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Vittore Carpaccio, un pittore amante del multietnico a priori
Vittore Carpaccio, Dipinti e disegni è la mostra aperta tra il 18 marzo e il 18 giugno 2023 al primo piano di Palazzo Ducale a Venezia, mostra organizzata dalla Fondazione Musei Civici di Venezia in collaborazione con la National Gallery of Art di Washington e curata da Petre Humfrey insieme ad Andrea Bellieni e Gretchen Hirschauer. Il catalogo è edito dalla casa editrice veneziana Marsilio Arte, guidata dalla famiglia De Michelis. La mostra mi era stata segnalata dall’amico Lauro Grassi, un instancabile lettore di riviste, libri, quotidiani e chi ne ha più ne metta. E così, incuriosita dalla pubblicità fata dall’amico, ma soprattutto dalla mia ammirazione per i quadri del ciclo di Sant’Orsola della Galleria dell’Accademia a Venezia, mi sono messa in fila in un giorno di fine aprile per vedere la mostra. Nella fila parallela era allestito il corridoio per i gruppi. Con immensa gioia sento dei ragazzi parlare in romeno, gli chiedo da dove vengono, mi dicono da Reṣiţa e tra una cortesia e l’altra, tocca anche a me il turno per entrare. Prendo il biglietto e salgo le scale di Palazzo Ducale. In fondo al loggiato l’indicazione – Mostra Carpaccio. Mi scappa da ridere; tra me e me mi viene la battuta: “inteso come pittore e non come carne cruda”, pensando al famoso Harry’s Bar e ad Arrigo Cipriani che ha inventato, come tributo all’arte della città, l’antipasto di carne cruda chiamato Carpaccio e la bibita Bellini, bar che si trova proprio nelle vicinanze di piazza San Marco. Entro “ed è subito sera”, come direbbe Quasimodo con il suo ermetico verso. Nella prima nicchia le due parti del quadro della caccia in laguna in alto e in basso, delle dame veneziane che la seguono da lontano. Fu l’intuizione geniale di un critico d’arte italiano, Ludovico Rigghianti, che nel 1963 vedendo la parte superiore del quadro con la scena di caccia in laguna capì dal dettaglio del giglio, che quel gambo reciso era innaturale e si ricordò che a Venezia, all’Accademia, c’era un altro quadro con le stesse dimensioni che aveva nella medesima parte dell’immagine un giglio tagliato a metà. Ricomponendo il puzzle del giglio presente nei due quadri, quello dal titolo romantico delle «Cortigiane» e quello di «La caccia in laguna», oggi al Getty Museum di Los Angeles, si concluse un’operazione degna di un racconto giallo, spirito che non può mancare a nessun serio critico e storico dell’arte, in quanto che le opere artistiche sono collegate tra di loro da una narrazione non più letteraria, bensì visiva. Per la prima volta, dopo centinaia d’anni da quando il gambo del giglio fu reciso per ragioni sconosciute, il fiore è ricongiunto accostando i due quadri e l’immagine si ricompone davanti ai miei occhi e prende nuovi significati. Le dame annoiate e fedeli, come ci indicano in modo simbolico gli animali, i cani e i fiori, il giglio stesso, sono sedute nella loggia di un palazzo veneziano; in lontananza i mariti sono a caccia di uccelli, gli «osei» come dicono ancora oggi i veneti. In lontananza le palafitte, i casoni di paglia a sinistra e le cime dei colli Euganei vicini a Padova in alto a destra; uno stormo di anatre spaventate prende il volo in forma di «V», come Vittorio Carpatius, che amava firmarsi alla latina, Carpaccio all’italiana. Le dame sono di una rarissima eleganza, con abiti alla veneziana della fine del Quattrocento, con acconciature dallo chignon alto dal quale escono ribelli alcune ciocche rossicce, ricche e accattivanti. In un angolo gli zoccoli alti, alla moda, sembrano aver coccolato minuscoli piedi di una geisha. Scene naturalistiche con un cane giocherellone che tira un bastone e calpesta con incuria una lettera, lettera che, a sua volta, rimanda al retro del quadro dove, con l’effetto dell’inganno dell’occhio, sono stese sul bastone diverse altre lettere, lasciate lì come un mezzo di comunicazione elegante e segreto che deve essere scoperto. Nel quadro, dietro, sulla parte laterale di destra, sono visibili tracce lasciate da cerniere di un armadio, ciò significa che il quadro era parte di un dittico, dove il corpo del cane continuava come in un raffinato gioco sulla seconda anta. Questo quadro fu tagliato a metà da mani voraci imperiali, che entrò in proprietà del cardinale francese Joseph Fesch, zio materno di Napoleone Bonaparte, passando poi per quelle di altri collezionisti, ed è un’incantevole poesia, con la scena così intima, delle donne in attesa dei mariti sulla loggia e così esterna, paesaggistica, con la caccia degli uccelli acquatici, vista come un passatempo di un mondo bucolico e felice. Non passano inosservati i due «moretti» che nei quadri veneziani e alla Serenissima erano sempre di casa. Oggi lo chiamiamo un elemento multietnico, allora era la normalità delle relazioni commerciali e diplomatiche dell’aristocratica Repubblica veneziana. L’unico che ci guarda dritti in faccia è il cagnolino bianco che la dama tiene per le zampette e che si gira verso di noi con le orecchie dritte come a indicare l’arrivo di un inaspettato intruso.
