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Rubens! La nascita di una pittura europea
La fine del 2023 e l’inizio del 2024 ha portato nella scena espositiva italiana un progetto di grande ampiezza e originalità: realizzare tre mostre dedicate a Pieter Paul Rubens e legate alla sua presenza in Italia, nella Mantova dei Gonzaga a Palazzo Te e al Palazzo Ducale e a Roma a Villa Borghese. La straordinaria iniziativa culturale è stata compiuta con il Patrocinio del Ministero della Cultura, un’occasione unica di collaborazione tra la Fondazione di Palazzo Te, il Palazzo Ducale di Mantova, Villa Borghese a Roma e tutti i musei che hanno prestato i quadri di Rubens per poter realizzare le tre mostre, musei tra i più importanti d’Europa. Oltre alle mostre, l’iniziativa prevede incontri di approfondimento, conferenze, eventi e la realizzazione di pubblicazioni scientifiche dedicate al grande artista. Rubens! La nascita di una pittura europea è una delle più ampie operazioni culturali dedicate ai rapporti tra la cultura italiana e l’Europa vista attraverso gli occhi di Rubens.
A Mantova il progetto espositivo è stato condiviso con Palazzo Ducale e Fondazione Palazzo Te con la mostra Rubens a Palazzo Te. Pittura, trasformazione e libertà, mostra allestita dal 7 ottobre 2023 al 7 gennaio 2024 e prorogata fino al 28 gennaio 2024 a Palazzo Te, questo meraviglioso palazzo realizzato da Giulio Romano, a sua volta il più significativo allievo di Raffaello Sanzio, che, dopo il Sacco di Roma del 1527, si era rifugiato preso i Gonzaga a Mantova. Le curatrici, Raffaella Morselli e Cecilia Paolini, hanno illustrato il percorso dell’artista fiammingo, dagli spunti rinascimentali appresi negli anni mantovani e in giro per l’Italia, alla pittura della maturità, saperi che sono stati trasmessi poi ai suoi allievi.
Le opere esposte a Palazzo Te mettono in luce il dialogo con l’opera di Giulio Romano, la sintonia mai interrotta con il Rinascimento e la mitologia antica. Il confronto con Giulio Romano fa di Rubens un pittore cosmopolita all’inizio del Barocco che, a sua volta, fu il primo stile internazionale per eccellenza. Una cosa poco sottolineata della personalità di Rubens è la sua profonda vena intellettuale, e capacità di poliglotta del pittore, capacità che lo hanno avvicinato ai testi antichi e moderni, al mondo italiano per eccellenza, alla sua lingua, che scriveva con garbo e maestria. Rubens è per questo tanto italiano quanto fiammingo, ma è soprattutto un europeo curioso, pieno di talento e abile imprenditore di sé stesso. Quando tornerà ad Anversa si farà costruire una casa con tanto di finestre michelangiolesche in un mondo che era tutto con abitazioni a tetto spiovente e con le facciate decorate con travi che sottolineavano la struttura di resistenza dell’edificio. Pensate quanto dovesse apparire bizzarro all’inizio, ma quanto impatto ha avuto dopo e come è stato anche un maestro di stile per la sua patria natia, ha insegnato ai contemporanei una lingua figurativa internazionale, la prima della Storia dell’arte, quella barocca.
La curatrice Raffaella Morselli scrive sull’arrivo a Mantova di Rubens: «Il colto umanista universale Pieter Paul Rubens, educato nelle lettere nei territori liberi di quella che fu la Lotaringia, con la testa in fermento per le letture greche e latine apprese in patria, arriva nella città ducale dei Gonzaga nella calda e umida estate dell’agosto del 1600».
