Rovereto, al Museo di Arte Moderna la mostra «Klimt e l’arte italiana»

Nella splendida cornice del museo di Arte Moderna di Rovereto, il famoso MART, opera dell’architetto Mario Botta, Beatrice Avanzi, su un’idea del presidente del museo Vittorio Sgarbi, ha organizzato tra il 15 marzo e il 27 agosto la mostra Klimt e l’arte italiana, accompagnata dal corrispettivo catalogo dall’editrice Silvana Editoriale. Nella mostra, oltre ad alcuni bellissimi disegni di nudi, del grande rappresentante della Secessione viennese abbiamo soltanto due tele appartenenti a due musei italiani legati alle biennali che hanno portato all’acquisto di tali dipinti: La Giuditta II di Venezia e Le tre età della donna di Roma. Tutto il resto delle quasi 200 opere presenti nella mostra è Liberty italiano che ha dialogato direttamente con le opere di Klimt e soprattutto appartiene a due dei grandi artisti: Galileo Chini, il grande maestro delle maioliche, qui presente anche con dei stupendi pannelli arrivati dalle collezioni private, e Vittorio Zecchin, veneziano, direttore della vetreria Cappelli-Venini, maestro dell’arte del vetro e della declinazione del Liberty nella matteria che più caratterizza la sua città, Venezia. A questo nucleo centrale si sommano anche Felice Casorati, qui in veste anche di scultore, Luigi Ratini e Adolf Wildt, lo scultore del Liberty. La mostra mette in risalto l’eco che le due opere di Klimt hanno suscitato tra gli artisti italiani dell’epoca. Le tele sono state comprate dallo Stato italiano in seguito alla presenza di Klimt alla Biennale di Venezia nel 1910, dove presentò Giuditta II (opera del 1909, oggi nelle collezioni dei Musei Civici di Venezia, Galleria internazionale di Arte Moderna Ca’ Pesaro) e alla Biennale di Roma del 1911, dove espose Le tre età della donna (opera del 1905, Galleria Nazionale di Arte Moderna di Roma). Ma, nello stesso tempo, per la prima volta in una mostra, si mette in risalto anche l’influsso che il viaggio di formazione nell’Italia «bizantina», nella fattispecie Venezia e Ravenna, ha avuto su Klimt, sulla sua emblematica bidimensionalità e sulla presenza dell’oro nella sua età matura della creazione. Due sono i pregi enormi di questa mostra: il primo l’ho appena accennato, la costruzione della Mitteleuropa artistica partendo anche da Venezia e Ravenna, il secondo sta nell’enorme quantità di opere quadri, sculture, ceramiche, vetro, merletti provenienti da collezioni private, alcuni anche dalla collezione Cavallini Sgarbi, opere mai viste prima in una mostra e che soltanto in questa occasione si possono ammirare da vicino. Soprattutto i pannelli La vita e l’animazione dei prati di Galileo Chini impressionano per l’assomiglianza con le opere di Klimt nelle ampie dimensioni ma molto singolari nella dichiarazione d’amore esplicita fatta alla murina veneziana, la sfera di vetro colorato a forma di rosa, una matrice che compone lo sfondo, dal paesaggio alle vesti. Chini è un vero dissidente della biennale, appassionatissimo dell’estremo Oriente dove fu invitato dal re Rama V a Bangkok tra il 1911 e il 1913. Il re di Siam aveva ammirato le opere di Chini alla Biennale del 1910 e lo invitò per realizzare le decorazioni della Sala del Trono del palazzo realizzato da architetti e ingegneri italiani. La ceramica di Chini rimane forse la migliore del Liberty italiano, molto dispersa tra le collezioni private, maiolica dipinta da un vero alchimista della materia.
