«80 centesimi». Viaggio con l’umanità delle stazioni

Di giorno, la stazione di Milano Rogoredo è popolata di pendolari, lavoratori, persone che corrono da un treno all’altro per poi rincorrere la metro e attraversare di fretta la città, insofferenti all’idea di vedere la frenesia della loro vita arrestarsi anche solo per qualche minuto. Una continua corsa contro il tempo, i ritardi, le coincidenze. Quando cala il buio, invece, i sottopassaggi e i binari si svuotano, il silenzio cala per qualche istante e una stasi sembra pervadere lo spazio. I binari, su cui poco prima si accalcavano i lavoratori stanchi, sono ora deserti, e solo di tanto in tanto si può incontrare qualcuno che torna a casa più tardi, magari aspettando l’ultimo treno, o addirittura aspettando un treno che non arriverà mai.
Rogoredo non è il posto in cui vorresti trovarti da solo la sera: l’umanità che lo anima è troppo viva, troppo intensa per essere tollerata da chi si ingozza di vita e cerca la propria soddisfazione nel concetto, tanto deleterio quanto glorificato, di produttività. Ed è proprio lì, in quell’enorme stazione, che nasce questa storia: la storia di un giovane attore, Pietro De Nova, e del suo incontro con la gioventù dispersa e abbandonata che si trascina tra la stazione e il «boschetto».

Pietro De Nova, classe 1997, è originario di Pavia. Durante gli anni del percorso accademico, presso l’Accademia dei Filodrammatici di Milano, ha preso molti treni, spesso la sera tardi. Spigliato, acuto osservatore e soprattutto persona empatica, non si è tirato indietro dai dialoghi coi ragazzi che sera dopo sera incontrava. Di mezz’ora in mezz’ora, Pietro De Nova ha imparato a distinguere i ragazzi che incontrava da quelli del racconto stereotipato e a tratti spaventoso che gira e rigira tra le bocche della gente. Tra una richiesta di prestar loro 80 centesimi e quella di un accendino, tra un viaggio Milano-Pavia e l’altro ha imparato a riconoscere i loro volti, a dare a ognuno di essi un nome, a conoscere per ognuno di loro una storia diversa, e a condividerle con Eliana Rotella, assistente alla drammaturgia e amica di De Nova, anche lei all’epoca pendolare e per questo partecipe di questa realtà. E così, il fantasma di una lacuna della società si è fatto materiale, diventando una serie di registrazioni conservate nella memoria del telefono: un piccolo archivio di umanità negate. Queste voci sono poi diventate una storia sola, per l’esattezza quella di un padre e di suo figlio Roberto (come il calciatore Roberto Baggio), per gli amici Nino. Una storia famigliare come tante altre, segnata da letture infantili, giochi, fischietti, la fascinazione per il lavoro paterno, quello di percorrere i treni ogni giorno, controllando i biglietti. La speranza di vedere il proprio figlio avere successo nel campo amato e mai conquistato del calcio. La linea del fallimento che si fa sempre più vicina, e che trascina Nino giù dal treno, a percorrere in lungo e in largo la stazione nel tentativo di racimolare quanto gli basti a vivere.
Le voci, diventate storie, hanno quindi dovuto compiere un ulteriore passaggio: quello per diventare carne, per diventare corpo vivo e reale. Un passaggio arduo, che ha visto De Nova coinvolto nella creazione di due comportamenti scenici quasi agli antipodi: un corpo più controllato e addolcito da gesti paterni, e una fisicità più spavalda e dimessa al tempo stesso, ripiegata su di sé.

