita, che si proietta oltre l’immediato. Potremmo dire che questa speranza somiglia alla «messianicità senza messianesimo» di Derrida, dove il futuro resta aperto e mai compiuto, o è piuttosto una versione laica del concetto agostiniano di «inquietum cor nostrum», mai pacificato?
La speranza di Montale pare intrecciare entrambi i modelli: da un lato c’è l’apertura infinita e irrisolta di Derrida, una tensione verso un futuro che non arriva mai; dall’altro si avverte l’eco dell’«inquietum cor» agostiniano, una sete che non trova mai piena quiete. È una speranza inquieta, sempre in bilico tra attesa e disillusione.
Montale sembra riflettere una visione del cosmo dominata dalla contingenza e dall’imperscrutabile. Vede in questa prospettiva un’eco della teoria del caos e della complessità, dove minuscole variazioni generano effetti imprevedibili, oppure c’è una più sottile adesione a una concezione pirandelliana della vita, come gioco di illusioni e maschere?
Entrambe le interpretazioni si intrecciano: da un lato, l’universo montaleano risuona con la teoria del caos, dove ogni evento sembra nascere da forze imperscrutabili e imprevedibili; dall’altro, la sua visione del mondo è anche pirandelliana, una danza di illusioni dove la verità è sempre parziale e sfuggente.
Il poeta pare spesso intrappolato tra la concretezza della materia e la tensione verso lo spirito. La sua lettura porta a intravedere una possibile affinità con il monismo di Spinoza, dove Dio e Natura coincidono, o con la frattura cartesiana tra res cogitans e res extensa?
La tensione di Montale sembra più vicina al monismo spinoziano: il mondo fisico e quello spirituale non sono opposti, ma due facce della stessa realtà. Tuttavia, la sua inquietudine lascia intravedere anche l’eco della frattura cartesiana, mai del tutto pacificata.
A cura di Afrodita Cionchin e Giusy Capone
(n. 4, aprile 2025, anno XV) |
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