L’altro grande rappresentante della Liberty italiana è Vittorio Zecchin, veneziano di nome e di fatto, poliedrico, instancabile artista in cerca dello stupore della luce espressa attraverso tantissimi materiali. Alla base della lezione di Zecchin sta sempre la murina di vetro veneziana, dipinta, ricamata in La Fede, arazzo in seta ricamata con fili policromi a piccolo e grande punto e «punto Zecchin», presente alla mostra per gentile concessione della Galleria Daniela Balzaretti, Milano. Il vetro permette a Zecchin di declinare al meglio in varie sfumature la sua immensa gioia di decorare. Nella mostra un’intera isola dei vasi di Murano realizzati da Zecchin dà ancora meglio la descrizione di quello che fu il Liberty, il tripudio decorativo per eccellenza. Zecchin si era cimentato anche nell’arte del merletto di Burano, dato che è l’isola veneziana dove il merletto la fa da padrone. La stella della sera del 1919 circa, ricamo su mussola della collezione privata, è una tela di uno splendido ragno della memoria. Le tre principesse raffigurate portano sul capo una stella come un destino già scritto. Pittore visionario, abbandona l’Accademia di Belle Arte veneziana non laureandosi, perché in contraddizione con l’insegnamento del vecchio stile, per fare l’impiegato e poi il direttore della vetreria Cappelli-Venini. Con Vittorio Zecchin la decorazione è al punto più alto e raffinato e soltanto così, attraverso le arti decorative, si può capire l’Arte Nouveau, il Liberty o la Secessione che dir si voglia.
E passiamo infine al «Klimt della scultura», Adolfo Wildt. Di origini svizzere, ma con antenati stabiliti da due secoli a Milano, Adolfo Wildt ha un’opera che si caratterizza attraverso una drammaticità espressionistica di alcune opere tra le quali proprio Il dolore, una vera maschera della tragedia umana. La nota distintiva di Wildt è la levigatezza e trasparenza delle sue opere marmoree, ottenute con l’aiuto di tecniche grezze a volte anche ripugnanti, come l’uso della lavorazione del marmo patinato con lo sterco di cavallo oppure bagnando la pietra con l’urina per poter ottenere alcuni effetti di trasparenza o colore. Oltre a questa sapienza primordiale da scalpellino, Wildt usa l’oro, tributo al suo passato da garzone d’oreficeria, come nella Concezione presenta nella mostra, dove il padre e la madre sono bassorilievi in marmo, ma il bambino ha la patina dell’oro, per marcare ancor di più la nobiltà della vita.
Oro, sempre presente nell’Art Nouveau, oro come nei tasselli dorati della Cattedrale di San Marco a Venezia, l’oro delle stelle sul fondo blu della basilica di Galla Placidia a Ravenna ripresa in una variante meno pregiata da Giotto nel medioevo nella Cappella degli Scrovegni a Padova e riproposto con lo sfarzo da Klimt, oro del fondale della icona bizantina custodita con gelosia a Venezia, la Nicopeia, l’operatrice di vittoria, alla quale s’inchinavano i comandanti delle navi veneziane prima della guerra, l’oro delle vesti delle martiri e dei martiri schierati, come in un bassorilievo nella chiesa di Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna, l’oro simbolo del potere e regalità, della religione e della bellezza, l’oro giallo come il fogliame del padiglione della Grande Esposizione di Vienna, il marchio della Secessione del finis Austriae e del Decadentismo e  del Liberty.
Il MART di Rovereto è di per sé un museo fatto per custodire una specie di spiritus loci che ha diverse sfaccettature: come accennato prima, è stato costruito da Mario Botta, uno dei migliori discepoli del grande architetto veneziano Carlo Scarpa. In comune hanno la stessa filosofia: il rispetto dei materiali e a loro volta il rispetto dei materiali tra di loro: la mancorrente di legno è fatto da blocchi distaccati tra di loro e uniti solo da un tubo di acciaio, la scala non tocca a sua volta il muro che accompagna, facilitando  l’accesso ai piani superiori senza poggiare su di essi, la luce è guidata dall’alto tramite i valichi verticali e orizzontali