Una scrittrice di origini romene finalista nella sezione racconto del Premio Calvino 2023
Salone del Libro di Torino, la sera di venerdì 19 maggio, sala Indaco del padiglione Oval – in una stanza gremita di pubblico si è svolta la premiazione del concorso per narrativa breve, in presenza dei dieci autori esordienti arrivati finalisti nel Call racconti di quest’anno. Fra i dieci finalisti c’era anche Oana Rodica Alexandrescu, una scrittrice di origini romene che è nuova al mondo dell’editoria, ma che sicuramente farà molta strada. Noi l’abbiamo intervistata per voi. Sei arrivata alla finale del Premio Calvino per la sezione racconto. Ci potresti dire la tematica del concorso? E che emozioni ti ha suscitato? Il tema del Call 2023-Premio Calvino dedicato ai racconti, arrivato alla quinta edizione, è intitolato Visioni divergenti e corpi indisciplinati – sulla via del fantastico e ha incluso un vasto pubblico nella partecipazione (ben 817 concorrenti). Un tema ampio, quello proposto, perché alla parola «fantastico» si può arrivare attraverso generi differenti e lo si evince in modo chiaro leggendo i racconti scelti come finalisti e pubblicati sul sito dell’Indice: alla prima selezione sono stati scelti 35 incipit, alla seconda 10 racconti completi; infine, i vincitori proclamati sono stati tre, uno votato dal pubblico e due ex aequo decisi dalla giuria. Di che cosa parla il tuo racconto proposto a questa edizione? Il mio racconto si intitola Il capello e riguarda un’idea che risale a circa un anno fa. Un bel giorno mi è apparsa davanti agli occhi questa donna ossessionata dalla crescita dei capelli bianchi. L’unica cosa che riuscivo a «vedere» era quel suo tentativo, maldestro, di tirarseli via, giorno dopo giorno. Avevo pensato, all’epoca, di scriverne qualcosa, ma la sensazione che ricevevo da questa cortissima scena non mi soddisfaceva. Così l’ho lasciata maturare tra molte altre idee che custodisco in una specie di spazio apposito, nella mia testa. Quando ho visto l’appello del Premio Calvino mi sono detta che forse quella scena poteva essere un’idea buona da sviluppare, un’occasione per dare, finalmente, parola a qualcosa che per mesi ha fluttuato tra i pensieri. Il racconto è nato in questo modo, da principio non sapevo neppure io come sarebbe andato a finire e ciò a causa della natura stessa del concorso: per partecipare era necessario inviare soltanto l’incipit. Quindi giusto un inizio, brevissimo in 1500 battute, quanto basta per catturare il lettore – in teoria. Una volta steso l’inizio sono rimasta ad aspettare qualche giorno per capire come procedere. A prescindere dall’esito della prima selezione sapevo, però, che avrei concluso il racconto. Ho cercato di fidarmi di questa donna, di seguirla per casa, di immedesimarmi nei suoi tentativi – quasi disperati – di opporsi all’invecchiamento. E poi, probabilmente, c’è stato qualcosa che non ho notato oppure non ho considerato adeguatamente durante la scrittura: il tema del doppio si è intrecciato a quello della memoria. A quanto pare, secondo la giuria, avrei dovuto e potuto rendere partecipe il lettore su entrambe le questioni. Purtroppo, il limite di battute imposto era insindacabile. Mi riservo, per un futuro non troppo lontano, un’ulteriore rivisitazione del racconto il cui potere immaginativo continua a richiamare la mia attenzione: credo che la scrittura debba mettersi al servizio di tali richiami e visioni. È vero che hai partecipato anche alla sezione romanzo? Potresti parlarci della trilogia che stai scrivendo? Ho partecipato al Premio Calvino sia l’anno scorso – XXXV edizione – sia all’attuale edizione (ancora in corso). In entrambe le occasioni ho inviato però un manoscritto non nella sua forma definitiva, conscia che questo avrebbe potuto segnare il percorso nelle procedure di valutazione e di selezione. E, nonostante tutto, forse per testardaggine, forse per ostinazione, ho scelto di partecipare. Penso al grande Dostoevskij del quale si racconta che soltanto in vista di scadenze improrogabili – a discapito della propria vita –, riuscisse a scrivere, a portare a termine i propri manoscritti; e che, in certe occasioni, fosse stato egli stesso il mandante, imponendosi dei limiti al di là dell’umano che gli desse l’impressione di una vera posta in gioco, pur di avere un traguardo all’altezza dello sforzo. Ecco, una cosa simile non esiste al giorno d’oggi. Chi scrive spesso non ha alcun limite, alcuna imposizione e la stesura di un romanzo, di un racconto, di un qualsiasi scritto può impiegare anni, se non decenni. Partecipando al Premio ho tentato, blandamente, di impormi delle regole, di pensare seriamente alla scrittura come a un lavoro. Non c’è modo migliore per imparare se non attraverso il fallimento. Mi era chiaro fin dall’inizio, infatti, che una semplice bozza, piena di errori di battitura, con citazioni di brani di Beethoven tra le righe, non ancora riletta e rivista, non avrebbe avuto lunga strada. Quel che mi interessava capire era se i lettori del comitato lettura avrebbero colto il nucleo della storia, l’intento narrativo, la voce. A distanza di molti mesi dall’invio, mentre il romanzo è cresciuto passando dallo stadio infante a quello adulto, ho ricevuto una scheda di lettura in cui mi si confermava che il nucleo e lo stile e la voce erano stati non solo colti, ma anche apprezzati. Tu scrivi in lingua italiana, come ti consideri: una scrittrice italofona o migrante? Ho sentito la prima volta la parola «italofona» associata agli scrittori e alle scrittrici in questa edizione del Salone del Libro, non mi era passato di mente di considerarmi come tale.
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