A Padova, una mostra dedicata all'architetto Daniele Calabi

Padova ha dedicato tra il 19 maggio e 21 luglio 2024 una mostra a Palazzo del Monte di Pietà a cura di Elena Svalduz e Stefano Zaggia, mostra con il titolo Daniele Calabi a Padova. L'architetto e la città nel secondo dopoguerraOltre alla mostra, per completare la presentazione dell’architetto padovano, sono state aperte le porte della città con una vera mostra diffusa: Tavoli - Le tessiture murarie, in via 8 febbraio - Listòn, tra il municipio e Palazzo Bo, Padova tra il 17 maggio e 30 giugno 2024; Arazzi - Le gelosie murarie, in via Gabelli - Corte Ca' Lando, Padova, tra il 17 maggio e 30 giugno 2024, per far capire ai padovani l’opera di Daniele Calabi. Il Comitato organizzatore è stato formato dalla figlia del rinomato architetto, Donatella Calabi, da Giuseppe e Davide Cappochin, Martina Massaro, Edoardo Narne, Elena Svalduz e Stefano Zaggia. Le fotografie sono state realizzate da Alessandra Chemollo.
Per la mostra prestigiosi archivi hanno permesso di presentare i disegni, partendo dall’Archivio Daniele Calabi, di Venezia, l’Archivio del ‘900 – MART, di Rovereto, il più grande archivio dell’arte e architettura futurista italiano, l’Archivio Generale del Comune di Padova, l’Archivio Generale dell’Università degli studi di Padova, l’Archivio Ordine Architetti PPC Provincia di Venezia, l’Archivio Progetti, Università IUAV di Venezia e l’Archivio storico della Soprintendenza ABAP (Archeologia, Belle Arti e Paesaggio) per l’area metropolitana di Venezia e le Province di Belluno, Padova e Treviso, il Centro Studi e Archivio della Comunicazione dell’Università di Parma.  

Padova ha una vocazione nell’omaggiare i grandi architetti. Renzo Piano organizzò la retrospettiva della sua opera nella grande sala del Palazzo della Ragione, nel 2014 e nel 2019 un’altra grande mostra che riguardava l’architetto Aldo Rossi, fu allestita nella stessa sala del Palazzo della Ragione (l’antico tribunale medioevale della città) che si fregia di essere la più grande d’Europa senza colonne portanti, un enorme spazio che scarica la pressione del tetto ligneo, a forma di carena di nave, un’imbarcazione rovesciata, sui quattro muri portanti. La mostra dedicata a Daniele Calabi è stata organizzata nel palazzo del Monte di Pietà nella piazza del Duomo dalla Fondazione Barbara Cappochin nella ricorrenza dei vent’anni della Biennale Internazionale di Architettura con l’Università degli Studi di Padova, in collaborazione con i dipartimenti dei Beni culturali e di Ingegneria civile edile e ambientale ed è stata realizzata grazie al contributo della Fondazione Cariparo.
L’occasione dei sessant’anni dalla morte dell’architetto Daniele Calabi è lo spunto per la proposta al pubblico, con ingresso libero, di una mostra che parte dalla centralità della figura dell’ingegnere-architetto per indagare il contesto architettonico e urbano di Padova nel secondo dopoguerra. Dobbiamo tener conto di due aspetti fondamentali: uno è l’origine dell’architetto Calabi, ebreo in fuga dalle leggi razziali nel ventennio fascista, che trova nel Brasile una patria d’esodo, dalla quale ritorna pieno di esperienza sotto il segno di Oscar Niemeyer; il secondo è il volto nuovo della città tagliato secondo l’ideologia fascista, ma di una ottima qualità architettonica che spicca ancor di più nel contrasto con la struttura medievale della città di Padova. L’architetto Daniele Calabi spinge in avanti nel dopoguerra questa nuova veste della Padova dopo la Liberazione e le dà un aspetto discreto rispetto alla megalomania di piazza dell’Insurrezione simbolo del fascismo, una Padova a misura d’uomo, modernissima, con i tagli geometrici dei palazzi signorili presenti anche nelle zone centrali, con una struttura in mattoni di area emiliana ma con inserzioni di mattoni in vetro veneziano che danno trasparenza, che fanno di loro un punto luce delle facciate nella notte padovana.
