L’architettura di Aldo Rossi in mostra a Padova

Nel Palazzo della Ragione a Padova, tra il 1° giugno e il 29 settembre 2019, è aperta al pubblico la mostra su uno dei grandi architetti italiani – Aldo Rossi (1931-1997). Personalità eccezionale e poliedrica, Rossi è un «prodotto» del Politecnico di Milano, allievo di Ignazio Gardella e Marco Zanuso, professore alla Scuola Urbanistica di Arezzo insieme a Ludovico Quaroni e alla Facoltà di Architettura IUAV di Venezia con Carlo Aymonino, docente al Politecnico milanese dal 1959, ma anche collaboratore delle più prestigiose università americane:  la Cooper University, l’Institute for Architecture and Urban Studies, Harvard e la Yale University (come tutti non profeti in Patria e mi viene in mente Bruno Zevi). Rossi è un «professore» cioè un teorico, ma anche un grandissimo progettista. Nella mostra si possono ammirare, fra i tanti progetti esposti, quattro dei suoi capolavori. Ma perché il Palazzo della Ragione? L’antico Tribunale medievale padovano era per Rossi quella struttura centrale, quell’archetipo che ritma la trama dello «Schwarzplan» della città. Se si nota, il Veneto dell’entroterra ha questa particolarità: la città ha in centro tre piazze – dei Signori, dell’Erbe e della Frutta, intorno al Palazzo della Ragione, cioè il tribunale dove si emettono le sentenze e si difendono i diritti delle libertà, delle congregazioni, tra vita urbana e sociale di lunga durata storica del mondo italiano fino a oggi – la corporazione ritmata dall’artigianato che difende con i denti i propri diritti. La società corporativa che vive da mille anni a questa parte.

Rossi è un grande poeta dello Spazio, ma anche del vissuto nel Tempo. Lui osserva che i grandi palazzi cambiano la destinazione d’uso, ma non scivolano d’un millimetro dalla loro funzione di prototipo per i vari corpi della città in divenire. Il tribunale dove in gabbia venivano messi alla gogna i debitori (magari fosse usato anche oggi «ad litteram» dopo il crack delle banche venete e non creare il capro espiatorio degli «stranieri» per i conti svuotati dai veneti ricchi ai risparmiatori a loro volta veneti doc)  si trasforma nel salotto buono della città al coperto, nella sala di mostre con il primato della più ampia struttura coperta, che posa soltanto sui muri e senza colone interne grazie al tetto a forma di carena veneziana, di grande battello rovesciato: «In tutte le città d’Europa esistono dei grandi palazzi, o dei complessi edilizi, o degli aggregati che costituiscono dei veri pezzi di città e la cui funzione è difficilmente quella originaria. Io ho presente ora il Palazzo della Ragione di Padova. Quando si visita un monumento di questo tipo si resta sorpresi da una serie di questioni che a esso sono intimamente legate; e soprattutto si resta colpiti dalla pluralità di funzioni che un palazzo di questo tipo può contenere e come queste funzioni siano, per così dire, del tutto indipendenti dalla sua forma e che però è proprio questa forma che ci resta impressa, che viviamo e percorriamo e che a sua volta struttura la città».

