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Concorso di traduzione letteraria «Balaurul»
Pubblichiamo tre brani del romanzo Balaurul [Il Drago] tradotti in italiano da Giulia Ambrosi, Andreea David e Anda Amelia Neagu, vincitrici del I, II e III premio del concorso di traduzione letteraria omonimo, bandito dall’Istituto Romeno di Cultura e Ricerca Umanistica di Venezia, con il sostegno finanziario dell’Istituto Culturale Romeno nel dicembre del 2017, in occasione del Centenario della Grande Guerra. La prova d’esame è consistita nel tradurre sette pagine del detto romanzo di Hortensia Papadat-Bengescu, romanzo che testimonia l’impegno dell’autrice nel corpo delle infermiere volontarie durante la Grande Guerra.
Hanno partecipato al concorso i seguenti studenti iscritti ai programmi di laurea triennale e specialistica o ai master dei centri universitari di Bari, Milano, Padova, Pisa, Roma, Udine e Venezia: Mariana Leghedi, Irina Păun, Adriana Lungu, Iulia Mitache, Anda Geanina Tarnauceanu, Angela Ghinea, Maria Bianca Prisecaru, Edeltarud Christine Wingert, Francesca Pizzinga, Elena Sandra Hîncu, Daniela Ilaşcu, Maria Alampi, Bogdan Groza.
La premiazione si terrà nella Sala «Marian Papahagi» dell’Istituto Romeno di Cultura e Ricerca Umanistica di Venezia il 15 giugno, ore 18.00, alla presenza dei commissari: Prof. Lorenzo Renzi, Prof. Bruno Mazzoni, Prof. Angela Tarantino, Prof. Cristian Luca e Dott.ssa Aurora Firţa-Marin (membro segretario).
La vincitrice del I premio, Giulia Ambrosi, si è laureata con lode in Lingue, Letterature e Culture Moderne presso l’Università degli Studi di Padova nel 2014, discutendo una tesi sulla sintassi dei pronomi clitici in romeno antico. Nel 2015 ha curato il volume Potere e immaginario politico in Europa. Radici storiche, modelli antropologici, rappresentazioni letterarie [«Transylvanian Review» XXIV, Supplement No. 2, 2015, edited by Sorin Șipoș, Dan Octavian Cepraga, Giulia Ambrosi – Romanian Academy, Center for Transylvanian Studies]. È autrice dell’articolo La legge Tobler-Mussafia in italiano e romeno: un confronto, apparso in «Romània orientale» XXIX, 2016. Collabora con la rivista interculturale bilingue «Orizzonti culturali italo-romeni / Orizonturi culturale italo-române» e con «Insula Europea». Attualmente prosegue gli studi magistrali in Linguistica presso l’Università di Padova, privilegiando campi d’indagine quali la linguistica acquisizionale, la psicolinguistica, i disturbi del linguaggio e dell’apprendimento del codice scritto.
La vincitrice del II Premio, Andreea David, è nata a Ștei nel 1995. Nel 2001 si è trasferita in Italia con i genitori. Dopo aver frequentato il liceo classico a Rovereto, ha studiato Lettere moderne all’Università di Padova, dove ha avuto la possibilità di riavvicinarsi alla cultura romena, prima di tutto grazie al laboratorio teatrale in lingua. Si è laureata con una tesi in Letteratura romena sulla figura di Matei Călinescu come critico letterario nel panorama dell’esilio romeno e della Romania postcomunista. Attualmente sta frequentando la magistrale in Filologia moderna, presso la stessa università.
La vincitrice del III Premio, Anda Amelia Neagu, frequenta il secondo anno di Laurea Magistrale in Scienze del Linguaggio, profilo Filologico-Editoriale, all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Il suo principale interesse in ambito accademico, sviluppatosi durante la laurea triennale in Lingue e Letterature Straniere Moderne presso l’Università degli Studi di Bergamo, è la linguistica balcanica. Questo interesse l’ha determinata ad approfondire le lingue romena e bulgara e, grazie al corso di lingua e traduzione romena, ha iniziato ad appassionarsi anche alla traduzione. Una volta finita l’università, le piacerebbe trovare uno sbocco professionale che le permettesse di continuare a coltivare entrambi gli interessi.
I PREMIO
Giulia Ambrosi
(Università degli Studi di Padova)
I suoni hanno in noi, alla stregua delle sofferenze, una certa misura di prevenzione allestita in vista del loro termine: una sorta di precauzione che attende, ne esige la cessazione. Il segnale delle trombe non si era placato, varcata la soglia di tale attesa, né lo aveva fatto dopo, e nemmeno dopo ancora.
Tutto quanto eccede quel limite si imbatte in un altro, che lo induce ad arrestarsi: quello della sopportazione. Tuttavia, quella nota sormontava imperterrita anche quel limite.
Non la vuole smettere! dissero.
Non la smetteva. Proseguiva tranquilla il suo itinerario perpetuo. E non potevano impedirlo in nessun modo: non veniva loro in mente di chiudere la finestra, o di ritirarsi nel cuore dell’abitazione. Quel vetro lasciato aperto le univa a tutto il resto, offriva un varco ai loro pensieri, lasciando che confluissero all’esterno. Verso cosa, non lo sapevi? È presente, nell’essere, questa necessità di prendere il largo, di espandersi seguendo il corso del fiume, di andare incontro al diluvio stesso; è la stessa necessità che protende le mani di chi è rimasto a riva verso coloro che sono stati rapiti dalle acque; la stessa che raduna i naufraghi e li ammassa, l’uno sull’altro, in scialuppe troppo fragili; la stessa che ipnotizza, che mantiene fissi verso il cuore dell’incendio gli occhi di chi ne è rimasto al riparo; è la necessità di mischiarsi alla folla generata da un qualunque pericolo, l’urgenza di trovarsi al centro di questo.
Come pure è presente il desiderio di fraternizzare con il destino, di esserne parte integrante, di esporti al rischio insieme a lui, con la speranza di salvarti ma, soprattutto, con la brama spasmodica di rimanere non la molecola scomposta e isolata, bensì l’atomo di un’unità plurima; di essere la piuma in preda al vortice, al tempo stesso assimilata dalle forze della natura.