La figlia dell’architetto Daniele Calabi, Donatella Calabi, ha detto: «Quando, impostando gli inviti a questa inaugurazione, i grafici mi hanno chiesto cosa indicare accanto al mio nome mi sono chiesta se proporre un titolo accademico, o se più semplicemente non avrei dovuto dire figlia di Daniele Calabi, ma anche madre nobile dei curatori. Che questa sia per me una mostra molto importante da un punto di vista emotivo, prima ancora che come storica, è facilmente comprensibile. Ma vorrei anche sottolineare che alla preparazione di questo evento ha lavorato un gruppo numeroso di persone: da una fotografa agli allestitori, da un professore con i suoi studenti a un giovane esperto di dispositivi multimediali, dai due curatori e una borsista (tre miei allievi) e … perfino il mio adorato nipotino, promettente futuro “regista”. Non vi sembri retorico affermare che nel primo caso – come figlia-, nel secondo come ‘mamma-maestra’ di tanti giovani, ho sentito questa iniziativa come un’occasione importante di trasmissione della memoria: a una migliore conoscenza delle difficili esperienze di vita di Daniele Calabi, dei suoi modi di fare architettura, di ciò che riferendosi al “costruire” lui chiamava “il piacere dell’onestà”, della sua attività di docente in aula e in cantiere, che io stessa ho seguito prima della sua scomparsa».
A loro volta, i curatori Elena Svalduz e Stefano Zaggia hanno raccontato che«l’idea iniziale della mostra è stata quella di evidenziare lo stretto rapporto tra Daniele Calabi (1906-1964) e Padova, proponendo nel contempo una riflessione più ampia sul rapporto che un progettista intrattiene con una specifica città».
L’esposizione è stata concepita come una mostra diffusa dedicata all’opera di Calabi, con itinerari di visita per conoscere e apprezzare un patrimonio architettonico che dona l’identità, dalla Clinica pediatrica ai condomini, alle case vicino alle mura medievale del viale Alicorno del quartiere buono, detto «Città giardino», a quelle per i professori, tutte realizzate negli anni Cinquanta. È nella città universitaria che il giovane architetto inizia la sua carriera promettente, progettando opere importanti negli anni Trenta del Novecento per l’Ateneo patavino (come l’Osservatorio astrofisico di Asiago). Una stagione interrotta bruscamente dalle leggi razziali del 1938, cui seguirà l’esilio in Brasile. Tornerà a Padova dopo la guerra, nella città dove si era formato e dove conosceva perfettamente la trama urbana inconsueta dell’«abbraccio» fra il castro romano che preserva una porzione del decumanum nella taverna di uno dei bar davanti proprio al Monte di Pietà dove è ospitata la mostra principale, abbraccio che segue la città medievale, la Reggia dei Carraresi che si conserva nella Sala degli Giganti di Palazzo Liviano, anche questa nelle vicinanze della mostra e non per l’ultimo con l’intervento massiccio e possente del periodo della dittatura in piazza dell’Insurrezione, a cento metri dal Monte di Pietà. Tutto l’insieme di questa Padova a forma di torta con gli strati delle tracce della Storia aveva fatto rincuorare l’anima di Daniele Calabi per tornare a casa. Le relazioni intessute e le opportunità lavorative sono visibile nel percorso della mostra che inizia proprio dalla stagione particolarmente intensa dell’attività tra il 1950 e il 1960 in una città sottoposta a grandi trasformazioni. La mostra non parla solo di edifici ma parla di persone. La vicenda umana del giovane e promettente architetto costretto ad abbandonare i cantieri di cui era responsabile a seguito dell’applicazione delle leggi razziali è solo un tassello della vita della folta comunità giudaica presente in città, come risulta dalla sinagoga, il ghetto accanto a piazza delle Erbe, ma soprattutto dal cimitero sefardita che si trova tutt’ora alle porte dell’entrata da Selvazzano e la Porta cinquecentesca, detta di San Giovanni.