che disegnano la piazza ellittica davanti al museo o tramite le feritoie moderne degli stessi spicchi che guardano le montagne intorno come spioncini verso la Natura. Cemento, vetro, legno e acciaio. Quattro materiali come quattro elementi primordiali. La Natura come palcoscenico da ammirare, il museo dai passaggi aperti tra i piani, degna lezione di Frank Lloyd Wright e il suo di Museo newyorchese, quello di Samuel Guggenheim. In questo bellissimo involucro si trova al sicuro il più grande archivio dell’avanguardia italiana. In più una biblioteca nel sottosuolo e una collezione permanente che contiene opere importantissime, pezzi rari dei supplici di Medardo Rosso e uno dei più bei nudi dell’Ottocento, La Venere con le colombe di Francesco Hayez, grande allievo a sua volta del veneto Antonio Canova e moltissima arte appartenente al realismo magico degli anni del periodo interbellico. A due passi dal museo si trova la casa-atelier di Fortunato Depero, un’antica bottega medievale addebita a spazio creativo per il grande avanguardista, pubblicitario e designer trentino. 
È domenica. Fuori, per le strade, la fiera delle bike e tutto quello che ruota intorno a loro: equipaggiamento, stile di vita, camper, persino con un occhio di riguardo ai mezzi adatti alle persone diversamente abili. E tanta bella gente con la gioia di vivere, intere comitive che sfrecciavano per il centro della città in bici, dal piccolino che sbatteva i piedini alla velocità di una farfalla sulle sue due ruote per tenere il passo con i grandi, al nonno con tanto di cartello che recita «no al terrorismo!», al capogruppo con tanto di fischietto per guidare la biciclettata che correva come una saetta per la città. Accanto alla vecchia osteria odorante di crauti e di salsicce e la pasticceria con i deliziosi «moretti», un bignè fatto di pandispagna, crema e una solida corazza di cioccolato fondente. D’altronde siamo nella terra della torta al cioccolato, la Sacher, il meraviglioso dolce viennese. Il MART è il primo museo che si è fatto creare un bombon al cioccolato artigianale e la cioccolateria che lo distribuisce ha un negozio con tanto di degustazione nei pressi del museo. Un lettore non abituato alla cultura trentina non capirebbe l’accostamento tra arte, cibo e territorio, invece qui, in Trentino, la gente l’ha capito da un bel po’ e di tutto questo ne ha fatto uno stile di vita e un marchio turistico tra i più apprezzati al mondo. Perché cultura non è solo con quella con la «C» maiuscola, ma anche la cultura enogastronomica, la cultura dello sport in generale, del corpo che sfida i cucuzzoli delle montagne intorno in bici, la cultura della sostenibilità e del rispetto per il territorio. L’aria buona mi invogliava a girovagare per le viuzze e le contrade strette del borgo medievale, tra un’edicola adibita allo scambio dei libri a prezzo zero e le vetrine con i prodotti biologici, tra la libreria per i bimbi con favolose storie e i negozi con vetrine decorate con citazioni artigianali. In un istante la mia mente è volata al ricordo della mia Patria natia: Rovereto è anche la sede della casa editrice Keller di quel geniale Roberto Keller che stampò in soltanto mille esemplari un libro che portò una signora tedesca della Romania a ricevere niente po’ po’ di meno che  il premio Nobel per la letteratura, la favolosa Herta Müller, scrittrice che narra in un tedesco ammirevole le storie della dittatura di Ceauṣescu che ha conosciuto «sulla propria pelle», come si suol dire: Il paese delle prugne verdi, L’altalena del respiro sono solo due dei titoli che hanno reso celebre la signora nata a Nitzkydolf, vicino a Timiṣoara. E che libri!