Quel vetro aperto attraverso cui Laura e le sorelle, avvolte nella loro fine camicia da notte, con i capelli sciolti lungo la schiena, stavano ad ascoltare, fianco a fianco e con le mani gelide, il richiamo alle armi, era lo spazio sul quale la loro fragile anima scagliava le sue braccia oltre il giardino ombroso, per legare il proprio destino a quello di tutti gli altri.
Dal momento che anche il limite della sopportazione era stato oltrepassato, lasciavano ora che quelle trombe suonassero, che continuassero a farlo fino alla fine; si lasciavano ora scivolare addosso tutto il peso di quel suono plumbeo, scialbo, e tuttavia distinto.
Guerra…! sussurrò una delle ragazze, e pareva un concetto nuovo, nonostante fosse un termine praticamente usurato, data la frequenza del suo impiego. Pareva un concetto nuovo, e in fin dei conti lo era. Nulla aveva a che vedere con gli interminabili discorsi, le idee, le intuizioni, i ragionamenti che erano stati fatti intorno ad esso fino al giorno prima.
C’erano state orazioni all’unisono, sermoni capitolini, la sacra cospirazione degli dei dell’Olimpo ed erano state fatte tante profezie quanti erano gli esseri umani; c’erano stati pettegolezzi, risse, spartizioni intorno al bottino…
Ed ecco che ora era solamente la prima delle parole, il capolettera di ciò che sarebbe stato perpetrato senza indugio, di ciò che sarebbe imprevedibilmente accaduto. L’inizio di qualcosa di cui si ignorava l’identità e sul quale non era possibile fare pronostici.
Lo stesso sarebbe accaduto con questo segnale lungo, aspro e sinistro. Ci sarebbe stata la Guerra, che nulla avrebbe avuto a che vedere con le battaglie annunciate dal corno, come con nessuna delle precedenti.
Una minaccia sorda, cieca, infinita, trascinata nel tempo e negli spazi, per le mani e per i piedi, sempre avvertita, sempre incombente, crudele, indomita!
Lunga ben oltre ogni misura di prevenzione, ben oltre i limiti della sopportazione. Con quel suo suono metallico, sinistro. Con quel suo incedere opprimente, risoluto.
Guerra! Una delle ragazze pareva indagare attraverso il pensiero, l’animo di Laurenția, sul senso di quella parola.
La fissava con un quesito che non osava pronunciare, come se l’arcano fosse celato nella sua intima essenza. Un pallore cupo avvolgeva il volto di Laura. Sulla sua fronte distesa, sui tratti assottigliati dalla sofferenza, una maschera fosca e pacata andava ora a sostituire l’ardore e l’inquietudine che fino al giorno prima erano impresse su quel viso.
Guerra! Il termine acquisiva ora un senso. Il terrore generato da questa risvegliava in lei una sorta di gioia. Fino al giorno prima, Laura si trovava coinvolta in conflitti riguardanti la vita stessa, dai quali era uscita sconfitta, che l’avevano fatta abdicare, ma che non avevano trovato la pace all’interno del suo animo ribelle, e nemmeno nella sua esistenza eversiva. A quei conflitti la guerra offriva ora una soluzione. Una gigantesca via d’uscita, proporzionale ai tumulti della giovane. Quel suo tormento, che perseverava cercando un rimedio, pur non trovandolo, sembrava avere scatenato, apposta per il suo dolore ed il suo personale bisogno, la tempesta colossale, nella cui potenza distruttrice si sarebbe dissolta qualsiasi altra forza.
Laura credeva sul serio che la guerra fosse arrivata per lei, nel momento esatto in cui aspettava qualcosa che legiferasse ciò che non era ancora stato fissato per bene. Era sopraggiunta ora una forza superiore che la svincolava dallo stupore, per unirla, insieme a tutti gli altri, a destini sconosciuti. Forse, non si trattava di una congettura poi così assurda.
Ai miliardi di cause intrecciate a quella particolare contingenza, si avvolgevano altrettanti miliardi di situazioni dalle rispettive aderenze.
Erano tutte in balìa di quella corrente che si apprestava a guadare il mondo. Per questo, a giusta ragione, Laura credeva che l’enorme tracimazione fosse giunta per lei.
Il suo animo, fino al giorno prima deluso e disorientato, si aggrappava ora al problema impetuoso che si stava offrendo all’umanità tutta. La sua esistenza si accordava ora le energie necessarie per combattere, affrontare, tenere testa a quell’uragano, per attraversarlo indenne. La guerra era un mare in fermento conteso tra due lidi: quello che si apprestava a lasciare e quell’altro, sconosciuto.
Oltre la catastrofe, per quanto grande, vi erano la sua fine e il miraggio di un’altra vita. Proprio ora che la morte prorompeva sovrana, rimaneva una speranza latente, subliminale al pensiero fisso dei perituri.
Se Laura fosse stata felice, sarebbe stata urtata prepotentemente e inutilmente dalla sciagura che avrebbe sconvolto quella sua felicità.
Torturata da estenuanti sentimenti antitetici, avrebbe lottato per impedire ciò che non si sarebbe potuto in alcun modo evitare.
La felicità di ieri l’avrebbe portata, oggi, a vivere nello scontro di tutte le energie e i desideri avversi. Si sarebbe trovata smarrita e isolata dall’anelito crudo degli eventi, avrebbe nuotato in senso contrario al flusso di questi.
La felicità di ieri le avrebbe fatto apparire la guerra esattamente come le pareva una volta, nei suoi giorni più vividi e rosei. Paladina del Bene e dell’Umana Bellezza, l’avrebbe ritenuta una mostruosità che si accingeva a profanare il superbo tesoro dell’umanità. La catastrofe le avrebbe risposto in tutta la sua inesorabile realtà.
Adesso vedeva con altri occhi il Flagello rosso. Le pareva una forza della natura che si stava scatenando e imperversava ora verso l’annichilimento, ora verso la creazione.
Laura traeva semplici conclusioni: la natura possiede i suoi indubbi elementi di distruzione e ricreazione. L’acqua, il fuoco, il terremoto, la tempesta! Nei loro confronti l’uomo non può fare altro che tentare di raccapezzarsi, di aggirarli, di farsi largo tra di essi. Le pareva che ora la natura umana fosse divenuta anche lei depositaria della forza di un elemento specifico: il Sangue!