Ritorno con le mie consuete storie personali. Il 27 gennaio di ogni anno, quando si commemora la giornata della Shoah, prediligo alle immagini terrificanti dei lager, una domanda che faccio ai miei studenti, una domanda semplice ma più edificante di tante altre: «Quanti di voi ha origini ebraiche?». Come potete immaginare, spesso nessuno. Allora sorge spontanea la seconda domanda: «Se a Padova esiste un cimitero così grande, dov’è quel popolo?». Davanti all’evidenza qualsiasi parola tace, qualsiasi ideologia, di destra o di sinistra, svanisce. Daniele Calabi era uno di loro, un figlio della numerosa e generosa comunità ebraica patavina, comunità ricchissima come risulta anche dalle donazioni dei facoltosi ebrei al museo Eremitani e al Palazzo Zuckermann, custodi del patrimonio della città di Padova.

«Abbiamo ritenuto importante evidenziare questo aspetto – concludono i curatori - portato anche nelle aule universitarie nei nostri corsi di storia dell’architettura: nella mostra la scritta “ebreo cancellato” è un forte richiamo a non dimenticare quanto accaduto. Dopo l’esilio in Brasile, Calabi rientra “ammalato di nostalgia per l’Italia” (sono parole di Carlo Anti), con un retroterra moderno, internazionale: porterà, possiamo dirlo, le esperienze brasiliane a Padova. E infatti Padova, accoglie le novità importate dal Brasile, diventando la città a più alta densità di architetture realizzate da Calabi. Eppure, si tratta di opere non sempre note: chi sfoglia in questi giorni la pubblicazione che accompagna la mostra ne riconosce con difficoltà la collocazione. Per questo la mostra propone una lettura delle architetture realizzate e ancora presenti in città non solo attraverso disegni tecnici, esecutivi, schizzi, ma anche attraverso le fotografie di Alessandra Chemollo, che ha realizzato una campagna fotografica ad hoc. Per noi questa mostra è stata un’occasione per fare ricerca: abbiamo lavorato intensamente negli archivi, in particolare in quello storico dell’Università di Padova, dove abbiamo verificato le fonti già note e portato alla luce nuova documentazione. Questo percorso di ricerca si è intrecciato con l’attività didattica dove negli ultimi due anni abbiamo lavorato a fianco di studentesse e studenti con attività laboratoriali di storia dell’architettura e composizione architettonica. Far conoscere al pubblico gli esiti di questo percorso tra didattica e ricerca, sensibilizzare su temi che vanno al di là dell’architettura, è in definitiva l’obiettivo che ci proponiamo di conseguire».
Il Presidente di Fondazione Cariparo Gilberto Muraro afferma:«Calabi è stato un protagonista dell’architettura moderna del secondo dopoguerra, come attestano anche i numerosi riconoscimenti nazionali e internazionali che ha ricevuto.», «Ha contribuito alla trasformazione urbanistica di Padova in anni cruciali per il suo sviluppo, ridefinendone l’identità. Siamo dunque particolarmente lieti che la sua vicenda umana e professionale venga ricordata e celebrata in un percorso espositivo, ospitato nella sede padovana della nostra Fondazione, che di questa mostra è anche sostenitrice. Nel ringraziare l’Università di Padova e la Fondazione Barbara Cappochin per averla realizzata, il mio augurio è che siano in molti a scegliere di affollare le sale di Palazzo del Monte di Pietà.»             
«Come è nostra consuetudine – spiega Giuseppe Cappochin, Presidente della Fondazione Internazionale di architettura dedicata alla memoria della figlia Barbara – alla mostra faranno da raccordo una serie di iniziative sparse nella città. A partire dai Tavoli in pietra che troveremo sul Liston di Padova, a cui se ne affiancheranno altri, tra Municipio e Palazzo del Bo, costruiti ad hoc per la mostra di Daniele Calabi».
Il gruppo di progettazione, coordinato dal Prof. Edoardo Narne del Dipartimento Icea, ha elaborato frammenti di sei emblematiche opere padovane capaci, nel Dopoguerra, di produrre un effettivo scarto nella produzione architettonica del territorio, dei tavoli, anche immaginabili come alcuni lacerti di muro in grado di incarnare le tessiture “calabiane”.
