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Mostra fotografica al Palazzo Roverella di Rovigo su Tina Modotti
A mia sorella Daniela”
Corina Tucu
Da due anni a questa parte viene omaggiata una delle più grandi fotografe di tutti i tempi, Tina Modotti. L’anno scorso le fu dedicata una mostra a Genova, «Donne, Messico, Libertà», titolo che mi riporta alla mente i versi di una struggente canzone di Paolo Conte: «Messico e nuvole/ La faccia triste dell’America/e il vento suona la sua armonica:/ che voglia di piangere ho!»
Dal 22 settembre 2023 al 28 gennaio 2024 sarà aperta a Rovigo, a Palazzo Roverella, la mostra più completa allestita in Italia sull’opera della grande fotografa Tina Modotti. Un anno fa, la mostra a Genova durò dall’8 aprile al 9 ottobre 2022. Genova fu la città da dove partì dodicenne per le Americhe per raggiungere il padre già partito per gli Stati Uniti d’America. La mostra di Rovigo di Tina Modotti espone 300 del totale di 500 opere che sono state conservate dal suo ultimo compagno, Vittorio Vidali, e che sono arrivate fino a noi custodite con premura e gelosia dal Comitato Tina Modotti.
Dalla morte prematura, d’infarto, in un anonimo taxi per le vie di Città del Messico, fino al 1977, quando fu organizzata una sua grande retrospettiva al MOMA di New York, l’opera di Tina Modotti era entrata in un cono d’ombra, dal quale è emersa alla luce con la sua forza vitale imponendosi come una delle più grandi fotografe di tutti i tempi. Il curatore della mostra è Riccardo Costantini con la collaborazione di Gianni Pignat e Piero Colussi. L’eccellente catalogo è uscito con il contributo dell’editore Dario Cimorelli ed è stato curato dallo stesso Riccardo Costantini.
Ma chi era Tina Modotti? Assunta (da cui il vezzeggiativo Tina, Assuntina) Adelaide Luigia Modotti Mondini, o semplicemente Tina Modotti, nasce a Udine nel 1896 e morirà a soli 46 anni nel gennaio del 1942 a Città del Messico. Di umile famiglia friulana di orientamenti socialisti, Tina emigra giovanissima negli Stati Uniti d’America, dove diventa un’attrice di Hollywood per poi incontrare nel 1921 Edward Weston con il quale partì per il Messico. Un amore forte, combattuto a causa della gelosia di lui, dei rimpianti per i tre figlioletti piccoli che sempre lui aveva lasciato in California con la moglie, per il successo e il fascino della bella italiana dagli occhi neri che era Tina Modotti. Tina aveva appena perso suo marito Robo (Roubaix de l’Abrie-Richey), pittore famoso con il quale si trasferì nel 1918 a Los Angeles, che morì prematuramente di vaiolo rifugiandosi per primo in Messico. Edward Weston la sceglie come musa ispiratrice e, per sfuggire alla morale puritana americana, si trasferì con Tina sempre a Città del Messico, dove due anni prima era morto Robo, che non aveva retto il tradimento di Tina. Da Weston si separa perché lui non regge il temperamento di Tina. Seguono altri amori, tra cui il più tragico, per Juan Antonio Mella, forse anche il più grande, visto che Tina portava in borsa la sua foto nel giorno in cui morì nel taxi, nel 1942. Mella viene fucilato mentre camminava con Tina e lei viene accusata per un delitto che non poteva essere che passionale. Tina è una donna senza pregiudizi o limiti, che condusse una vita da «pasionaria», di una bellezza bruna e di un talento che l’ha fatta emergere dalla povertà di Udine e l’ha spinta fino a Hollywood, dove fu protagonista in tre film muti, e da lì a Città del Messico dopo la dittatura, in un clima culturale vivacissimo. Alla fotografia Tina arrivò, come abbiamo detto, da modella del grande fotografo americano Edward Weston, di cui era anche assistente e poi amante, per poi staccarsi dalla fotografia geometrica e in un certo senso formale di Weston per costruirsi un suo mondo più impegnato e engagé, vicino alla politica, al Partito Comunista Messicano di cui fa