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Artemisia Gentileschi «Coraggio e passione»
A Genova, al Palazzo Ducale, tra il 16 novembre 2023 e il 1° aprile 2024 è stata organizzata una importantissima mostra dedicata alla pittrice Artemisia Gentileschi, che fu la prima donna a essere ammessa a un’Accademia d’arte, la prima a essere riconosciuta come artista.
La mostra, a cura di Costantino D’Orazio con la collaborazione di Anna Orlando, attraverso oltre 50 dipinti provenienti da tutta Europa ci ha fatto vedere una Artemisia Gentileschi più completa, anche perché messa in dialogo con le pittrici del tempo, con il padre e con il caravaggismo in generale. La mostra è promossa e organizzata da Arthemisia con Palazzo Ducale Fondazione per la Cultura, Comune di Genova e Regione Liguria e rientra nell’ambito delle iniziative di Genova Capitale Italiana del Libro 2023 e del progetto L’Arte della solidarietà realizzato da Arthemisia insieme a Komen Italia, charity. Una parte degli incassi provenienti dalla vendita dei biglietti di ingresso della mostra verrà devoluta da Arthemisia per la realizzazione di specifici progetti di tutela della salute delle donne. Con questa partnership Komen Italia si prepara al grande evento nazionale per festeggiare il suo venticinquesimo anno della “Race for the cure” a maggio 2024. Il catalogo, edito da Skira e a cura di Costantino D’Orazio, presenta i testi di Pietrangelo Buttafuoco, Riccardo Lattuada, Anna Orlando, Yuri Primarosa e Claudio Strinati e Vittorio Sgarbi.
Purtroppo, Artemisia è rimasta nella storia dell’arte non solo per la sua bravura, ma anche perché vittima di uno stupro. La mostra è incentrata su questo aspetto, ma anche sull’ambiente artistico barocco dove altre donne come Lavinia Fontana o Rosalba Carriera si erano affermate come pittrici valicando e sdoganando con la forza dello spirito e della volontà i pregiudizi del tempo e della società a loro contemporanea. Le violenze erano, allora come adesso, aimè una consuetudine, ma solo quella subita da Artemisia rimase impressa nelle scripta manent, cioè gli atti del processo al quale fu sottoposta. E così noi, oggi, possiamo sapere per filo e per segno tutto quel calvario e umiliazione alla quale la giovane e bella Artemisia fu sottoposta. Come tutte le difficoltà, anche questa fu superata dalla pittrice che ne uscì ferita nell’anima ma fortificata nello spirito di combattente. Certo è che Artemisia Gentileschi sarà dopo questo supplizio una donna che vivrà da Signora, sopra le righe, farà quel che gli pare, affronterà nobili e re con la forza di chi si è fatta le ossa già da piccola. Tante sono le donne pittrici del barocco, poche avranno la forza espressiva di Artemisia, nessuna sarà così libera nel vivere la propria vita come lei.
Come tutte le cose nella vita, anche nel caso di Artemisia essere figlia d’arte è un pregio ma anche una difficoltà, soprattutto quando si tratta di una figlia, ancor di più pittrice e cosa unica più che rara, del Seicento. Orazio Gentileschi era un pittore affermato, amico di Caravaggio. Il rapporto con la figlia Artemisia sfociato poi in una vera e propria rivalità è palese nella scelta degli stessi soggetti e dal cui confronto si vede come la figlia, come ogni apprendista stregona, supera il padre, cosa non facile da digerire per un artista che d’indole è istrionico ed egoista a prescindere. Nella mostra figlia e padre Gentileschi sono messi in dialogo con lo stile di Caravaggio.
Addentriamoci nella mostra per capire meglio la narrazione scelta dai curatori. Nella prima sala ci sono soltanto due capolavori, due varianti della stessa scena, Susanna e i due vecchioni. La nota singolare che distingue le due tele è il gesto delle mani di Susanna della versione «viennese», che deve molto a Michelangelo e al suo Adamo ed Eva cacciati dal Paradiso della Cappella Sistina. Stesso gesto di allontanamento attraverso la teatralità delle mani, stesso sentimento di repulsione, disdegno e umiliazione, gesto eclatante, tributo del riconoscimento e apprezzamento del grande Maestro del Rinascimento che fu Michelangelo.