Al pari delle acque e delle tempeste, non avresti potuto dominarlo se non attraverso l’ago della bussola; azzardando piccoli guadi nell’enorme corrente per poi attraversarla, facendoti assorbire da essa, per giungere Oltre.
Lo stesso sarebbe accaduto con la Guerra. Gli uomini e le loro stime, tutto quanto aveva creduto di poterla dominare o indirizzare a suo piacimento, sarebbe stato usurpato dal potente corso di quella forza della natura, e quelle previsioni non sarebbero state che piccoli guadi all’interno della grande traversata ‒ una manovra disperata, fissa sulla deviazione dell’ago della bussola.
Coinvolta in quel massacro della natura, per Laura erano in serbo sofferenze ordinarie. Congruenti alla logica degli eventi, le sue energie erano più deboli di quelle del nuovo despota. Non stava più lottando contro l’impossibile. L’impossibile si era ora imposto con la forza.
Il suono della tromba non accennava ad arrestarsi. E loro tre rimanevano mute, impietrite davanti alla finestra aperta su quella notte mite. Non riuscivano a parlare di niente, tanto vasto era l’insieme degli impercettibili turbamenti che il nuovo evento aveva procurato. Nessun cenno a coloro che sarebbero partiti; a coloro che sarebbero rimasti; a quegli altri che si sarebbero trovati in viaggio, per quelle vie ora bruscamente recise.
Quel richiamo grave, cadenzato, lungo al di sopra di ogni misura, non lasciava spazio a pensieri e preoccupazioni spicciole. Quello che si sarebbe verificato, cosa ne sarebbe stato di ognuno, la sorte di ogni singolo individuo coinvolto in quella sciagura appariva fatale, superava il potere di ogni previsione.
L’impressione di «grandezza», di «fatale», di «abdicazione» che l’Idea evocava, avrebbe regnato su tutti, ma soltanto in un primo momento. Il giorno seguente, ciascuno sarebbe tornato alle proprie faccende, alle proprie tribolazioni, alle proprie considerazioni.
Laura sola era rimasta consacrata, insignita sulla fronte da quella abdicazione; si era prostrata innanzi a quella forza di distruzione e di resurrezione.
La tromba dal suono cadenzato, a tratti più spento, a tratti più nitido, mai scoraggiata da nessun alito di vento, avanzava sempre, proseguiva lungo il suo percorso. E loro non potevano fare a meno di ascoltarla, come se avessero dovuto compiere quello stesso itinerario. Ad unirle a quel suono metallico era un vincolo più saldo di un giuramento.
Avrebbero avuto ben più freddo, ben più timore se avessero richiuso il vetro e se, sopra di loro, fosse rimasto ancora il peso di quel soffitto lugubre.
Si era avvicinata tanto, tantissimo... forse sarebbe passata proprio lì, davanti alla loro casa! No! Era passata soltanto molto vicino... poi si era allontanata nuovamente… sempre nitida, nel silenzio più totale.
Ad un tratto si innalzò, come un vento sottile, un moto proveniente da un luogo indefinito, che poi si estese, si dilatò e infine si diffuse in ogni direzione.
Era un fruscio indefinito che pareva un leggero scalpitio, attutito sul terreno tiepido. Una lontana risonanza che ora acquistava voce. Nell’aria immobile e priva di eco, una risposta al segnale sinistro e solenne.
Per le strade più marginali, c’era un andirivieni di donne e bambini che parevano gemere, invocare qualcuno nell’affanno delle loro corse. Era gente che era stata colta nel sonno da quel richiamo e che ora fremeva in qua e in là, delirando, in preda al panico. Era un clamore sordo, con rare note più acute, sullo sfondo di un mormorio lacrimoso.
Cresceva a poco a poco, come una fiamma sottile e pallida, filtrata dalla lontananza, che a mano a mano acquistava colore e consistenza. Laura e le sorelle si guardarono l’un l’altra.
Quel coro soffocato di gemiti scortava ora il suono della tromba. Il segnale aspro e monotono si trascinava dietro quel debole lamento mischiato a voci più stridule.
Dall’estremo della periferia desolata era esplosa un’unione di voci che colpiva, incresciosa, il silenzio e l’ombra.
C’era un viavai di donne che accorrevano a reggere lo strascico fremente di quel rombo.
Erano fuggite passando davanti alla casa, strillando. Urlando nomi... solamente nomi. Nomi di chi probabilmente era stato reclutato... Poi ve ne era qualcuna che intonava lamenti funebri... erano le prime... le prime a vegliare il prematuro feretro della Vittima sacrificale.
Il giorno seguente avrebbero taciuto. In seguito, avrebbero perseverato. Ma in quel momento avevano intonato quel semplice lamento dell’anima assediata dal pericolo.
Non gridavano: «Con lo scudo o sullo scudo!». Non gridavano: «Va’ a combattere!». No. Quelle donne strillavano, si struggevano. Piangevano, invocavano nomi.
I tempi erano cambiati, ma erano sempre loro: le stesse di tanto tempo fa; quelle dei sacrifici e delle leggende. Come tante altre ancora... sicuramente avevano pianto anche loro.
Laura sentì un leggero sibilo attraversarle le orecchie. Si mise in ascolto. Poteva udire l’afflizione del suo cuore.
In quella notte che non acuiva, né sminuiva, né alterava alcun suono, questa eco di mestizia, che quel segnale crudele aveva destato e che si trascinava appresso, era naturale e umana.
Fece le scale, poi attraversò il cortile, dirigendosi verso il cancello. Si stavano allontanando, insieme a quei nomi gettati in pasto all’oscurità. La via era nuovamente deserta.
Dall’altra parte della strada, all’altezza della casa del pope Cristea, se ne stava, immobile, un’ombra, un tutt’uno con lo steccato del cancello. Era l’ombra di una figura umana, ma dai contorni offuscati. Pian piano, Laura riuscì a distinguere in quell’ombra la secondogenita del pope, con un neonato tra le braccia. La conosceva perché erano vicini di casa; le erano giunte voci su di lei, su di un amore ostacolato dal prete, che ‒ è risaputo ‒ offre doti generose, ma le offre ai generi giusti.
Lo sventurato era un giovane telegrafista che abitava nella loro stessa via. Nelle tarde serate di una primavera ormai lontana, le loro timide ombre avevano spesso indugiato lungo quella staccionata. Ne venne fuori uno scandalo.
