Una scrittrice di origini romene finalista nella sezione racconto del Premio Calvino 2023

Salone del Libro di Torino, la sera di venerdì 19 maggio, sala Indaco del padiglione Oval – in una stanza gremita di pubblico si è svolta la premiazione del concorso per narrativa breve, in presenza dei dieci autori esordienti arrivati finalisti nel Call racconti di quest’anno. Fra i dieci finalisti c’era anche Oana Rodica Alexandrescu, una scrittrice di origini romene che è nuova al mondo dell’editoria, ma che sicuramente farà molta strada. Noi l’abbiamo intervistata per voi.
Il premio letterario per scrittori esordienti Italo Calvino è stato fondato a Torino nel 1985, poco dopo la morte dello scrittore, per iniziativa di un gruppo di estimatori e di amici di Calvino tra cui Norberto Bobbio, Natalia Ginzburg, Lalla Romano, Cesare Segre, Massimo Mila e molti altri. Calvino, com’è noto, svolgeva lavoro editoriale per l’Einaudi; l’intenzione è stata quella di riprenderne e raccoglierne il ruolo di talent-scout per scoprire nuovi autori (ne è testimonianza il volume I libri degli altri, Einaudi, 1991). Da qui l’idea di rivolgersi agli scrittori esordienti e inediti, per i quali non è facile trovare il contatto con il pubblico e con le case editrici. Il Premio si propone, in breve, come una sonda gettata nel sommerso della scrittura e come interfaccia tra questo universo e il mondo dell’editoria, del pubblico e della critica. L’Associazione per il Premio Italo Calvino, costituitasi nel 1991, non ha scopo di lucro. Il premio si avvale del supporto della rivista «L’indice dei libri del mese» che pubblica i bandi, i testi dei finalisti e le recensioni degli autori pubblicati.


Oana Rodica Alexandrescu è nata a Bucarest nel 1979. Arrivata in Italia nella provincia di Reggio Emilia nel 1991, dove ha vissuto, studiato e lavorato fino al 2021, quando si è trasferita a Parigi. Dal 2004 al 2021 è stata docente del Ministero dell’Istruzione nella scuola primaria, sua grande vocazione. Ha frequentato corsi di illustrazione (Reggio Comics dal 2012 al 2014, Sarmede e Ars in Fabula di Macerata nel 2017) – incontrando illustratori quali Anna Castagnoli, Guido Scarabottolo, Joanna Concejo – e alcuni workshop di stampa (xilografia, serigrafia e acquaforte) tenuti da Gianluca Busato presso il Print Club Torino.
Nel 2017 ha seguito il corso «Scrivere per ragazzi» della casa editrice BUR di Roma condotto dalle scrittrici Nadia Terranova (finalista Premio Strega 2019, Campiello Junior 2023) e Carola Susani (Premio Bagutta 1996, finalista Premio Strega 2007).
L’anno successivo a Milano ha seguito il Corso Fondamentale condotto da Giulio Mozzi (finalista Premio Strega 1996 e 2021, Premio Mondello 2021) nella scuola di scrittura Bottega di Narrazione. Nel 2019 è stata invitata da Giulio a partecipare al corso annuale della Bottega, corso in cui è iniziata la stesura di una trilogia (attualmente in fase di conclusione).
Del suo lavoro di maestra ha scritto sul blog della casa editrice Topipittori di Milano (alcuni dei loro titoli più celebri sono stati acquisiti e tradotti anche da case editrici romene quali Editura Frontiera e Baroque Books&Arts).
Nel gennaio 2023 si è classificata al secondo posto del Premio Zeno, sezione poesia con T di tată. Nel maggio 2023 è stata selezionata come finalista al concorso di scrittura Premio Calvino Call racconti 2023.
L’abbiamo incontrata al Salone del Libro di Torino e l’abbiamo intervistata in esclusiva per i nostri lettori.

Sei arrivata alla finale del Premio Calvino per la sezione racconto. Ci potresti dire la tematica del concorso? E che emozioni ti ha suscitato?

Il tema del Call 2023-Premio Calvino dedicato ai racconti, arrivato alla quinta edizione, è intitolato Visioni divergenti e corpi indisciplinati – sulla via del fantastico e ha incluso un vasto pubblico nella partecipazione (ben 817 concorrenti). Un tema ampio, quello proposto, perché alla parola «fantastico» si può arrivare attraverso generi differenti e lo si evince in modo chiaro leggendo i racconti scelti come finalisti e pubblicati sul sito dell’Indice: alla prima selezione sono stati scelti 35 incipit, alla seconda 10 racconti completi; infine, i vincitori proclamati sono stati tre, uno votato dal pubblico e due ex aequo decisi dalla giuria.
Ho voluto partecipare al Call volendo raccogliere la sfida di scrittura proposta dal comitato stesso, per trovare i miei limiti e cimentarmi con una tipologia narrativa (il racconto) non appartenente del tutto alle mie corde.
Tra i concorrenti vi erano alcuni che avevano già aderito alle scorse edizioni e che, di recente, hanno pubblicato il loro primo romanzo o primo racconto in raccolta, dunque, non tutti coloro che hanno risposto al Call sono esordienti alle prime armi. Per questo motivo credo che sia stato più importante partecipare che vincere, perché è stata un’occasione in cui imparare a fare i conti con una propria voce, con regole e tempi diversi dai propri.
La cerimonia di premiazione si è svolta venerdì 19 maggio al XXXV Salone Internazionale del Libro di Torino, un momento che è stato carico di tensione e di aspettative oltre che di grande emozione.