La mostra mantovana è composta da dodici sezioni che seguono il percorso di visita del museo. Camminando per le sale affrescate da Giulio Romano partendo dal capolavoro del banchetto di Amore e Psiche, attraversando quelle degli arazzi realizzati secondo i cartoni di Raffaello portati a Mantova dal suo allievo, si possono ammirare oltre cinquanta opere in prestito dai più prestigiosi musei italiani e internazionali, tra cui il Musée du Louvre, il Museo Nacional del Prado, la National Gallery of Denmark e il Royal Museum of Fine Arts di Anversa. Quindici sono le opere di Rubens e tra le più importanti si possono ammirare Achille scoperto da Ulisse tra le figlie di Licomede del Prado, Cristo sulla croce del museo d’arte Koninklijk Museum voor Schone Kunsten (Museo reale di storia dell’Arte di Anversa, Belgio) e Romolo e Remo allattati dalla lupa dei Musei Capitolini. Insieme ai quadri abbiamo il loro «laboratorio», i disegni e le incisioni provenienti dall’Istituto della Grafica di Roma e di disegni di Giulio Romano dal Louvre che facevano parte della collezione di Rubens, la decorazione del salone principale della casa di Jacob Jordaens, allievo prediletto del maestro, mutuata dalla camera di Amore e Psiche di Palazzo Te, altre opere di pittori legati all’artista, come il collega Jan Brueghel il Vecchio, e i collaboratori Theodor van Thulden, Sebastian Vrancx e David Teniers (Il Giovane). La presenza delle opere fiamminghe in Italia è sempre un evento, anche perché sono scarse di presenza nelle ricchissime, d’altronde, collezioni italiane.
La grande novità della mostra di Mantova è rimettere insieme, come in un dialogo oltre tempo, il Maestro e gli allievi, Giulio Romano e Rubens, l’Italia Barocca e l’Europa che la imita grazie anche all’opera di «divulgazione» promossa dal fiammingo. Scrive Stefano Baia Curioni, direttore di Palazzo Te: «È una storia che unisce Giulio Romano a Rubens nella loro capacità di trasformare creativamente la tradizione; è il racconto del riverbero avuto nel tempo, fino al Seicento e oltre, della pittura di Giulio Romano e di Palazzo Te; è l’evidenza di quanto la ‘pratica della libertà’ propria della pittura sia una cifra preziosa della cultura europea anche contemporanea».
La mostra al Palazzo Ducale è incentrata sulla Pala della Santissima Trinità: il ciclo delle tre enormi tele per la Chiesa della Santissima Trinità, una delle quali è ancora oggi esposta al Palazzo Ducale e costituisce una tappa fondamentale nel percorso conoscitivo di questo grande artista. Pieter Paul Rubens conosce il principe Vincenzo Gonzaga e nel 1600 arriva a Mantova, giovane promettente pittore alla corte di una delle più importanti signorie italiane, uno dei quattro studioli rinascimentali insieme a Ferrara, dalla quale il Gonzaga prese moglie, la bella e colta Isabella d’Este, a Rimini e Urbino. Rubens se ne andrà circa dieci anni dopo da Mantova, ormai trentenne, con la fama di indiscusso maestro.
Il progetto espositivo presenta un nuovo allestimento museografico e illuminotecnico dell’intero Appartamento Ducale, voluto da Vincenzo I e realizzato da Antonio Maria Viani, spazio dove sono esposte opere della collezione permanente dal tardo Cinquecento al Seicento. Punto focale del percorso è la Sala degli Arcieri, dove è esposta la Pala la cui vicenda viene raccontata da un’innovativa ricostruzione tridimensionale della chiesa della Santissima Trinità.
E ci spostiamo a Roma. Qui, alla Galleria Borghese, dal 14 novembre 2023 al 18 febbraio 2024, si tiene la mostra Rubens intitolata Il tocco di Pigmalione. Rubens e la scultura a Roma, a cura di Francesca Cappelletti e Lucia Simonato e con un catalogo edito da Feltrinelli. La mostra mette in risalto il modo in cui l’influenza del viaggio di Rubens in Italia nel primo decennio del XVII secolo impregna la sua vita negli anni successivi al ritorno in patria. Il progetto, dicono le curatrici, «sottolinea il contributo straordinario dato dall’artista, alle soglie del Barocco, a una nuova concezione di antico, di naturale e di imitazione, mettendo a fuoco la novità dirompente del suo stile nel primo decennio a Roma e come lo studio dei modelli potesse essere inteso come ulteriore slancio verso un nuovo mondo di immagini». La Galleria Borghese offre l’opportunità di vedere i grandi gruppi berniniani, la statuaria antica, le altre sculture moderne, in relazione diretta con i quadri e i disegni di Rubens, la grande lezione del maestro fiammingo che coglie il lascito italico dell’antico come opportunità per