Si erano udite grida, schiamazzi. Poi la ragazza non si era più vista. L’avevano ripudiata. Soltanto le altre due sorelle ‒ eleganti, maligne, indolenti ‒ erano libere di passeggiare ovunque.
La secondogenita di pope Cristea era divenuta una Cenerentola.
II PREMIO
Andreea David
(Università degli Studi di Padova)
LA PRIGIONE
Non lontano ebbe inizio il rumore insolito del cannone. Combattimenti che dovevano salvare la città. Così credevano i suoi abitanti; così gli veniva detto. Niente li avrebbe fatti credere altrimenti. La loro città era inespugnabile.
Avevano ricevuto una nuova affluenza di militari, ma ora raccolta, severa. C’erano ancora più ufficiali. Lo Stato Maggiore dietro al fronte russo-romeno.
Nel giorno di San Nicola si celebrò per lo zar un Te Deum misero, nella cattedrale umida, rappresa di olii antichi. Una compagnia romena e un distaccamento russo davano gli onori.
Laura aveva creduto che si sarebbe svolta una qualche pompa religiosa e militare, imperiale e slava. Guardò solo da vicino il generalissimo russo, un omaccione burbero e, vicino a lui, il generale leggendario romeno, quello che andava ovunque si presentasse lo spettro della battaglia, perché rinascessero, sulle speranze in perdita, nuove speranze. Adesso era arrivato da loro. La sua presenza segnalava il pericolo.
L’eroe sembrava uscito fuori da una tela di Goya. Assomigliava a meraviglia al fantomatico Chisciotte, il Cavaliere dell’Eterna Illusione. Laura si arruolò con animo fiducioso nell’armata-crociata del generale.
Sottile, alto, dal volto affilato, il Cavaliere Fantasma della fortuna romena stava rigido davanti all’altare, glaciale verso la provvidenza imperiale, più lontano dall’alleato, che gli stava alla sinistra, di quanto non lo sarebbe stato se li avesse separati una frontiera.
Laura si inquietò. I due comandanti avevano idee divergenti sui fatti. Fatti dai quali pendevano i loro destini.
Negli angoli delle strade, proprio nel mezzo della città, venivano poste mine, che facevano saltare le selci del lastricato dal loro pacifico posto. Quindi la città sarebbe resistita.
Laura cercava di immaginarsi lo spavento di un assedio, poi le lotte in strada, quando le armate si scontrano con l’ostacolo di una città e passano con ferro e fuoco attraverso di essa, ma non riuscì ad accettare questo pensiero.
Seguirono voci di un’evacuazione e altre, positive e attendibili – così credevano loro – di vittoria e salvezza, poiché ogni cosa che fosse speranza di bene dava fiducia.
Loro vivevano però in un angolo di mondo e non potevano avere uno sguardo sulle cose che riesca ad abbracciare ampie prospettive e riesca a passare con decisione e crudezza sui luoghi cari per una finalità di più alto valore.
Il cannone tuonava sempre più forte e il suolo palpitava, gemeva come per le scosse di un terremoto.
A causa degli aerei, le notti erano particolarmente sinistre. Per ora passavano solo in ricognizione, ma una sera due bombe distrussero la calzoleria di Strul sulla strada grande del mercato, uccidendo un giovane, una bambina e un signore. Le prime vittime inermi. La paura si adagiò ovunque, avvolse tutte le ore, tutti i gesti.
Laura non andava più all’infermeria della stazione, all’ospedale c’era ancora lo stesso trambusto di cose da fare che la distraevano dall'“idea fissa”. I doveri, i dispiaceri, gli accidenti facevano da diversivo.
…Uno sotto morfina, portato sulla barella lungo i corridoi, cantava forte, violento.
Sul tavolo operatorio, sotto i ferri, aveva cantato tutto il tempo: canzoni eroiche, romanze, valzer. I canti percorrevano tutto l’edificio, turbando con suoni inattesi i malati. A poco a poco si era diffusa un’allegrezza che correva come una corrente sopra tutto il locale della miseria. Lo portarono sopra, al suo posto, sempre spensierato nei suoi canti. Intorno ridevano ancora, quando si svegliò. Triste momento! Laura gli era accanto. Che misero ritorno alla realtà! Che crisi di tremiti dopo la morfina! Che peccati e che penitenze!
…C’era Ion Cizmaru, che da un mese portava il soprannome di “allegro capraio”! Abbindolò i dottori, convincendoli della sua guarigione senza operazione. Se la passava davvero bene e la sua fede sembrava trionfare.
Adesso aveva cominciato a gemere, agitato da un male che chiedeva un’operazione imminente, senza più la pazienza di aspettare l’ora in cui gli avrebbero tagliato, finalmente, quel piede difeso con tanta vanità, dal quale non voleva separarsi: «Meglio morto che tagliuzzato!»
Glielo tagliarono, troppo tardi. Ion Cizmaru, l’allegro capraio, moriva lentamente. Senza coraggio, senza rassegnazione, con una disperazione straziante, facendo crollare la fede nel miracolo.
…C’era il sergente maggiore portato recentemente dalle parti di R.: un uomo tarchiato, pettoruto, cavaliere bruno dei bassifondi. Aveva un piccolo proiettile nell’addome. Denigrava quella sua ferita dappoco, giocattolo che gli aveva pizzicato il ventre… Poi si sciolse come una candela gigantesca, colata goccia dopo goccia, e la capigliatura con la riga ben impomatata sembrava una parrucca troppo grande su una testa di cera baffuta, scolorita nelle vetrine. Laura non lo riconosceva più.
…Due russi, grandi quanto la porta, con lacerazioni da granate nei petti ampi, avevano urlato una notte intera come belve dilaniate dal dolore, trascinando i corpi pesanti sul letto, sul pavimento, trascinando con le braccia convulse i materassi, contorcendosi bocconi tra i letti allineati dei poveri malati, cercando di sgozzarsi l’un l’altro. Agonia furiosa con urli che raccapricciavano: notte infausta; al giorno, infine, per volontà di Dio, rigidi, inerti.
La notte era ancora più tragica, a causa del buio lugubre. L’ospedale era l’edificio più alto, bersaglio degli aerei nemici.