E passiamo al «San Giorgio» dell’Abazia omonima. Il metallo della corazza ricorda i fiamminghi, ma anche il giovane Giorgione della Palla di Castelfranco. In basso, le piccole scene sono un riassunto dei filosofi di Giorgione negli abiti orientaleggianti, ma ricordano assai Piero della Francesca e la sua Flagellazione così enigmatica. Il paesaggio è la prova di chi ha imparato sui colori della prospettiva dai fiorentini, il secondo piano è animato da folle che non ci riguardano, prese nel loro formicolare del vivere in un altro tempo diverso dal nostro. L’unica che ci guarda da dietro un tronco, spiando, è una donna, forse la principessa, che è testimone della crudele scena in primo piano, con il santo visto di profillo come in un bassorilievo, con il drago troppo fantasioso, uscito da un mondo tedesco che di draghi e di diavoli era ben esperto nel raffigurarli e con i brandelli dei vinti ancora giacenti per terra, con le teste viste quasi in orizzontale, che ci ricordano la resurrezione di Mantegna e prima quella di Giotto della Capella degli Scrovegni. Carpaccio è un manuale delle cose viste prima di lui, un’enciclopedia dell’arte nell’arte; e ne ha viste molte.
Proseguiamo ancora con la «Madonna che legge» (1510 circa), della Washington, National Gallery of Art, Samuel H. Kress Collection. Una donna è seduta su uno scrigno rivolta verso sinistra, da dove s’intravede un bel cuscino con eleganti nappe. Lei ha la testa coperta con una specie di foulard annodato sulla fronte e un velo trasparente che gli copre le bianche spalle. Legge un libro stampato a Venezia forse, un’edizione di lusso, magari quella del cardinal Pietro Bembo curata da Aldo Manuzio, il famosissimo Canzoniere di Petrarca. Ai lati due alberi, quasi due colonne, uno scarno a simboleggiare la vecchiaia, l’altro rigoglioso e verdeggiante. E in lontananza un golfo con una bianca chiesa con la torre campanaria, alta, alla veneta; il resto è favola, sogno e dolci acque. Lo stipite sul quale è seduta la donna fa da cornice dentro il quadro, un pochino come si osava nei ritratti rinascimentali italiani e in quelli di Hans Memling, che passò per Venezia.
«La fuga in Egitto» richiama molto i fiamminghi nella composizione, nei gesti e pure nei polacchini calzati da Giuseppe, nei fiori da erbario delle Fiandre in primo piano, ma è molto veneziana nell’abito della Vergine, coperta da un damasco blu e oro veneziano, che soltanto Carpaccio poteva «pubblicizzare». All’orizzonte un sole tramonta sullo sfondo di un cielo veneto, rosso-giallo, come nelle uggiose serate di novembre quando a Venezia fa freddo.
I ritratti sono tutti di forte impatto rinascimentale. Quello ufficiale, del potente doge Leonardo Loredan, con il corno doganale ben saldo in testa, dalla stessa seta sgargiante damascata, ormai marchio di fabbrica di Carpaccio. Sullo sfondo, quello che il doge vedeva ogni giorno dal palazzo nella realtà, l’isola di San Giorgio. Segue un ritratto di dama, che arriva da Denver, presunta famosissima poetessa veneziana che aveva lodato in verità Carpaccio, ma di cui non abbiamo nessuna certezza se non le perle sull’orlo della blusa e lo sguardo fiero, il mento ammorbidito dal benessere di dama agiata e colta e il libro appena chiuso, su cui sta riflettendo pensierosa.