creare un nuovo linguaggio universale: il Barocco. Guardando Rubens dentro Galleria Borghese si capisce la sua «lingua», il modo in cui ha dialogato anche con questa grande collezione italiana. L’operazione mi ricorda un’altra grandissima mostra di alcuni anni fa, I Borghese e l’antico, mostra che è stata organizzata a Villa Borghese dal 7 dicembre 2011 al 9 aprile 2012, quando dal Louvre vennero portate le statue comprate da Napoleone, caso più unico che raro, dal cognato, niente meno che il principe Camillo Borghese, chiacchierato marito della bella Paolina Bonaparte, presente nella mostra permanente in veste di Venere appoggiata sulla récamier opera di Antonio Canova. Rubens parla una nuova lingua figurativa che non è né fiamminga, né italiana, la sua folla di divinità ha una «parentela» di immagini con Giulio Romano di Palazzo Te che fece da Maestro allo studente colto che fu Rubens. L’intellettuale rinascimentale che arriva dalle Fiandre continua a Roma gli anni della sua formazione culturale e nelle sue collezioni trova questo materiale latino e greco in testi e immagini nella città Eterna, il luogo perfetto per immergersi nei sogni antichi. Sarà solo l’inizio di una lunga serie di allievi, tra cui l’illustre Goethe o Canova. Guardando Le tre Grazie di Rubens a Mantova e girando poi per le sale di Villa Borghese mi sono ricordata delle Tre Grazie di Antonio Canova e della sua Musa dormiente. Queste due opere furono create da Canova come «risarcimento» per la vendita delle altrettanto famose e antiche «originali» che raffiguravano lo stesso triumvirato di bellezza e un antico Androgino adagiato su un materasso di Bernini, opere appartenenti alla collezione e vendute dal Principe a Napoleone. Antonio Canova, anima nobile e genuina, non sopporta questa «perdita» della collezione che lui aveva studiato quanto Rubens e che è «ammaccata» dalla vendita all’Imperatore e lavora per «completare» l’amata collezione Borghese, luogo di studio e ritrovo degli artisti e degli intellettuali da sempre.
Torno con la mente alla mostra I Borghese e l’antico (dal 7 dicembre 2011 al 9 aprile 2012) organizzata dalla Galleria Borghese con la collaborazione eccezionale del Museo del Louvre. Allora i più importanti capolavori dell’arte antica appartenuti alla Collezione Borghese, oggi nucleo essenziale della raccolta di antichità del Museo del Louvre di Parigi, tornarono nella loro sede originaria. Dice la presentazione della mostra:
«Tornano alla Galleria Borghese, per la prima volta dopo 200 anni, 60 opere illustri come il Vaso Borghese, con scene dionisiache, l’Ermafrodito dormiente, restaurato da un giovanissimo Bernini, il Sileno e Bacco bambino, le Tre Grazie e il celebre Centauro cavalcato da Amore, che mai prima d’ora hanno lasciato il Museo parigino. Furono per ben quattro mesi, alla Galleria Borghese ospitati i capolavori della più grande e importante raccolta di antichità esistente al mondo, restituendo alla collezione formata dal cardinal Scipione Borghese, all’inizio del Seicento, la sua sede d’origine. Il patrimonio archeologico dei ‘marmi Borghese’, oggi gloria classica del Louvre, costituisce una delle più ‘sensazionali vendite mai avvenute’. Nel 1807 Camillo Borghese, marito di Paolina Bonaparte, accettò di vendere 695 pezzi tra statue, vasi e rilievi alla Francia per volontà del cognato Napoleone, che perseguiva il proposito autocelebrativo di dotare la capitale del suo impero del museo pubblico più importante delle arti universali – il Museo del Louvre, già Musée Central des Arts, che tra il 1803 e il 1815 prese il nome di Musée Napoléon. Incaricato da Napoleone di stimare la collezione Borghese in vista del suo acquisto, Ennio Quirino Visconti, antiquario di fama, fu il responsabile dell’acquisizione più importante della storia delle raccolte d’arte antica del Louvre. L’idea che animò il progetto è espressa bene da Denon, direttore dei Musei imperiali, che sapeva come blandire l’orgoglio dell’imperatore: in tutte le lettere che gli invia sull’argomento non trascura mai di associare le belle arti al prestigio imperiale: ‘il secolo di Napoleone deve essere il secolo delle belle arti come è quello degli eroi’, scrive all’imperatore, ‘il più potente protettore delle belle arti, primo sovrano d’Europa’. La scelta privilegiata dell’arte antica doveva, dunque, contribuire al prestigio dell’imperatore che si dichiarava erede della romanità. Era nelle intenzioni di Visconti e Denon scartare le opere ‘moderne’ nella convinzione che solo l’arte antica potesse