Una lampada cieca circolava lungo i corridoi infiniti e le sale sprofondate nell’oscurità, e il suo raggio, attraverso le grandi finestre tutt’intorno, sembrava una luce sinistra nel mezzo del buio senza spiragli che seppelliva la città.
Laura, nella sua ispezione notturna, portava in giro quella lampada come un cero funebre, nascondendo lo stoppino debole e brancolando nei forni della guerra, le ostie delle sofferenze.
In una sera l’ospedale venne evacuato. Così velocemente! Appena poche ore di lavoro silenzioso! Una separazione affrettata e preoccupata, senza nessun dispendio di sentimento. Laura raccolse in un cassetto il grembiule e il fazzoletto con la croce, che aveva indossato con così tanta emozione. Solo questo.
Poi i cannoni rimbombarono sempre più forte. Gli ultimi tra quelli predestinati ad andare si avviarono nel rifugio. Il generale russo aveva offerto l’ultimo treno che poteva ancora circolare. Fino alla vigilia aveva offerto la vittoria. C’era un gelo terribile e alcuni convogli erano rimasti per strada, sulla linea ferrata. Altri erano stati costretti a far scendere nei campi i passeggeri ghiacciati, per raccogliere i militari in deflusso. Laura non se ne andava, anche se sentiva che non poteva rimanere lì dove sarebbero arrivati “gli altri”. Ora, nel cuore della città, passavano carri, camion, landò smontati, diligenze, tutte le derrate requisite che i granai nascondevano, tutto quello che aveva ruote e poteva bardare cavalli.
In una specie di vagone di quelli che trasportano le fiere e le mercanzie, Laura vide installata una famiglia numerosa di conoscenti. Le automobili, adesso tutte militari, correvano in su, innumerevoli, caotiche. Era l’ultimo sforzo dell’esodo.
Al contrario, quelli che erano rimasti erano più intorpiditi, più lenti mentre attorno a loro incalzava il pericolo. Piegavano al giogo colli sottomessi di buoi per l’esecuzione.
La sera, soprattutto dopo il tramonto, la città era deserta; le finestre delle mercerie erano coperte con carta azzurra, attraverso la quale di rado luccicava illuminato un piccolo occhio.
Pattuglie russe passavano in sella. Facevano salire i cavalli sui marciapiedi apposta per incutere timore nei passanti. Una concezione dei rapporti tra armata e cittadino; una concezione da di là, da oltre il Nistro. Un ufficiale dal bel volto, ma tagliato in modo sinistro dal bendaggio nero dell’occhio, fece salire sul marciapiede davanti a Laura il suo cavallo superbo. Schiacciata tra le pareti e gli enormi lombi del cavallo, Laura tuttavia non si scansò, non scese.
Era l’acquartieramento russo; saccheggi, lotte, scandali appena percepiti rispetto all’altro problema. Circolavano voci sul consumo di acqua di colonia come bevanda rinvigorente. Era vero che erano stati versati, dalle stesse autorità russe, tutti gli alcolici e si erano stappate tutte le cantine.
Il vino scorreva sui bordi della strada, polveroso, fangoso, gorgheggiando alla bocca dei canali. Alcuni si piegavano sulle mani a sorseggiare. La mattina, agli angoli delle vie, il Bordeaux e il rosato raggelavano l’occhio, rossicci come il sangue.
Soldati sospetti con quella casacca nota, la casacca di Tolstoj, mendicavano. Altri, al contrario, lanciavano pugni di rubli. Erano russi! I portatori di colori magnifici e di canti profetici! Coloro i quali, da qualche parte là lontano, numerosi come le foglie dei boschi, vivevano ancora una vita vegetale – tronchi vecchi e rami giovani, coperti dall’ombra fitta della vita primitiva – bruciati dalla malattia dell’alcol, ma pieni di una linfa immensa nelle loro selve vive, nelle quali la luce e l’ascia avrebbero fatto una crepa.
Poi il cannone aveva rombato ancora più forte, più fitto, così fitto che tra le due scosse dell’esplosione, il respiro non aveva il tempo di tranquillizzarsi. Gli abitanti si rintanavano, ma le finestre sbriciolate li lasciavano scoperti.
Circolò una parola d’ordine partita non si sa da dove e tutta la popolazione entrò negli scantinati.
Era fatta! Erano arrivati i tempi dell’umiliazione. Quanto in basso sono a volte costretti a calarsi gli uomini per potersi poi rialzare!
Il gesto non piaceva a Laura. Non lo accoglieva con ragione, né con volontà, né glielo chiedeva l’istinto della paura.
Volle rimanere, ma le sembrò d’un tratto che là, al livello del suolo, dove fino a ieri erano stati tutti allo stesso modo, fosse adesso in alto, molto in alto, sopra, in un luogo deserto.
Pensò che sarebbero arrivati e che, nella città vuota, sarebbe stata sola.
Scese anche lei negli scantinati dai bei soffitti a volta di un vicino. C’era una compagnia numerosa. Si erano fatti inviti. Laura aveva messo il cappello cenerino, guanti per il freddo e in braccio teneva una borsa di pelle. Così, ridicola – se fosse ancora esistito il ridicolo – sedette rigida su una panca di legno, senza armonizzarsi con il luogo e le persone. Era l’ultima protesta di un livello civilizzato, la cui superficie era franata.
Attorno a lei, sui materassi, sui letti improvvisati, sulle stuoie, gli altri parlavano di ciò che era stato, di cosa sarebbe stato. C’erano lamenti e timori, risa e scherzi.
I servi imbandivano, instancabili, tavoli copiosi. Tutto quello che stava nelle dispense, tutte le provviste, tutte le prelibatezze venivano consumate per non lasciare niente agli altri.
C’era una rivalità di tacchini grassi, di plăcinte. Laura non mangiava. Come mortificazione per le umiliazioni che sarebbero arrivate, aveva inventato un digiuno prematuro, anteriore a quello necessario. Infatti, aveva un nodo in gola.
Di tanto in tanto usciva. L’aria sembrava un balsamo e il cielo un’allucinazione. Le cannonate erano ora più rumorose, ma molto rade. In cambio, si sentiva il macinio senza fine dello scorrere sulle strade, il rumore della ritirata, che non smetteva né giorno, né notte.
