A Rovigo, la prima mostra italiana dedicata a Vilhelm Hammershøi

Dal 21 febbraio al 29 giugno 2025 a Rovigo a Palazzo Roverella si tiene la prima mostra italiana dedicata a Vilhelm Hammershøi (Copenaghen, 1864-1916), il più grande pittore danese della propria epoca, uno dei geni dell’arte europea tra fine Ottocento e inizio Novecento - Hammershøi e i pittori del silenzio tra il nord Europa e l’Italia. La mostra è stata promossa dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo ed è curata da Paolo Bolpagni e rappresenta la prima esposizione italiana dedicata al genio danese della pittura e nel 2025, anche l’unica a livello internazionale. L’iniziativa si inserisce in un momento di grande riscoperta del pittore danese. Alla Sotheby’s, nel 2012, il quadro Ida mentre legge una lettera è stato venduto, scrive Caterina Angelucci in «Artribune», per 1.721.250 sterline, un vero record e nello stesso giorno sempre da Sotheby’s sono state vendute altre due opere, Interno con due candele e Ida in interno. E non finisce qui, nel 2018, all’asta di arte europea di Christie’sdi New York il Getty Museum ha comprato il dipinto Interno con Cavalletto, Strada larga 25 del 1912 per una somma di 5.037.500 dollari.
Sull’onda di questo revival, la città di Rovigo ha riunito le sue intere forze per promuovere la mostra: la Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo, in collaborazione con il Comune di Rovigo e l’Accademia dei Concordi, con il sostegno di Intesa Sanpaolo e il patrocinio dell’Ambasciata di Danimarca in Italia. Il catalogo della mostra è edito da Dario Cimorelli Editore ed è a cura di Paolo Bolpagni.
In questo modo sono arrivati a Rovigo le opere da svariati musei e privati. In passato sono state dedicate al grande pittore importanti mostre realizzate a Parigi al Musée Jacquemart-André, a Tokyo al National Museum of Western Art, a New York alla Scandinavia House, a Londra alla Royal Academy, a Monaco di Baviera alla Kunsthalle der Hypo-Kulturstifung, a Toronto alla Art Gallery of Ontario, a Barcellona al Centre de Cultura Contemporània, a Cracovia al Muzeum Narodowe. Mancava una retrospettiva italiana della pittura di Hammershøi, che fu uno dei protagonisti dell’arte di fine Ottocento e dei primi anni del XX secolo. La grande mostra rodigina colma quindi con questo evento tale lacuna. La selezione di Paolo Bolpagni ha il merito di riempire la rarefatta produzione dell’artista con un centinaio di quadri che rappresentano il contesto nel quale nasce il pittore danese che fu allievo di Niels Christian Kierkegaard e di Holger Grønvold, di Frederik Vermehren all’Accademia Reale dell’Arte Danese Kongelige Danske Kunstakademi, e di Peder Severin Krøyer ma anche quadri di coloro che seguirono i temi prediletti dall’artista danese.  
Prima di tutto si nota l’influenza dei pittori della scuola olandese dei Seicento che il pittore scoprì dopo il viaggio nella primavera del 1887, a solo 23 anni nei Paesi Bassi. Dagli olandesi prese l’atmosfera intimista dei loro quadri, l’area sospesa che gira nei spazi dipinti dei banalissimi interni domestici, la solitudine delle donne addette ai lavori o alla lettura di missive misteriose, dove il dialogo è taciuto e ancor di più c’incuriosisce e affascina. Il pittore danese fu maggiormente influenzato dalla Scuola dell’Aja e da Jan Jacob Schenkel e i suoi interni delle chiese vuote.