Carpaccio fu un pittore di santi come tutti all’epoca come è testimoniato dalla palla della Madonna con il bambino e i sei santi dell’Antoniano di Padova. Scena canonica ma anche qui, come dovunque, la citazione, in questo caso degli angeli musicisti di Mantegna, illustre padovano.
Se ripasso con la mente i quadri della mostra, mi ritornano in mente due delle particolarità della pittura di Carpaccio. In primis che è un pittore «multietnico», a volte con il gusto dell’esotico come direbbero i postumi dell’Ottocento. C’è sempre un moretto nei suoi quadri, ma anche un vecchio saggio ebreo, un arabo oppure un turco dai paffuti turbanti, un qualcosa che arriva da lontano, come le sete coloratissime, come i tessuti pregiati, ma soprattutto come i tappeti. In secondo luogo, sono questi tappeti, che testimoniano la via della seta, e provengono da Shiraz e dalla lontana Persia, da Kandahar, ma anche dalla vicina Asia Minore, da Bukhara. Tutti segni dei rapporti commerciali che Venezia intratteneva con il Mondo intero e che i suoi pittori sfoggiavano nei loro quadri pieni dello spirito del tempo, dei profumi e degli odori della variegata Serenissima.
Un mondo dove l’Oriente incontrava l’Occidente, senza paura e senza rancore, dove si dialogava sul commercio e sulla politica, sulla cultura e sull’arte, sotto lo stendardo del Leone de Mar e de Terra, simbolo di San Marco, evangelista dei popoli.
La mostra è bellissima. Poco il tempo per vederla, soltanto alcuni mesi, con i quadri da oltre oceano e da collezioni inglesi, francesi e tedesche che, altrimenti, necessiterebbero di appositi viaggi, ma con un apparato didascalico piazzato al livello di un nano di corte e non «all’altezza» del visitatore d’oggi. Piccolo scompiglio che non scoraggia il visitatore nell’impresa. Esco dalla mostra, scendendo la scala monumentale che portava al doge e al Gran Consiglio, con ancora negli occhi le immagini dei quadri di Carpaccio, con le stoffe damascate, con il rumore della folla che sfilava come sul palcoscenico del Mondo, con le facce bianche, nere e olivastre dei popoli a Venezia, con l’odore dei loro profumi e il luccichio dei loro vestiti, ampi, esagerati, leggeri e opulenti, i loro copricapo da «servizio». E ancor una volta riemergo nella folla dei popoli d’oggi, che calpestano le calli e marciano spesso ignari di tanta bellezza alla ricerca dei selfie e con la testa altrove e mi ritengo una privilegiata perché, nel tempo, mi sono costruita questi occhiali dell’arte che mi procurano tanta gioia e mi permettono di vedere la vera bellezza. Ed è subito sera sulla laguna, mi affretto a tornare a casa lasciando il palazzo senza un calesse, con passi frettolosi sulle calli, per uscire dal grande quadro vivente che era la Venezia di Carpaccio e che rimane tutt’ora un quadro.
Vittore Carpaccio, Due dame veneziane, 1490-95,
tempera e olio su tavola, 94x64 cm, Venezia, Museo Correr
Vittore Carpaccio, Caccia in laguna, 1490-95,
tempera e olio su tavola, 75.4x63.8 cm, Los Angeles, J. Paul Getty
Vittore Carpaccio, Leonardo Loredan,
olio su tavola, 67 cmx 61 cm, Palazzo Ducale, Venezia
Vittore Carpaccio, Ritratto di Dama con un libro, 1495 ca.,
olio su tela, 39.3x28.8 cm, Denver Art Museum
Vittore Carpaccio,«Madonna che legge» (1510 ca.),
Washington, National Gallery of Art, Samuel H. Kress Collection
Vittore Carpaccio, Madonna con il bambino e sei santi, Museo Antoniano di Padova
Vittore Carpaccio, Fuga in Egitto, tempera su tavola (73x111 cm), databile al 1500-1510 circa , National Gallery of Art di Washington
Vittore Carpaccio, San Giorgio e il drago, firmata e datata 1516, Abbazia di San Giorgio Maggiore. Sala del conclave
Liana Corina Tucu
(n. 6, giugno 2023, anno XIII)
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