In alto gli aerei giravano numerosi, ma non lanciavano più proiettili. Si consideravano sul loro fronte. Loro, i poveri abitanti della città, nonostante tutto credevano ancora, e ancora gli veniva detto, che non si trattava affatto di occupazione. Questo si chiamava a quanto pare “acquietare gli animi”.
Lo stato di quegli animi sarebbe stato difficile da analizzare. Quando in un organismo si segnala il pericolo della morte, questo si prepara insensibilmente. Così, fra loro, si stava infiltrando ora l’inerzia preparatrice, che avrebbe portato tutti a un punto morto, un corpo paralizzato.
Erano in una specie di stupefazione di tutti i sensi: della paura, della speranza, della volontà. Rifiutavano il pensiero dell’oppressione, portavano ancora l’impulso della speranza, compivano gesti da uomini liberi, ma da quel momento erano formati per la schiavitù.
Di notte, Laura non rimaneva negli scantinati. Saliva nella casa grande, vuota, i cui padroni si erano rifugiati, lasciandola ad alcuni parenti arrivati da più lontano e che non avevano più il coraggio della peregrinazione.
Non dormiva, naturalmente. Fino al giorno sentiva le carovane sferragliare sulle strade. Chi ha sentito il loro rumore non lo può dimenticare. Porta nel suo udito qualcosa del cammino della Storia.
L’argenteria, il rame, le armi di casa e da caccia erano state sepolte. La terra scavata in fretta riceveva fresca quegli oggetti preziosi, per poi richiudersi, secca, e non darli più indietro, mantenendo il mistero dei tesori, e scuotendo quei luoghi per non lasciarteli più scovare.
Loro, i seppellitori di tesori, non si rendono conto che sono uguali ai loro nonni, non si rendono conto che hanno iniziato la lotta dei disarmati. Tutte le cose sono così somiglianti e così varie.
In città tutta la notte si sentivano spari. I russi, o di pattuglia, o per festa, sparavano fuochi e i cani li accompagnavano con un ululio prolungato.
Dopo circa tre notti, quella vita delle strade, là lontano, in alto, si spense e non si sentirono più nemmeno gli spari.
Senza questi rumori sinistri, a Laura venne d’un tratto paura. Spiò la luce del giorno con ansia.
Era sveglia da molto, con il cappello cenerino in testa, quando qualcuno dei vicini aprì la porta:
- Ei! disse, questa notte sono entrati. Gli è stata consegnata la città.
Solo questo!
L’agonia è sempre travagliata, la morte tranquilla. Ognuno andò in silenzio verso la sua casa. Adesso i seminterrati erano alla superficie della terra.
…Ai bivi stavano in sella gli ulani, con caschi argentei aquilati. Una compagnia di fanti, stanchi, polverosi, passava in su.
Gli ulani guardavano con indifferenza i passanti sonnambuli. Avevano attraversato, avanti e indietro, così tante città che le soste non avevano più importanza.
Ci fu poi l’acquartieramento. Laura lo accolse come una padrona di casa in lutto, costretta a rifugiare ospiti indesiderati.
III PREMIO
Anda Amelia Neagu
(Università Ca’ Foscari di Venezia)
VII. Homo homini lupus
[…]
Durante una mattinata molto fredda, Laura arrivò più tardi del solito e tenne addosso il cappotto e il grande cappello cinerei. Non c’era da lavorare nell’infermeria e non aveva voglia di sferruzzare. Era come se fosse pronta alla partenza – come se fosse pronta a un arrivo. Andare, dove?... Arrivare, chi?... Non lo sapeva. Non era un desiderio preciso. Non pensava a niente e a nessuno. Eppure aspettava ed era come aspettata. Non qui, nella sua vita nota. Dall’altra parte, oltre le sue barriere.
Oggi non era triste, come dettava il suo essere e come dettavano i tempi. Si vede che le era arrivato un messaggio dai confini dell’ignoto; il futuro le stava mandando un segno premonitore, incomprensibile.
Nell’infermeria c’era un piccolo specchio. Lo stesso nel quale aveva visto il volto estraneo, pallido, privo di vita di una crocerossina, che nondimeno era lei, la sera del primo incontro col Drago. Si guardò. Oggi aveva quel fard brillante e roseo che il freddo mette sulle guance. Avrebbe voluto canticchiare qualcosa, ma la voce disabituata, stupita dal suo strano gusto, non centrava più la strada melodica.
Pensò che avrebbe potuto preparare una soluzione di sublimato corrosivo. Lo aveva finito. Passò vivacemente vicino alle finestre appannate delle sale d’attesa, rovinate, prese d’assalto dalla folla. Attraverso queste scorse la sua figura di una volta e si stupì. Si era dimenticata. Si immaginava il proprio aspetto stremato quanto lo spirito.
Più allegra che mai, entrò nel ristorante per chiedere dell’acqua bollita dal samovar acceso. I proprietari erano persone in gamba. Li stimava per il loro lavoro onesto e per la loro buona educazione. I loro figli erano scolari diligenti che svolgevano i loro compiti su un angolo del bancone, tra le faccende dell’attività commerciale.
La proprietaria, una donna alta, imponente, dall’aspetto e dal comportamento distinti. Lui, un Greco piccolo, sfinito, mite e maldestro, pareva umile accanto a lei, oppresso dalla felicità di una tale compagnia e dalla lotta contro le difficoltà. Avevano due figlie grandi, belle, buone e degne.
La proprietaria aveva raccontato a Laura il romanzo. Lei era la figlia del latifondista, cresciuta in collegio con lingue straniere e pianoforte. Lui, il sorvegliante.
Un grande amore! Si erano sposati senza consenso e l’avevano diseredata, ma l’aveva ripagata la felicità e non si era mai pentita di niente. Tanto è relativa la felicità e tanto poco si basa sulle apparenze.
Quell’eroe, la cui seduzione non si era smentita, era un pover’uomo, umiliato e bisognoso, e la felicità abitava dietro quel bancone umido. Un’illusione o un mistero senza alcuna ricerca.
Tanto meglio se ancora vi erano al mondo persone felici, dopo la leggenda disonorata su una baita e su un amore.
Nel ristorante, Laura passò come al solito senza guardare tra i tavoli ammassati e tutti incastrati tra loro. Nessuno allora le era più conosciuto, nessuno sconosciuto, e nessuno mostrava alcun interesse se non legato alla grande preoccupazione per la guerra.