parte dal 1927, al mondo rivoluzionario sovversivo dell’Internazionale comunista che pullulava di vita lì, nel Messico degli anni ’20. Tina Modotti parte dalle cose che sapeva bene da Weston, una buona macchina fotografica e delle architetture e nature morte per ricercare il linguaggio secco e dedicarsi poi alla classe operaia, ai ceti popolari, agli amati campesinos, i contadini, con una economia di linguaggio alla Kazimir Malevich, in bianco e nero, duro, senza sfumature, dritto al bersaglio. La mostra di Rovigo ha come punto di partenza l’unica mostra che lei ha direttamente realizzato a Città del Messico, nel 1929, dove furono esposte una sessantina di opere e delle quali oltre 40 sono presenti nella mostra rodigina. A Città del Messico Tina Modotti frequenta lo scrittore John Dos Passos, l’attrice Dolores Del Rio e diventa amica di Frida Kalho e Diego Rivera, e fotografa i murales di Rivera, questo grido contro l’arte «borghese» dei quadri, i murales come espressione vitale e ruvida dell’arte come vita. Dall’inverno del 1977 della mostra al Moma di New York, la personalità di Tina Modotti si impone come donna, come intellettuale e anticonformista, come fotografa, come militante comunista e di conseguenza antifascista, causa del suo allontanamento dall’Italia nel triste Ventennio, s’impone come una personalità di spicco del suo tempo.
Una donna dal carattere forte, una fotografa geniale, una «pasionaria» politicamente impegnata, grande rubacuori ma per niente volgare, sensuale, dai tratti mediterranei molto marcati e dall’intelligenza brillante, Tina Modotti era prima di tutto una donna con una spiccata sensibilità per i temi forti come lei, per le donne del Messico dopo la guerra civile, per i campesino dagli ampi sombrero che leggevano «El Machete», per i simboli della rivoluzione comunista declinati «alla messicana» con la falce, ma al posto del martello la cartucciera e la pannocchia di granturco, per i morti degli scontri dei Cristeros, per denunciare la miseria nella quale versava la popolazione di origine india, ma soprattutto per la bellezza delle donne, dei loro regali vestiti, di queste gonne ampie come dei pepli romani, la bellezza della natura perfetta e ostile, delle piante di granturco, delle palme proiettate nel cielo rovente come le palme di Emilio Vedova ante litteram, i boccioli di rose pure, splendide e perfette, le canne da zucchero e di bambù nella loro rigorosità formale e modulare che ricordano gli artefatti umani delle scale, degli archi della nuova città in costruzione, dei pali dell’elettricità, croci nere tirate da innumerevoli fili, fili ripresi anche nell’allestimento della mostra per dividere gli spazi, per ritmare il tragitto.
Ma la «metafora politica» più forte visivamente è rappresentata dalle mani del puparo che muovono tramite fili sottili i corpi dei bambolotti manipolati come noi, piccoli uomini che siamo manovrati dalle mani invisibili delle false notizie, dell’ideologia, del Potere manipolatore dei Grandi nei confronti dei piccoli, degli indifesi. E di nuovo le maschere di cartapesta usate nelle processioni messicane, mescolate ai culti pagani, al folclore e alle superstizioni del mondo contadino, mondo crudele, intenso, dalle piazze del mercato dove si comperano le verdure, la frutta, l’artigianato locale, si celebra messa e si giustizia il rivoltoso, si fanno fastosi riti religiosi e si riuniscono i mari di sombrero dei campesinos per difendere la terra e i pochi diritti. La gente è alfabetizzata e legge «El Machete», Tina declina la retorica rivoluzionaria della Marianne francese avvolta nello stendardo della Libertà con corpo di donna messicana, il ritratto di profilo del bel rivoluzionario cubano Mella, suo grande amore morto assassinato mentre passeggiavano a braccetto per le vie di Città del Messico, fino al suo volto assassinato, bello, martirizzato.