Per avvicinarsi anche fisicamente alle opere di Daniele Calabi, la mostra diffusa ha previsto il racconto di più storie all’interno della Corte Ca’ Lando di Padova attraverso altri dispositivi allestitivi. Un’altra «esperienza» è di reinterpretare insieme agli studenti del Corso di Ingegneria Edile-Architettura di Padova la propria casa realizzata a San Paolo durante l’esodo in terra brasiliana: una dimora speciale nei suoi caratteri così ben definiti e realizzata con alcune licenze e inevitabili rivisitazioni dimensionali. Per vivere meglio il dentro e il fuori della mostra a Ca’ Lando, addentrandosi al centro della chiesetta, il visitatore scopre che ad avvolgere un sistema di sedute in legno sono quattro grandi «arazzi» realizzati in mattoni intrecciati, dispositivi ancora una volta in grado di raccontare la sperimentazione di Calabi, tesa a valorizzare luoghi liminari tra interno ed esterno nelle sue opere: si tratta di elementi di divisione verticale enormi, le così dette «gelosie» e dei paramenti ispirati alla tradizione costruttiva locale e riletti sapientemente e mescolandoli con le lezioni apprese nei viaggi nel Nord Europa, dove conobbe l’arte dei maestri scandinavi.
La città universitaria ha rappresentato per Calabi una città privilegiata, sia dal punto di vista affettivo, è stata il «trampolino di lancio» per la sua affermazione professionale. Le relazioni con l’Ateneo patavino e i protagonisti della sua storia tra gli anni Trenta e Quaranta. La celebrazione dell’inaugurazione dell’Osservatorio astrofisico di Asiago del 1942 in assenza proprio del suo progettista è legata anche al rapporto profondo col paesaggio storico urbano, tutte premesse per il suo ritorno nel 1950. Questa intima relazione tra Padova e Calabi è stata solo parzialmente indagata nella mostra padovana del 1992 che fu allestita in Galleria Cavour, occasione che ne ha evidenziato l’impostazione biografica. Con questa mostra si è proposto un nuovo progetto espositivo che, pur partendo da quella sistemazione critica, affronta ora una congiuntura storica di particolare interesse come quella del legame delle opere di Calabi con il contesto di una città, città che nel secondo dopoguerra tra gli anni 1950 e 1960 conosce una fase di intensa trasformazione. Padova diventa un caso da studiare di grande interesse, sebbene sinora poco affrontato. La riflessione del legame tra Padova e Daniele Calabi è il tema alla quale si legano iniziative collaterali intese a proporre una riflessione sul rapporto tra architettura e contesto urbano nelle città contemporanee.  
La mostra è articolata in sezioni, in cui una iniziale è orientata ad indagare i caratteri dell’idea di modernizzazione del periodo, con materiali e tecniche innovative dettate dallo sviluppo economico e dalle necessita sociale della città del boom economico italiano di dopoguerra.
Una seconda sezione è dedicata a raccontare le prime fasi di formazione dell’architetto, il rapporto con l’ufficio tecnico dell’Ateneo nel corso del IV consorzio, sino all’esclusione a causa delle leggi razziali e l’esperienza dell’esilio in Brasile. È inevitabile la vicenda umana del giovane e promettente architetto costretto ad abbandonare i cantieri di cui era responsabile per partire in Brasile per salvare la propria vita. Quando nell’immediato dopoguerra rientrerà «malato di nostalgia per l’Italia» (sono parole di Carlo Anti), il contesto padovano era mutato, ma lo trovò pronto, tuttavia, ad accogliere le sue nuove architetture, particolarmente adatte a modernizzare la città. La mostra contiene pezzi originali (disegni tecnici, esecutivi, schizzi, fotografie) alternati a pannelli con riproduzioni o elaborazioni di materiali storici di supporto o utili alla contestualizzazione. Alessandra Chemollo, attraverso le fotografie, propone una nuova lettura delle architetture realizzate da Daniele Calabi ancora presenti in città.