Prima che le portasse dell’acqua, lanciò un’occhiata distratta. Aveva attirato la sua attenzione un gruppo, per la sua stranezza.
A un tavolo in un angolo, tra il muro e la porta che si muoveva instancabilmente, stavano abbandonati sulle sedie, in uno sfinimento assopito più forte della consapevolezza del luogo e del tempo: un uomo, due signore – ma i loro vestiti erano stropicciati, trascurati – e due bambini minuti, in posizioni assurde, che non parevano supporre la presenza di altre persone intorno.
Vicino a loro c’erano scatole rotte, vecchie valigie, lacci. Un quadro della sciagurata migrazione.
Improvvisamente a Laura sembrò di conoscerli, poi li riconobbe davvero. Amici, persone esemplari: la signora Damian col marito, la sorella di Damian e i bambini, che Laura conosceva per nome.
Si incamminò verso di loro, ma la fermò l’aura di miseria che li isolava dal resto del mondo.
Essi non vedevano né sentivano niente, dormivano ad occhi aperti, capitati lì, per caso, come dei sinistrati.
La signora Damian stava su una sedia, posta in mezzo, con la schiena verso il tavolo e, essendo la gamba della sedia incastrata in un fagotto, oscillava continuamente, ma non la raddrizzava; suo marito stava sul bordo della sedia, nonostante fosse distrutto dalla stanchezza, e dondolava come un uomo ubriaco, premendo le ginocchia contro lo schienale di un’altra sedia senza pensare di cambiare quella posizione innaturale.
I due bambini erano avvolti con degli scialli sopra i cappotti e legati con dei fazzoletti sopra i berretti.
Cosa avevano queste persone? Non erano normali nemmeno per quei tempi. Sembravano scappati da un manicomio.
Si avvicinò quindi a loro come a tutti i bisognosi.
- Cosa vi è successo? Disse con cautela.
Rispose solo la cognata. Gli altri sembravano non averla vista.
- …Siamo partiti di fretta… Stavano arrivando i Tedeschi… e i cannoni…
Si fermò come se non ritrovasse più i solidi motivi che li avevano scacciati via.
- …Bruciava ai confini della città… Noi avevamo deciso di rimanere… Ma un giorno, all’ora di pranzo, è arrivato Iancu di fretta per andarcene… Avevamo ottenuto dei posti nel vagone del prefetto… una buona occasione… a malapena avevamo il tempo di prendere il treno… Iancu era così nervoso…
Il signor Damian si alzò e si passò la mano sulla fronte.
- …I bambini erano malati… avevano il crup… Mieluşica l’abbiamo presa dal letto… sul tragitto si è sentita male…
- È vero! Dov’è Mieluşica?
- …È morta in treno… è soffocata… gli altri avevano anche loro dei bambini… si sono difesi… volevano farci scendere, così hanno dovuto…
- Hanno dovuto cosa?
- L’hanno lanciata dal treno in un fosso, tutto qui! disse il padre con voce rauca.
La madre non si mosse. La cognata si piegò verso i nipoti e strinse loro addosso gli scialli.
- Che orrore!... e adesso cosa volete fare?
Non c’era più alcun dubbio, queste persone rientravano nell’ambito della carità. Non potevano rimanere lì coi bambini malati, sonnecchiando sui bagagli.
- Vogliamo rimanere qui! Qui la città non viene occupata! disse il signor Damian con la stessa volontà ostinata che gli aveva dettato la fatale decisione della fuga e aveva causato la morte tragica della bambina. Nella vertigine malata che lo avvolgeva, non pareva avere la chiara coscienza delle responsabilità.
Laura si offrì di condurli nella località. Cambiò il tono della conversazione. Cercò di farli tornare nella ratio dalla loro condizione sociale, che avevano perso in quella colluttazione da homo homini lupus.
Parlava loro come qualcuno che fa gli onori della propria città a degli amici.
Allora il signor Damian tolse il cappello che teneva infilato sulla testa, la ringraziò, e, ritornando alla sua funzione, si mise a sua disposizione.
La madre, Laura la evitava con abilità come fosse un pericolo. Sentiva che non poteva ancora essere toccata. Era come una ferita aperta. Più lentamente, molto più lentamente, si sarebbero aggiustate le molle di quel macchinario danneggiato. Stava ancora seduta sul margine della ragione, dondolandosi, e pronta a uscire di senno.
A Laura è servito un po’ di tempo per ottenere un posto per il bambino nell’ospedale civile della città. Trovò un cocchio, cosa rara, nel quale fece salire il padre col malato e partì a piedi con gli altri.
Vicino alla casa del pope Cristea c’era un nuovo edificio, due stanzette pulite con una taverna sull’angolo, ma la bottega aveva chiuso i battenti e il bottegaio, con la sua vecchietta, era un vecchietto gentile.
Ora affittavano. Erano vicini di Laura, la quale li vedeva di tanto in tanto.
La signora Damian lavorava febbrilmente in casa. Tutto era così stancante! Una fatica esagerata, richiesta dall’organismo per cercare il proprio equilibrio e per allontanare le fatiche dell’anima e della mente.
Dal turbinio che l’aveva strappata da casa, uccidendole la figlia, la signora Damian era rimasta con una cattiveria, con un’ostilità nel cuore che si riversava su tutti quelli attorno per ogni piccolezza.
Della terribile fatalità, tuttavia, non parlava con nessuno, nemmeno con il marito. Non poneva il tremendo problema di odio e responsabilità. Lui, maniaco, stava ermeticamente chiuso nell’idea del rifugio come in una fortezza di difesa, perseverava nella rivendicazione dei pericoli aggirati tramite la partenza, elaborava precauzioni strategiche e non riusciva a uscire dal loro recinto; si sarebbe ritrovato faccia a faccia col mostro della coscienza infanticida.
I coniugi erano ancora uniti dalla preoccupazione del figlio malato, dal pericolo dell’invasione che minacciava nuovamente, dalle difficili necessità della vita da esiliati. Ma spesso si scontravano su piccole cose con un odio tenace. Spaventava la lotta che si sarebbe prospettata, ma si apriva nuovamente, muto, l’abisso tenebroso nel quale era precipitata Mieluşica.