La seconda sala è quella dedicata alle pittrici del Seicento, le «colleghe» di Artemisia: Sofonisba Anguissola, Marta Rosa, Giovanna Garzoni, Properzia de ‘Rossi, Lavinia Fontana, Rosalba Carriera, Angelica Kauffman e naturalmente lei, Artemisia, in un autoritratto della collezione del Palazzo Barberini a Roma. Si nota la bellezza mediterranea della pittrice romana, ma soprattutto l’attenzione data all’apparenza: vestiti, gioielli, acconciatura e lo sguardo conficcato negli occhi di chi la guarda, da donna sicura di sé, che vive da Signora e spende più di quanto guadagna. Seta damascata gialla, pesante e vistosa che racchiude una candida camicia dalle maniche ampie stretta ai polsi e ornata in merletto che finisce nel filo dorato, con un nodo appesantito da una broche d’oro massiccio e con un ametista luccicante al centro, grosso e pesante, che fa pendant con gli orecchini d’oro abbelliti dalla stessa pietra lillà traslucida.
Seguono le sale del confronto con il padre e che rilanciano la figlia come pittrice migliore dello stesso Orazio Gentileschi. Il quadro che rappresenta la santa Cecilia, la protettrice dei musicisti, opera del padre è prova di una immensa capacità di padroneggiare la tecnica pittorica. Ritratto di giovane donna come Sibilla risente della luce caravaggesca, ma ha dentro la matteria croccante dei pittori emiliani e i colori dolci di Carracci e di Lanfranchi. Ma il vero confronto tra i due emerge nella maestria di dipingere la scena per eccellenza – la Madonna con il bambino. Qui la spunta la sensibilità della donna, il gesto tenero di porgere il seno all’amato figlio, il bambino con riccioli che ricordano gli angeli del Parmigianino, le due ciliege afferrati dalla manina con il realismo tipico di Artemisia; qui la Madonna si fa carne, donna come tutte le altre donne, dove il divino sta solo nella simbologia dei colori delle vesti, nella capigliatura da regina coperta pudicamente da un velo trasparente e casto e dal trono in legno dallo schienale semplice ma massiccio e la testa del figliolo che splende di luce propria. Essere donna e brava pittrice fa la differenza.
Artemisia era anche una istrionica e gli autoritratti lo dimostrano in pieno. Quello della Allegoria della Scultura è magnifico: una Artemisia sempre ben vestita, vista un po’ dall’alto giusto per far scorrere l’occhio dello spettatore nel decolté appena accennato e in penombra, ma con le mani in pasta: mani anellate, belle e delicate che afferrano lo scalpello e il martello come una donna fa con il mattarello per la pasta, determinata a finire una testa in marmo di un Dio antico e assopito, pasta pietrosa sotto le mani volitive e sicure della «Maestra Artemisia», come la chiamavano gli artisti napoletani. La luce cade da sinistra verso il basso come in Caravaggio, dietro c’è un corpo di una statua anch’essa in attesa. In centro del quadro un bottone dorato che decora l’orlo della camicia fa da punto centrale. Chapeau!
Lo stesso realismo caravaggesco accompagna il quadro della Cleopatra che ricorda anche nella composizione la scena di una passata Danae di Tiziano con la tenda come una quinta teatrale, da dove sbuca la serva che scopre un bel corpo bianco come quei corpi di un altro allievo di Caravaggio, Mattia Preti, corpi bagnati dalla luce della luna, corpi estatici, con un viso dalle labbra socchiuse e dove il trapassare dalla vita alla morte è come nella poesia, da Eros a Thanatos. Il panno blu cobalto, intenso e marmoreo prende le pieghe del bel corpo disteso sulle bianche lenzuola. Le penombre accennano contorni indefiniti e misteriosi, la cesta con i fiori descrive i sentimenti della Regina: la borraggine rappresenta il coraggio, il gelsomino è simbolo della grazia regale, il garofano una promessa di matrimonio e il tarassaco il dolore.