Come abbiamo detto, Rossi progetta molto all’estero. Non è una «piaga italiana». Pure Frank Lloyd Wright aveva lavorato soprattutto all’estero. Due sono i progetti «stranieri» in mostra: Il Deutsches Historisches Museum di Berlino e il complesso alberghiero e ristorante Il Palazzo Fukuoka in Giappone.
Il museo berlinese si accosta al fiume Sprea come Notre Dame alla Senna. Parallelo per dare Visuale verso l’acqua, come un porto illuminista della cultura «in mostra», ma riprendendo la forma dei magazzini medievale come i fondachi veneziani dei tedeschi, dei turchi e chi ne ha più ne metta. Come la Porta della Dea Ishtar, anche qui il mattone e la maiolica giallo-blu la fanno da padrone. La prima città sumera fu costruita in mattone. Il museo della storia non può farne a meno. Il vetro come parete ripreso dall’intuizione di Mies van der Rohe è l’elemento di novità nella classicità tedesca. La struttura si fa leggera, fluida come il fiume su cui si affaccia. La stessa attenzione all’elemento acqua è presente anche nel progetto asiatico. Il complesso è un pilone che progetta lo sviluppo della città oltre il fiume perché fa da perno, da punto cardine della zona di svago con la parte commerciale della città. Davanti la grande piazza poggia su un basamento come tutte le agorà e fa da spazio di passaggio dall’interno all’esterno, come nella più classica tradizione italiana. Il palazzo supera i suoi confini e fa da spazio di aggregazione per i cittadini. Piazza Grande a Bologna fu concepita come metratura edificabile per contenere tutti gli abitanti. L’architettura è un prolungamento della società.

Altri due progetti «italiani» seguono il dolce narrare della mostra su Aldo Rossi: «Il Teatro del Mondo» a Venezia e la città dei morti di Arnold Böcklin – «Il cimitero di San Cataldo».
L’opera veneziana fu presentata alla Biennale del 1979 e si basa su tre concetti: essere un teatro a Venezia, con elementi della città, uno spazio «in legno» appoggiato sull’acqua come la Serenissima stessa. Il volume ricorda le cabine del Lido della spiaggia dell’Excelsior, con le sfere di vetro poste sulla punta delle capanne. Il legno ricorda anche la tradizione shakespeariana del teatro rinascimentale di pura ispirazione veneziana. La bandiera agitata dal vento rimanda ai tempi remoti di orgoglio e gloria, della Chiara Fama della Repubblica.

La città dei morti ha la metafisica ferrarese di un De Chirico ed è un progetto del 1971 per l’ampiamento del cimitero neoclassico di Modena. Qui si sprigiona la dimensione scultorea di Rossi. Scolpisce con la luce. Il lungo viale è «disegnato» dalle ombre dei pilastri geometrici di un Mausoleo Ziggurat dove le luci e le ombre sono come un vuoto e il pieno – si completano, disegnano, delimitano.  Il mausoleo di Alicarnasso è la casa dei morti senza tetto e lo Ziggurat dell’inizio della civiltà mesopotamica, l’archetipo dell’architettura ai suoi albori. Rossi diceva di questo progetto: «Il concetto centrale di questo progetto era forse quello di aver visto che le cose, gli oggetti, le costruzioni dei morti non sono differenti da quelle dei vivi». Mi ricorda la grande lezione di un mio maestro, l’archeologo Radu Popa, grande difensore del patrimonio europeo che mi disse a proposito degli scavi della città di Feldioara (Marienburg) nella terra dei sassoni in Transilvania nel lontano 1992: «Se volete capire una società guardate due cose: come costruiscono le case e come seppelliscono i morti». Eros e Thanatos, Palazzo e mausoleo; vita e morte. Das ist Architektur. Se Arnold Speer avesse visto il museo berlinese di Rossi sarebbe stato colpito da quella purezza antica delle linee, dalle casupole delle dépendance, dalla vista sul Canal Grande della Sprea, Venezie nordiche, visioni oniriche dell’isola di San Michele e del cimitero veneziano, poesia della luce lasciata trapassare dai muri di vetro, dentro e fuori insieme, vita vissuta della comunità nell’agorà e tanto mattone, maiolica, vetro e legno, elementi leggeri come un sogno di una notte d’estate, come questa magnifica mostra padovana, tributo doveroso a un Maestro dell’architettura – Aldo Rossi. Ringrazio Andrea Achiluzzi, che mi ha messo a disposizione i materiali, il volume del workshop internazionale del 2017 a Padova, uscito poi presso «Aiòn Edizioni», e un grande ringraziamento va all’Associazione culturale di Architettura che ha organizzato la mostra promossa dall’Assessorato della Cultura del Comune di Padova.


Liana Corina Tucu
(n. 9, settembre 2019, anno IX)