Questo è il Trentino, una terra di confine, della multiculturalità, la terra dei tre popoli: italiano, tedesco e ladino. Finisco con una confessione: ogni volta che vengo in Trentino ricordo la mia giovinezza, quando partecipavo come studentessa della facoltà di storia di Bucarest agli scavi archeologici condotti dal mio grandissimo Maestro, l’archeologo Radu Popa, con il quale scavavamo a Feldioara (Marienburg) nella Terra dei Sassoni, in un angolo dei Carpazi. Come premio di fine settimana, ci si imbarcava in un bus noleggiato e si visitavano i monumenti intorno, monumenti che appartenevano alla minoranza tedesca della Romania, minoranza che aveva vissuto lì per circa 800 anni e che dovette emigrare sotto la pressione della Dittatura dei famigerati anni ‘80. Gente brava e laboriosa, gente che non c’è più ormai, ma che aveva lasciato case, chiese, fortezze, monumenti e un pezzo della propria vita. Una lumaca che aveva lasciato lì la conchiglia. Il professor Popa parlava solo con qualche vecchio che non voleva andarsene in Germania, non in tedesco, ma in un dialetto sassone del sedicesimo secolo. Con i custodi il professor Popa parlava in magiaro e ci traduceva a noi in romeno. Tre lingue, tre popoli, tre storie della Transilvania: romeno, magiaro e tedesco. Dell’ultimo è rimasta solo la memoria, il racconto e pochissima gente. In Trentino i tre popoli sono ancora presenti fortunatamente. Almeno qui la Cortina di Ferro era caduta un po’ più in là a Gorizia e oltre Trieste. E meno male. Chiudo gli occhi appisolandomi sulla sedia del tavolo all’aperto della pasticceria bar, sorseggiando un buon cappuccino accompagnato da un «moretto» e sento parlare in tedesco al tavolo accanto e nell’italiano chiassoso dei ciclisti della comitiva. Apro gli occhi e vedo la Montagna indistruttibile, misteriosa e sacra, che domina Rovereto come una sentinella, qui sul valico tra Nord e Sud, tra una cultura e l’altra, tra una mostra su Klimt e l’arte italiana, sulla Mitteleuropa e le sue radici nell’oro dei bizantini della Romagna (terra dei romanoi, cioè dei bizantini), nella Venezia della decadenza e il Vittoriale degli italiani, ultima residenza di D’Annunzio da dove provengono alcune opere della mostra. Il dolce far niente, l’oziare riflettendo mi avvolge piano piano, dolcemente. La musica riparte con il treno per Verona e da lì a Padova, a casa mia. Spero di avervi invogliato con questa cronaca di un pomeriggio di maggio a rivedere alcune opere Jugendstil che sono dappertutto, a Vienna come a Rovereto, a Bucarest come a Timiṣoara, dovunque l’Impero di Mezzo ha esteso le sue ampie ali. In definitiva siamo figli della stessa Patria. E la nostra Patria è, si spera sempre, con le radici nella cultura.



Giuditta II, Musei Civici di Venezia, Galleria Internazionale d’Arte Moderna Ca’ Pesaro, 176x46 cm, olio su tela, 1909



Le tre età della donna, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Roma, 180x180 cm, olio su tela, 1905


Galileo Chini, La vita e l’animazione dei prati, 1914, tempera, olio e oro su tela, 400 x 200 cm,
collezione privata, già collezione Luchino Visconti


Galileo Chini, Cache-pot con tulipani, maiolica, pittura su ceramica, 17x22,5x0, 1918, collezione privata

 


Zecchin, La fede, arazzo in seta ricamata con fili policromi a «punto Zecchin» per gentile concessione della Galleria Daniela Balzaretti, Milano


Vittorio Zecchin, vaso in vetro di Murano, vetreria Cappellin e Venini, 1921, Galleria Wolfsoniana, Genova


Vittorio Zecchin, Tre donne, disegno su cartone, 1919 circa


Adolfo Wildt, La concezione, altorilievo di marmo bambino dorato, 58 cm



Gustav Klimt, Ritratto di Adele Bloch-Bauer I, 1907, 138 x 138 cm, olio su tela, New York, Neue Galerie



Liana Corina Tucu
(n. 7-8, luglio-agosto 2023, anno XIII)