Segue il ciclo delle Giuditte. Giuditta e la fantesca Abra con la testa di Olofene dipinta tra il 1607-1610 riprende nel copricapo della serva, un batic ornato nell’orlo con zooforme geometrie che ricordano i costumi popolari ciociari è un quadro degli inizi, ma dove il sangue sporca il sacco dove verrà posata la testa presa con determinazione dalla fanciulla, che ha i tratti somatici dell’Artemisia da giovane, come una che è abituata alla violenza e che mostra la testa mozzata come un trofeo senza paura dell’orrore. Un’altra variante sul tema è Giuditta e l’ancella con la testa di Olofene dei Musei Vaticani è la medesima donna senza paura, che afferra la spada e la cesta con la testa del povero decapitato guardando a sinistra un po’ in alto con l’aria di una che ha fatto un buon lavoro in nome di Dio e l’ancella che l’aiuta nel presentare il trofeo, ma con lo sguardo rivolto a destra, come per fare da guardia e avvertire un imminente pericolo. L’ancella è giovane e bella, come lo era anche Tuzia, colei che abbandonò Artemisia nelle mani del suo violentatore, Agostino Tassi, il collega del padre Orazio, pittore seducente ed elegante, ma con il vizio di essere sposato e malvagio. Quella solidarietà femminile che mancò ad Artemisia in vita, la pittrice la immaginò nel quadro, come un monito verso le donne e un insegnamento: solo unite si vince la forza e la bestialità dell’uomo senza scrupoli. In Caravaggio la serva è una vecchia signora, nei quadri di Artemisia l’ancella è giovane e bella e sta aiutando Giuditta come si fa tra donne per sbrigare le immani fatiche, come Artemisia avrebbe voluto che Tuzia facesse nel momento del bisogno.
La mostra finisce con il caravaggismo a Genova. La Superba ospiterà Rubens nel primo decennio e Van Dyck nel secondo decennio del Seicento, Orazio Gentileschi tra il 1621 e il 1625 e Artemisia Gentileschi e il loro stile, tra il realismo e il classicismo, darà un impulso agli artisti del barocco locale, visto che le opere di Artemisia sono presenti nelle collezioni genovesi. Domenico Fiasello detto Sarzana è uno di loro, anche lui con la sua Giuditta con la testa di Olofene di evidente influsso del ciclo di Artemisia Gentileschi.
Donna senza paura, piena d’orgoglio che vive sulle montagne russe per tutta la vita, da Roma a Firenze e da lì di nuovo a Roma e nel Nord Italia diretta verso la corte londinese dove era stato già incaricato il padre Orazio e poi di nuovo a Napoli, senza sosta, in un turbinio di emozioni e di fame di vita, vita di donna vissuta come solo agli uomini era permesso nel Seicento, Artemisia, volens nolens, diventa icona del femminismo contemporaneo per il modo in cui affronta i pregiudizi della società.
Genova l’ha omaggiata con una grande mostra e ha creato intorno a questa femminista ante litteram una specie di beneficenza verso le donne e le loro malattie con una parte dei ricavati dai biglietti d’ingresso, per una causa nobile, morale e femminine allo stesso tempo.
A me viene in mente un detto di un grande pedagogista del Novecento, John Dewey, che diceva che «la scuola (che può essere compresa come formazione in generale, come paideia) è la figlia e la madre della società». E penso alla società nella quale visse Artemisia, dove il supplizio scelto per il processo che le fu intentato è quella «della sibilla», che consisteva nel legare i pollici con delle cordicelle che, azionate da un randello, si stringevano sempre di più fino a stritolare le falangi. Una tortura che poteva portare la pittrice alla perdita delle dita per sempre. Alla pittrice si potevano amputare gli strumenti del lavoro. Da una tortura così inumana la vita di Artemisia non poteva essere altro che una rivalsa verso quella società che, allora come adesso, sembra sottoporsi ai versi di Fabrizio De André, visto che siamo proprio nella sua Genova:
“Dai diamanti non nasce niente/ Dai letami nascono i fiori”.
Artemisia Gentileschi, Maria Maddalena, 1630-1631, Beirut Sursock Palace Collection
Artemisia Gentileschi, Susanna e i vecchioni, 1610,
olio su tela, 170x119 cm, Collezione Graf von Schönborn, Pommersfelden
Artemisia Gentileschi, Autoritratto in forma di Allegoria della Pittura con un ritratto maschile sul cavalletto, 1630-1635,
olio su tela, 98x74,5 cm, Roma, Gallerie Nazionali d’Arte Antica di Roma, Palazzo Barberini
Artemisia Gentileschi, Madonna col Bambino, 1610-1611,
olio su tela, 116.5x86.5 cm, Roma, Galleria Spada
Artemisia Gentileschi, Giuditta e la fantesca Abra con la testa di Olofene,
olio su tela, 1607-1610, 130x99 cm, Roma, collezione Fabrizio Lemme
Liana Corina Tucu
(n. 4, aprile 2024, anno XIV)
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