Oltre alla conoscenza dell’opera, si deve studiare anche in stretta sinergia con le attività didattiche (in particolare con i Dipartimenti Dbc e Icea), che prevede un ciclo di conferenze e seminari da tenersi presso l’Università di Padova con il coinvolgimento dell’Ordine degli Architetti Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori della Provincia di Padova. Non mancano gli «Itinerari calabiani a Padova»: attività laboratoriale con studentesse e studenti dei corsi di laurea in Beni culturali.
 Nella città sono stati realizzati dispositivi architettonici temporanei dislocati in punti del contesto urbano considerati strategici. Il rapporto tra architettura e città può essere sottolineato dall’individuazione dei luoghi e delle opere di Calabi più rappresentativi a Padova. La loro realizzazione coinvolgerà direttamente le studentesse e gli studenti del Corso di laurea in Ingegneria Edile Architettura (Dipartimento Icea), un modo per ripensare allo sforzo fatto da Calabi con alcuni giovani architetti nel corso degli anni Cinquanta (secondo la testimonianza di Paolo Ceccarelli), quando nel quadro della APAM (Associazione Padovana per l’Architettura Moderna) organizzava mostre didattiche rivolte alla cittadinanza con un obiettivo di divulgazione e di educazione all’architettura moderna.
La pubblicazione, curata da Elena Svalduz e Stefano Zaggia, nella Lettera Ventidue edizioni, che accompagna l’esposizione, offre un significativo aggiornamento agli studi sull’architettura di Daniele Calabi: sulla base dei risultati della ricerca condotta in occasione della mostra e della campagna fotografica avviata ad hoc, si offre una rilettura delle opere nel contesto di una città in corso di modernizzazione. A partire dalle architetture realizzate nella «nuova» Padova tra gli anni 1950 - 1960, il volume racconta le opere e la vita di Calabi, senza dimenticare l’esperienza dell’esilio in Brasile a causa della dittatura fascista. Una «frattura» drammatica, solo in parte ricomposta in un ambiente progettuale e culturale vitale. La città di Padova accoglie le novità importate dal Brasile, fino a diventare la «carta da visita» dell’architetto, «tra i migliori che operano in Italia» (Sergio Bettini, 1957).
La vita è l’opera, e Daniele Calabi è testimone del dramma della comunità ebraica a Padova, dell’esilio e soltanto chi l’ha conosciuto sa quanto è doloroso, della modernizzazione dell’Italia dopo la guerra quando le città furono bombardate a tappeto e a Padova fu colpita la Chiesa degli Eremitani e distrutto in 80.000 pezzi l’affresco di Andrea Mantegna che era custodito dentro per l’unica colpa di essere vicino alla stazione ferroviaria che era l’obbiettivo fondamentale del bombardamento. Da quel paese ridotto alle macerie, da quella città afflitta da dittatura prima e poi dalla guerra, Daniele Calabi fa risorgere un modernismo dolce nello stile e nei materiali essenziali, mattoni, vetro, cemento, razionale nelle forme geometriche, semplici, lineare. Ne esce fuori un nuovo stile di vita, democratico e moderno, ma nobile nelle essenze e nei materiali, specchio di una società che fatica, tutto’oggi aimè, nel costruire una nuova identità e dare una visione progressista del futuro.
E se la vita è l’opera, l’architettura è la dimensione della politica e della società di un paese. Daniele Calabi tra le due Italie, prima e dopo la guerra, viandante nel Brasile, esule a malavoglia ritorna in Patria, quella della sua cultura, il Belpaese che l’aveva qualche decennio fa espulso come un apolide. Da ebreo questa condizione la memoria della comunità l’aveva conservata, da professore di architettura e costruttore edile quella condizione gli era presentata come un non senso e la Storia gli ha dato ragione. Oggi, camminando a Padova, dal quartiere elegante di città giardino a via Japelli, emergono le facciate dei palazzi ideati da Daniele Calabi, snelli, eleganti, trasparenti, segno di una architettura democratica, di uno stile pacato e sobrio, traccia del carattere di un architetto padovano che amò la sua città.



Liana Corina Țucu

(n. 9, settembre 2024 anno XIV)