arricchire la scienza e formare il ‘vero gusto’. La volontà di Napoleone di acquisire la collezione Borghese rispondeva alle aspettative scientifiche dell’antiquario Visconti di favorire il progresso della scienza (attraverso lo studio delle opere acquisite), di contribuire alla formazione degli artisti attraverso lo studio dei modelli antichi, ma soddisfaceva anche il gusto del pubblico e contribuiva, dunque, ad affermare l’identità dei cittadini e dell’imperatore come eredi della classicità. La formazione della raccolta Borghese di antichità si deve al cardinale Scipione Borghese, nipote di Paolo V, che acquistò, a breve distanza di tempo, due collezioni: la prima nel 1607, quella di Lelio Ceoli, collocata nel palazzo eretto dal Sangallo in via Giulia; subito dopo, nel 1609, si assicurò quella formata dallo scultore Giovanni Battista Della Porta. Si creò, così, l’aspetto con cui il Museo appare ancora oggi nel suo splendore di marmi, pietre dure e mosaici. Tra la fine del 1807 e il 1808, in seguito alla cessione a Napoleone Bonaparte, le sculture archeologiche della Villa furono trasportate a Parigi. La perdita di questa straordinaria collezione ebbe un impatto fortissimo sulle coscienze del tempo.
Antonio Canova, che sulle sculture della Villa aveva condotto il suo appassionato studio dell’antico, l’avrebbe definita nel 1810 davanti a Napoleone ‘una incancellabile vergogna’ per la famiglia che possedeva ‘la villa più bella del mondo’. Il Cardinal Casoni provò in tutti i modi, rifacendosi alla legislazione pontificia, di salvare la collezione Borghese dall’acquisizione napoleonica. Il tentativo non ebbe, tuttavia, alcun esito data la situazione politica, che fece registrare in quel giro d’anni un assoluto predominio dei francesi a Roma. Camillo, dopo la ‘sciagurata’ vendita, cercò di ripristinare, per quanto possibile, la collezione attraverso il recupero di reperti archeologici provenienti da scavi e acquisti, alcuni di notevole importanza, come il Fauno Danzante restaurato da Bertel Thorvaldsen. Le nuove acquisizioni, operate nel corso dell’Ottocento, costituiscono l’attuale collezione archeologica conservata presso la Galleria Borghese. La vicenda della vendita della collezione Borghese fu così scioccante da suscitare una nuova consapevolezza del rischio incombente sulle opere d’arte italiane e pose le basi dei primi veri provvedimenti di tutela del patrimonio artistico nazionale, come l’editto del cardinal Pacca emesso nel 1820 e ripreso da numerosi governi preunitari. Al piano terreno la mostra ripropone l’allestimento tardo‐settecentesco realizzato dall’architetto Antonio Asprucci. Attraverso il ricorso ai disegni di Charles Percier, restituiti mediante grandi riproduzioni, le sculture sono collocate rievocando l’aspetto della Villa come si presentava alla fine del Settecento. Per il periodo della mostra è, dunque, possibile fare un vero e proprio ‘salto indietro nel tempo’, agli anni in cui tutta Europa guardava alla Villa Borghese come al nuovo modello di esposizione e interpretazione dell’antico. Al primo piano della Villa è rievocato l’allestimento del Seicento, quando le opere di scultura erano esposte insieme ai dipinti in una suggestiva sequenza di immagini. Alcuni dei capolavori, come le Tre Grazie e il Centauro cavalcato da Amore, tornano nelle sale che per oltre un secolo e mezzo furono a essi intitolate».
Ho riportato una parte del testo della presentazione della mostra di dodici anni fa per sottolineare l’importanza di Villa Borghese e della sua magnifica collezione nella formazione dei due dei più importanti artisti: Pieter Paul Rubens e Antonio Canova. Lo studio dell’antico è fondamentale per ogni generazione, allora come adesso. Vedere le opere di Rubens nelle sale sovraffollate di statue antiche di Villa Borghese è come un’opera d’incastri, quadro nel quadro, novella nella novella come nel Decamerone di Boccaccio. Maestro e discepolo al lavoro come a Palazzo Te la mostra ci insegna con il confronto tra Giulio Romano e lo stesso Rubens il dialogo continuo tra l’arte che riprende l’antico e lo interpreta in chiave contemporanea. Rimane sempre quello spirito del tempo che impregna gesti, corpi, carni e gusti diversi, ma sempre partendo dai classici. Le due mostre di villa Borghese sono riuscite entrambe, con l’intervallo di un decennio e passa, a mettere in mostra questo dialogo, indipendentemente dal tempo storico. E forse soltanto così possiamo capire la grande lezione della storia dell’arte, la partenza dallo studio del classico.