Di che cosa parla il tuo racconto proposto a questa edizione?

Il mio racconto si intitola Il capello e riguarda un’idea che risale a circa un anno fa. Un bel giorno mi è apparsa davanti agli occhi questa donna ossessionata dalla crescita dei capelli bianchi. L’unica cosa che riuscivo a «vedere» era quel suo tentativo, maldestro, di tirarseli via, giorno dopo giorno. Avevo pensato, all’epoca, di scriverne qualcosa, ma la sensazione che ricevevo da questa cortissima scena non mi soddisfaceva. Così l’ho lasciata maturare tra molte altre idee che custodisco in una specie di spazio apposito, nella mia testa. Quando ho visto l’appello del Premio Calvino mi sono detta che forse quella scena poteva essere un’idea buona da sviluppare, un’occasione per dare, finalmente, parola a qualcosa che per mesi ha fluttuato tra i pensieri. Il racconto è nato in questo modo, da principio non sapevo neppure io come sarebbe andato a finire e ciò a causa della natura stessa del concorso: per partecipare era necessario inviare soltanto l’incipit. Quindi giusto un inizio, brevissimo in 1500 battute, quanto basta per catturare il lettore – in teoria. Una volta steso l’inizio sono rimasta ad aspettare qualche giorno per capire come procedere. A prescindere dall’esito della prima selezione sapevo, però, che avrei concluso il racconto. Ho cercato di fidarmi di questa donna, di seguirla per casa, di immedesimarmi nei suoi tentativi – quasi disperati – di opporsi all’invecchiamento. E poi, probabilmente, c’è stato qualcosa che non ho notato oppure non ho considerato adeguatamente durante la scrittura: il tema del doppio si è intrecciato a quello della memoria. A quanto pare, secondo la giuria, avrei dovuto e potuto rendere partecipe il lettore su entrambe le questioni. Purtroppo, il limite di battute imposto era insindacabile. Mi riservo, per un futuro non troppo lontano, un’ulteriore rivisitazione del racconto il cui potere immaginativo continua a richiamare la mia attenzione: credo che la scrittura debba mettersi al servizio di tali richiami e visioni.

È vero che hai partecipato anche alla sezione romanzo? Potresti parlarci della trilogia che stai scrivendo?

Ho partecipato al Premio Calvino sia l’anno scorso – XXXV edizione – sia all’attuale edizione (ancora in corso). In entrambe le occasioni ho inviato però un manoscritto non nella sua forma definitiva, conscia che questo avrebbe potuto segnare il percorso nelle procedure di valutazione e di selezione. E, nonostante tutto, forse per testardaggine, forse per ostinazione, ho scelto di partecipare. Penso al grande Dostoevskij del quale si racconta che soltanto in vista di scadenze improrogabili – a discapito della propria vita –, riuscisse a scrivere, a portare a termine i propri manoscritti; e che, in certe occasioni, fosse stato egli stesso il mandante, imponendosi dei limiti al di là dell’umano che gli desse l’impressione di una vera posta in gioco, pur di avere un traguardo all’altezza dello sforzo. Ecco, una cosa simile non esiste al giorno d’oggi. Chi scrive spesso non ha alcun limite, alcuna imposizione e la stesura di un romanzo, di un racconto, di un qualsiasi scritto può impiegare anni, se non decenni. Partecipando al Premio ho tentato, blandamente, di impormi delle regole, di pensare seriamente alla scrittura come a un lavoro. Non c’è modo migliore per imparare se non attraverso il fallimento. Mi era chiaro fin dall’inizio, infatti, che una semplice bozza, piena di errori di battitura, con citazioni di brani di Beethoven tra le righe, non ancora riletta e rivista, non avrebbe avuto lunga strada. Quel che mi interessava capire era se i lettori del comitato lettura avrebbero colto il nucleo della storia, l’intento narrativo, la voce. A distanza di molti mesi dall’invio, mentre il romanzo è cresciuto passando dallo stadio infante a quello adulto, ho ricevuto una scheda di lettura in cui mi si confermava che il nucleo e lo stile e la voce erano stati non solo colti, ma anche apprezzati.
Scrivere, per me, significa anche imparare oltre a giocare con la lingua, con i tanti personaggi che popolano la mia mente, ognuno con una sua voce specifica.

Tu scrivi in lingua italiana, come ti consideri: una scrittrice italofona o migrante?

Ho sentito la prima volta la parola «italofona» associata agli scrittori e alle scrittrici in questa edizione del Salone del Libro, non mi era passato di mente di considerarmi come tale.
Dal mio arrivo in Italia, a undici anni, ho abbracciato la lingua italiana come se fosse la mia lingua madre. Per via delle derisioni a scuola, in quel lontano 1991/1992, in casa abbiamo preso la decisione di parlare solamente la lingua italiana. Una decisione drastica ma necessaria, allora. Rimpiango di aver sostituito le mie madri orali; quando leggo qualcosa in romeno esito, mi manca la sapienza degli accenti e dei significati. Ma vive in me, come un fiume sotterraneo e, oggi, spesso lo accolgo e lo includo nella mia scrittura.
Mi ritengo una scrittrice, semplicemente scrittrice. E scrivo della materia di cui è fatto l’uomo, dei sogni, dei fallimenti, della miseria, di ciò che ho potuto esperire nella mia giovinezza. In poesia, dove lo spazio non appartiene soltanto alle parole, in quel silenzio della pagina bianca spesso riesco a trovare la via per la mia infanzia e quella lingua che credevo dimenticata. E mi sento come a casa.



Irina Niculescu

(n. 6, giugno 2023, anno XIII)