Quando Tina muore all’improvviso, la sera del 5 gennaio del ’42, tornando in taxi da una cena con amici, il suo amico Pablo Neruda le dedicò un commovente epitaffio: «Tina Modotti, sorella non dormi, no, non dormi: forse il tuo cuore sente crescere la rosa di ieri, l’ultima rosa di ieri, la nuova rosa. Riposa dolcemente sorella. Sul gioiello del tuo corpo addormentato ancora protende la penna e l’anima insanguinata come se tu potessi, sorella, risollevarti e sorridere sopra il fango». L’epitaffio finisce con questi versi: «Puro è il tuo dolce nome, pura la tua fragile vita: /di ape, ombra, fuoco, neve, silenzio, spuma, /d’acciaio, linea, polline, si è fatta la tua ferrea, /la tua delicata struttura» e sono stati incisi nella stele che è stata dedicata a Tina Modotti dalla sua città natale.
Rimane di quella ferrigna bellezza l’immenso talento, la passione per la vita, per la politica, per la condizione degli ultimi, delle donne, rimane l’occhio aquilino nel vedere la verità, l’essenza delle cose e soprattutto rimane l’intensità del «mal di vivere che lei spesso ha incontrato», per parafrasare un altro genovese illustre, Eugenio Montale.
Tina Modotti è la friulana emigrante in America, l’attrice hollywoodiana scappata a Città del Messico per vivere in libertà, l’apprendista stregona di Edward Weston, la compagna di Juan Antonio Mella, il grande visionario e fondatore del Partito Comunista Cubano, la compagna di fede politica di Vittorio Vidali che ha curato la sua fototeca, ma anche i segreti della Pasionaria, sospettata dell’assassinio di Trotskij come della stessa Tina Modotti, dicerie mai confermate, ma che rimangono come una luce tenebrosa che accompagna la tragica e prematura morte di Tina.
Di Tina Modotti, personalmente, a me impressiona la bellezza, il coraggio di vivere in libertà, la grande cultura visiva che si nasconde dietro questi scatti: donne indios che portano in braccio figli paffutelli, ma avvolte in ampie gonne dal sapore antico, fotografate vicino alle colonne dei portici, dritte come è solo la dura vita, segno di un’antichità greco-romana in una patria che non ha mai conosciuto quella civiltà ma che ne evoca il fasto nei semplici gesti, come segno che la bellezza è un archetipo che travalica i confini dello spazio e della mente, segni futuristici malauguranti come nere croci dei costruttivisti russi che lei rievoca fotografando pali dell’elettricità o del telegrafo, archi trionfali dell’architettura razionalista messicana degli anni ’20 e infinite scale, volte e cortili dei conventi sperduti ai confini del mondo, in una terra desertica e inospitale, pungente come i cactus e sanguinaria, terra che ha affascinato non solo Tina Modotti, ma un intero establishment d’intellettuali dei ruggenti anni ’20, da Frida Kahlo e Diego Rivera fino a Pablo Neruda che, scherzo del destino, finirà anche lui da esule nell’Italia del dopoguerra, nel paese natio della sua grande amica Tina Modotti. A volte la ruota gira, ma il segno dell’emigrante è sempre vicino all’intellettuale nonconformista, a chi non può finire mai da profeta in patria.
Donna a Tehuantepec, Messico, 1929
Donna con bandiera, Città del Messico, 1928
Fili di telefono, Messico, 1925
Marcia dei lavoratori, Città del Messico, 1926
Roses, Città del Messico, 1924
Mani del burattinaio, 1929
Frida Kahlo e Diego Rivera alla Blue House (Casa Azul), Coyoacán, Città del Messico, 1940
La Palanca (Pulquería, Viale Jesús Carranza), Città del Messico, 1927
Liana Corina Tucu
(n. 12, dicembre 2023, anno XIII)
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