Non li aveva mai sentiti lamentarsi della crudeltà delle persone, di quegli amici con cui erano partiti in viaggio e che si erano trasformati in inquisitori: avevano giudicato, avevano condannato, avevano giustiziato.
Loro non guardavano, come Laura, quelle persone dall’esterno, bensì dal centro infiammato dello scontro.
Laura aveva un’ossessione: come sarà accaduto… il crudele atto?... Che parole si saranno detti gli uni gli altri? Cosa avrà detto la madre, cosa avranno fatto? Come sarà stato quando è morta la bambina?... e poi… quando l’hanno gettata… il gesto!...
Continuando a chiederselo, perdeva la nozione della realtà, le pareva una cosa impossibile. Perché non sono scesi alla prima sosta per seppellirla?...
La cognata le raccontò sommariamente: dall’inizio avevano tenuto nascosto agli altri la malattia. Quando Mioara soffocò e morì inaspettatamente sua madre non urlò, chiamò piano il marito e cospirarono. Restarono vicino al giaciglio, come fosse ancora viva, speravano di arrivare a F. con la piccola morta. Ma gli altri lo scoprirono. Allora ci fu una rivolta breve, decisa. Erano in viaggio. Considerando quanto a lungo erano stati ingannati, messi in pericolo, non aspettarono più. Visto il primitivo diritto di difesa e visto il calcolo secondo cui i morti non servono più e i vivi devono essere salvaguardati, scaraventarono fuori il piccolo corpo inutile.
Avevano forse protestato i genitori? Anche loro avevano spiato, anche loro avevano complottato. I tempi dispiegavano a tutti gli stessi istinti addormentati di difesa e attacco.
Il Drago dalla bava avvelenata cambia ogni logica. Al posto dell’idolatria ultima, del sentimento di oblio di sé che i vivi provano nei confronti dei cari morti, l’egoismo, risvegliato dai tempi della discordia, li aveva esortati all’inganno perché non venisse loro impedita la fuga e la salvezza.
Proprio loro, i genitori, nelle loro tenebre spirituali, erano stati dominati dal pensiero: si salvi chi può ancora farlo!
Arrivati alla prima stazione, i boia si saranno guardati l’un l’altro con lo sguardo complice dei criminali, poi avranno guardato le vittime, ma queste si leccavano le ferite come gli animali sconfitti.
Allora il cruento tribunale riprese il proprio egoismo, che si ama pure nei suoi peccati; quell’egoismo ce l’aveva proprio il padre ora.
Così avvenne. Poi scesero alla stazione F., come aveva disposto il signor Damian nella sua previdenza di marito e padre. Era l’ora e la condizione in cui li aveva trovati Laura, come dei naufraghi buttati a riva.
A proposito del loro caso nemmeno Laura aveva una consapevolezza certa delle responsabilità. Era come se sull’oceano in tempesta si fosse urlato: “Un corpo in mare!”
Ma lì la solennità sarebbe stata più degna, la sepoltura più grandiosa. La morbida strada d’onda, fin sul fondale, più misericordiosa.
Il fosso era troppo vicino, la terra troppo poco aperta e troppo scoperta. I cani! Le cornacchie!
Laura si tormentava con quest’immagine poiché esterna, ma lì, nel tumulto, i turbamenti dell’immaginazione spariscono. Rimane una nozione elementare: morti e vivi!
Da quando una ragazza e un soldato, sul binario fiorito delle partenze, non avevano tenuto conto delle usanze e avevano sfidato la buona condotta, quanto si erano scosse le fondamenta!
Il Drago spaventato inghiotte, dunque, tutto quello su cui l’uomo ha lavorato con difficoltà per il genio umano. Tutta la logica della morale sociale, gli sviluppi armoniosi che si sono innalzati sulle fondamenta degli istinti bruti.
Bestia! Bestia deforme! Chi staccherà mai dalla radice le sue teste mostruose, che ricrescono sempre da lì, proprio da dove vengono tagliate.
Guerra! Ognuno ora era un soldato e ogni posto un accampamento. Il nemico spiava da qualche parte nell’ombra, i pensieri e i movimenti acquistavano ovunque il senso della lotta, e tutta l’organizzazione, fino a lontano, era quella del macello.
Mieluşica era un soldato tra quelli caduti sul campo, nel bel mezzo dell’attacco, che non c’era più tempo per raccogliere, poiché il dovere che spinge in avanti comanda leggi aspre. Un soldato tra quelli rimasti nel fosso per i cani e per le cornacchie, con un posto sul grembiulino bianco su cui possa pendere un giocattolino nuovo, un crocefisso col nastro verde.
Laura cercava di ricordarsi la figura di Mieluşica e non ci riuscì. Sul vetro dei negozi scorse la sua figura cinerea e agile. Era, quel giorno, piena della linfa di una felicità assurda.
Inutilmente la miseria l’aveva toccata da vicino, inutilmente il Drago aveva gettato dal suo ventre distruttore cadaveri di bambini e di donne, inutilmente le fatalità erano terribili e l’ira implacabile.
Guardò con un sorriso l’ombra cinerea riflessa sulle vetrine. Si ricordò del suo vero essere, non dal passato dissolto nell’abdicazione di sé, ma da un sentimento precursore.
Da dove arrivava? Da lontano, da oltre i fossi dei tempi di allora, da aldilà di essi, da dove sarebbe ricominciata la vita. Ma quella felicità futura e lontana la toccava in quell’ora da vicino, e gli slanci dei sentimenti erano innalzati da una presenza enigmatica.
Strada! Aria! Laura guardava verso il piccolo posto trasfigurato. Il viale partiva impercettibile con i suoi castani dorati. Passò vicino a una casa grande, bianca, con cornicioni blu. Il luogo! La vita, da cui si sarebbero costruite le abitazioni del futuro.
Le teste del Drago sarebbero cresciute sempre più deboli e un giorno il regno del genio umano forse non avrebbe più avuto il sanguinoso nemico. Ci sarebbe stata la Pace! Pace e Amore!
(giugno 2018, anno VIII)
NOTE
[1] Il nome con il quale viene affettuosamente chiamata la bambina è, in romeno, il vezzeggiativo del termine miel ‘agnello’, quindi il suo significato letterale sarebbe ‘Agnellina’.
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