Come tanti artisti ebbe un fratello più piccolo, Svend, pittore e rinomato ceramista. Fu un enfant prodige e a solo otto anni incominciò a disegnare e la famiglia borghese benestante lo avviò ai corsi dell’Accademia Reale nell’ottobre del 1879. Debutterà nel 1885. I mezzi non gli mancarono e viaggiò moltissimo. Il suo peregrinare continuò e l’Italia, come il Belgio e la Francia, fungeranno da spunto per i suoi paesaggi «delle città morte» che non sono altro che «paesaggi dell’anima». Le opere sui viaggi erano a Venezia, a Verona, Roma, a Firenze, Siena, Fiesole e Bologna, a Napoli, Paestum e Salerno e di nuovo al Nord, anche a Padova. Le sue opere saranno presenti alla Biennale dove è presente sia nel 1903 che nel 1932 e all’Esposizione Internazionale di Roma del 1911, Vilhelm Hammershøi è finalmente «ritornato» in Italia attraverso le sue opere esposte nella mostra di Rovigo.
Vilhelm Hammershøi è però una persona piena di problemi; anche il suo matrimonio con Ida Ilsted non fu tutto rose e fiori, perché la moglie fu affetta da una grave malattia mentale. Il quadro che rappresenta la moglie è un capolavoro e arriva da Copenaghen da Statens Museum for Kunst. Lei è seduta e vestita molto semplice, da protestante, con un cappello in testa nero dal bordo ridotto e adornato da una penna bianca. Gli occhi azzurri sono un po’ assenti, la giacchetta color marrone chiaro  con i bottoni neri, geometrici è aperta  e lascia vedere posati sulla gonna dell’abito nero due pugni rinchiusi e al dito l’anello da promessa sposa. Il gesto dei pugni stretti è inconsueto e denuncia la malattia che ne seguirà. Le pennellate sono piccole e brillanti come un tessuto in velluto, i colori sono pochissimi, lo sfondo è neutro e la figura è risaltata da tutto ciò che la circonda.
Hammershøi farà scuola e la sua lezione sarà condivisa da altri artisti affascinati dall’attrazione per il silenzio, per la solitudine e l’introspezione. Interno. Strada larga 30, che arriva da una collezione privata di Philadelphia, scelto come logo del biglietto della mostra, rappresenta una donna che, in secondo piano, sta spazzando il pavimento con una scopa. Ha i capelli raccolti, un grembiule bianco sopra un vestito scuro adornato solo da un colletto immacolato. Si vede la sua figura inquadrata dallo stipite della porta di un presunto soggiorno visto come in un taglio cinematografico ante litteram, dove a sinistra c’è una sedia e a destra una credenza dipinta a metà e un quadro che sovrasta questo mobile dal disegno semplice in radica di noce. L’atmosfera è pesante, «nevrastenica» e ha ispirato nel periodo interbellico il regista Carl Theodor Dreyer, che ha trovato in Hammershøi un’ispirazione per il suo cinema.
Tagli cinematografici che, anche per questo motivo, mi fanno vedere nell’opera di Vilhelm Hammershøi tanti legami con un  pittore americano che gli succederà – Edward Hoper, artista di riferimento per  Alfred Hitchcock nella pellicola Psycho. Se Psycho divenne poi un capolavoro, questo successe anche in virtù del fatto che si tratta di una pellicola caratterizzata da una forte componente fotografica. 
Come Hopper, anche Hammershøi è noto per i suoi dipinti di ambienti domestici apparentemente tranquilli, ma che lasciano in realtà presagire drammi segreti, come in attesa di una tragedia incombente, interni dalle porte socchiuse, con finestre di luce proiettate sui muri che danno un senso di claustrofobia. Le sue figure femminili sono spesso ritratte di spalle ed evocano un senso di isolamento, attesa e tensione. I suoi «paesaggi dell’anima» e le vedute cittadine deserte rappresentano una poetica del silenzio e della solitudine, sempre immersi in un’area ovattata e onirica, un’atmosfera sospesa tra serenità geometrica riprodotta con una paletta di pochissimi colori smozzati ma che trasmette l’angoscia.