Ritornando alla mostra su Rubens, mi hanno colpito naturalmente Le Tre Grazie, citazione dell’antico, declinato in tutti i modi, da Raffaello ad Antonio Canova, dalla copia romana venduta dal principe Camillo Borghese, oggi al museo Louvre, al quadro di Rubens. Ripenso a Canova che, commosso dalla perdita dell’opera di Villa Borghese a causa della scellerata vendita fatta dal principe a Napoleone, si mise a scolpire un’opera sullo steso tema pur di coprire un vuoto che lui sentiva dentro, vuoto che poi, su mandato del Papa, si sforzò di colmare dopo la caduta di Napoleone per riportare in Patria il patrimonio rubato, e mi pare di capire meglio una lezione che questa faccenda ci dà in modo indiretto: è difficile inventare temi nuovi, posture del corpo umano al di là di quelle già interpretate egregiamente dai greci prima e copiate dai romani dopo. Ma, allora, perché rifare la stessa opera? Perché noi oggi, come i neoclassici di duecento anni fa, o gli artisti dell’età barocca di duecento anni prima dei neoclassici, o i geni rinascimentali, dobbiamo prendere come esempio sempre il classico come Maestro e l’antichità come forma perfetta, somma della bellezza di tutti i tempi. Agile e snella, con le carni e la ciccia rubensiana o realistica come l’arte romana, la forma greca è forma mentis. E così rimarrà nei secoli. È una forma mentis, un modello con quale ogni grande artista si vuole misurare per cercare di aggiungere un tocco nuovo nella sua personalità, ma anche di lasciare una traccia del compito ben fatto nel confronto con gli antichi.
Mai come adesso una figura come Pieter Paul Rubens unisce e identifica uno sforzo europeo per creare la comunità cosmopolita dentro le frontiere di quello che noi chiamiamo oggi l’Occidente. Rubens è fiammingo di nascita, italiano di cultura artistica, convertito cattolico con vocazione religiosa, poliglotta di formazione, uomo di Mondo, fine intellettuale e grandissimo pittore che ha lottato per unire il Nord dell’Europa con il Sud, l’olio sulla tela fiammingo con i colori e il disegno italiano, grande sintesi dell’antico con il suo stile contemporaneo. Possiamo affermare che in Rubens incontriamo l’unita culturale dell’Europa del 1600. Nella sua sintesi noi oggi ritroviamo un universo comune di valori e di bellezza, un linguaggio internazionale di cui siamo fieri.
Pieter Paul Rubens, Le Tre Grazie, 1638 circa, olio su tela 221x181 cm, Museo del Prado, Madrid
Antonio Canova, Le Tre Grazie, marmo, 182 cm, Museo Ermitage, San Pietroburgo, Russia
Raffaello Sanzio, Le Tre Grazie, 1504 e 1505, olio su pannello, 17x17 cm, Musée Condé
Jan Brueghel il Vecchio, Nozze di Peleo e Teti, 1610 circa, olio su rame, 50,4x61,4 cm, Copenaghen, National Gallery of Denmark
Pedro Pablo Rubens Hércules en el jardín de las Hespérides, 1638, olio su tela, 246x168,5 cm, Torino, Musei Reali, Galleria Sabauda
Pedro Pablo Rubens Deyanira tentada por la Furia, 1638 olio su tela, 245x168 cm, Torino, Musei Reali, Galleria Sabauda
Rubens, Caccia alla tigre, 1616 ca., olio su tela, 256x324 cm., Musée des Beaux-Arts, Rennes
Rubens, Ritrovamento di Romolo e Remo, Musei Capitolini, 1616 ca., 210x212 cm, Roma
Rubens, San Michele espelle Satana e gli angeli ribelli, 1640, Museo Thyssen-Bornemisza, Madrid
Liana Corina Tucu
(n. 2, febbraio 2024, anno XIV)
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