La vita dell’artista è essa stessa insolita. Pur avendo viaggiato in diversi paesi europei, tra cui l’Italia, l’Inghilterra e i Paesi Bassi, Hammershøi rimase sempre una figura solitaria, legata profondamente alla propria famiglia, alla madre, a cui tornò vicino anche dopo il matrimonio con sua moglie, Ida Ilsted, che spesso posò per lui come modella. Nella mostra c’è un quadro dove è rappresentata magnificamente nella sua di solitudine causata dalla malattia mentale, sorpresa di spalle in un tondo dove in primo piano c’è lui, l’Artista come un qualunque borghese, con i baffi e la giacca tenendo sottobraccio una cartella con i disegni e guardandoci dritti negli occhi interrogandoci oltre il secolo, breve ma intenso, che ne seguì. E da buona scuola olandese ecco il Doppio ritratto dell’artista e della moglie visti attraverso uno specchio che altro non è che una eco degli sposi Arnolfini di Jan van Eyck.
La solitudine più profonda rimane quella dell’artista che guarda la bellezza che gli dà le spalle. Nella mostra c’è un quadro ad olio, intitolato Riposo, che arriva da Parigi, dal Musée d’Orsay acquisito con la partecipazione di Philippe Meyer, in cui è dipinta una donna di spalle. Il quadro farà scuola in Italia e Oscar Chiglia lo emula nella sua Ida di spalle al pianoforte del 1917-1918, olio su tela, collezione privata.  
E poi il tema del viaggio. Hammershøi viaggiò spesso – soprattutto tra Italia, Inghilterra e Paesi Bassi – ma mantenne sempre uno stretto legame, quasi simbiotico, con la madre. «La mostra di Palazzo Roverella, tuttavia, non si propone semplicemente di offrire al pubblico del Bel Paese un’occasione per conoscere più da vicino le opere di un pittore straordinario, riconoscibile per l’intimismo minimalista dei suoi interni e per l’atmosfera inquieta che si sprigiona da un apparente rigorismo, ma di scandagliare filoni di ricerca rimasti finora pressoché inesplorati: da una parte il rapporto tra Hammershøi e l’Italia. Il ridotto numero delle opere che il pittore danese ci ha lasciato (una ventina presenti nella mostra) è controbilanciato dalla presenza di opere di artisti europei che hanno rappresentato il tema della solitudine, delle ‘città morte’, dei ‘paesaggi dell’anima’. “I francesi Émile-René Ménard, Henri Duhem, Lucien Lévy-Dhurmer, Charles-Marie Dulac, Henri-Eugène Le Sidaner, Charles Lacoste e Alphonse Osbert, i belgi Fernand Khnopff, Georges Le Brun, Xavier Mellery, Charles Mertens e William Degouve de Nuncques, gli olandesi Jozef Israëls, Johan Hendrik Weissenbruch, Jan Jacob Schenkel e Bernard Blommers, lo svizzero Eugène Grasset, la svedese Tyra Kleen, i danesi Peter Vilhelm Ilsted, Carl Holsøe e Svend Hammershøi.Non mancano gli italiani: Umberto Prencipe, Giuseppe Ar, Oscar Ghiglia, Vittore Grubicy de Dragon, Mario de Maria, Giulio Aristide Sartorio, Vittorio Grassi, Orazio Amato, Umberto Moggioli, Domenico Baccarini, Giuseppe Ugonia, Francesco Vitalini, Mario Reviglione, Pio Bottoni, Enrico Coleman, Napoleone Parisani, Raoul Dal Molin Ferenzona e Onorato Carlandi”, anticipa il curatore.
«Hammershøi – sottolinea Paolo Bolpagni – viaggiò varie volte nella Penisola, visitò Roma, collezionò cartoline con vedute di città, e soprattutto rifletté sull’antichità classica e guardò ai cosiddetti Primitivi e agli artisti del nostro Quattrocento: Giotto, Beato Angelico, Masolino, Masaccio, Luca Signorelli, Desiderio da Settignano. Benché abbia dipinto una sola opera di soggetto italiano (che sarà in mostra), durante le proprie permanenze esercitò un’attenzione estrema e recepì spunti e insegnamenti, che contribuirono a delineare il suo personalissimo linguaggio. Non bisogna del resto ignorare il ruolo che il canonico soggiorno a Roma rivestiva». Per la prima volta – anticipa il curatore – sarà approfondito il legame di  Hammershøi con l’Italia: «dalle ricadute iconografiche (per esempio con la sua raffigurazione della basilica di Santo Stefano Rotondo al Celio, visitata nella capitale) alla presenza di lavori dell’artista in mostre dell’epoca, per concentrarsi in special modo sugli accostamenti e confronti con la poetica e i soggetti di pittori italiani, anche con l’indagine dell’impatto che la visione diretta o la conoscenza in riproduzione di opere di Hammershøi esercitò fino agli anni quaranta del Novecento». Personalmente ho trovato questo quadro una lezione dell’economia dei colori che il pittore utilizza, ma anche il totale disinteresse per il barocco visibile dalle poche pennellate con le quali accenna la presenza dei quadri del genere. Esce in rilievo il mondo geometrico dell’interno scandito dalle colonne e la gamma brevissima delle nuance.
Al termine del percorso, al piano terra troviamo un omaggio a Hammershøi da parte di uno dei più interessanti fotografi contemporanei, lo spagnolo Andrés Gallego. Il catalogo della mostra è edito da Dario Cimorelli Editore (che gestisce anche la segreteria organizzativa della mostra), è colmo di saggi originali del curatore Paolo Bolpagni e di Claudia Cieri Via, Luca Esposito, Francesco Parisi e Annette Rosenvold Hvidt.
La solitudine, la malattia nevrotica, la borghesia in fuga verso paesaggi che hanno a loro volta la solitudine espressa nell’assenza, l’inettitudine dell’uomo davanti alla società, al Divino, saranno i temi non soltanto della pittura di fine Ottocento e dei primi anni del XX secolo fino allo scoppio della Grande Guerra, ma anche della letteratura. Basta pensare a Luigi Pirandello, al suo metateatro, al teatro dell’assurdo, alla moglie impazzita, per ritrovare valenze italiane e letterarie nell’opera di Vilhelm Hammershøi e del silenzio del Nord e dell’Italia.
Come direbbe Eugenio Montale in Ossi di seppia:

«Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
Perduto in mezzo a un polveroso prato.
Ah l’uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l’ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!»

Ci basta l’immagine di Vilhelm Hammershøi per capire la solitudine dei tempi moderni.

Per maggiori informazioni si segua www.palazzoroverella.com


Liana Corina Țucu
(n. 4, aprile 2025 anno XV)