Il lavoro, inizialmente condotto in solitaria, ha visto presto l’aggiungersi di uno sguardo esterno: Maurizio Zucchi. Il teatro, infatti, è un linguaggio che per sua stessa natura rifugge il solipsismo in qualsiasi sua forma, perché solo nel confronto con l’altro può crescere. Il loro incontro e la loro collaborazione hanno portato a un notevole cambiamento nella struttura dello spettacolo: inizialmente i personaggi previsti erano tre, cioè il padre, Roberto e suo fratello, e grande risalto era dato alla componente visiva (proiettata su un telo); l’architettura è poi stata resa più essenziale, eliminando la figura del fratello e preferendo alla componente video un paesaggio sonoro, curato da Stefano Errico.
L’obiettivo pratico era ben definito: partecipare alla Borsa di Lavoro Alfonso Marietti, indetta dall’Accademia dei Filodrammatici. Per rispettare i requisiti del bando, però, il progetto doveva essere messo alla prova davanti a un pubblico per tre volte; ed è qui che il percorso di 80 centesimi si è incrociato con la Valtellina.
Si dice che per educare un bambino c’è bisogno di un villaggio intero. In questo caso, per costruire uno spettacolo c’è stato bisogno di due paesini, Castionetto e Ponte in Valtellina. Due comunità lontane dal mondo dello spettacolo, dal suo luccichio e dalle sue storture, che hanno accolto e sostenuto questi due giovani artisti fin da subito. Gli abitanti di entrambe queste realtà hanno infatti collaborato alla creazione della scenografia, realizzando i costumi e fornendo gli oggetti di scena, riesumati da soffitte e poi modificati con l’aiuto del fabbro, che non ha chiesto ricompenso ma ha commentato, un po’ burbero ma bonario, «numa stupidadi» («pensi solo a sciocchezze»).
Nel frattempo, Zucchi e De Nova, ospiti della sala polifunzionale presso la parrocchia di Castionetto, hanno alternato i lavori nell’orto – un’attività fisica, umile, che li metteva quotidianamente a contatto con la realtà materiale – al lavoro in teatro, ripulendo da ogni orpello virtuosistico fine a sé stesso la partitura dello spettacolo.
Castionetto e Ponte in Valtellina sono quindi diventati in un certo senso coautori dello spettacolo, oltre a fornire due delle tre date necessarie per partecipare alla Borsa Marietti, in cui poi 80 centesimi ha ottenuto una menzione di merito.

Lo spettacolo ha collezionato, dal debutto in poi, oltre 30 repliche, e si appresta a tornare in scena a Milano (Teatro OiT, il 13 e 14 maggio) e a Pavia, presso l’Auditorium Buccheri dell’Università, il 18 maggio, oltre alla partecipazione a Festival come il recente di Civita di Bagnoregio e quello internazionale di Narrazione ad Arzo. Finora, il suo successo è stato confermato prima con il premio Mauro Rostagno 2022, e poi con il premio Internazionale Catania Fringe Festival, che lo porterà a competere al Prague Fringe Festival tra il 25 e il 27 maggio 2023. Proprio in vista dell’esibizione a Praga, De Nova e Zucchi stanno lavorando a traduzione e adattamento del testo. A una prima traduzione più approssimativa è seguito un lavoro di limatura delle parole, curando l'efficacia performativa della lingua. Infine, si sta operando un confronto con un madrelingua inglese e con un madrelingua ceco. L’obiettivo, infatti, non è quello di trapiantare 80 centesimi in un contesto straniero, mostrando un quadro della società italiana, bensì quello di adattare certe componenti dello spettacolo alla cultura d’arrivo. Certo un’operazione più ambiziosa, ma che rispecchia il desiderio di realizzare un teatro vivo e comunicativo e non offrirlo come un animale esotico in uno zoo.

Ho personalmente avuto occasione di vedere 80 centesimi andare in scena in luoghi ben diversi tra loro, e nonostante il continuo lavorio per adattare i movimenti e gli elementi tecnici a nuove spazialità, con tutte le loro peculiarità, la qualità della messa in scena si è sempre mantenuta elevata. Va però constatata una differenza nel rapporto tra attore e pubblico: ogni reazione risulta più viva, e a vantaggio quindi dell’opera, soprattutto negli spazi più piccoli, in quelle realtà che si prestano al teatro ma che nascono radicate nella vita della comunità. Nei teatri tradizionali, una certa timidezza, quasi un imbarazzo riempie le membra del pubblico, che dà risposte pallide alle interazioni dell’attore. Ambienti come la sala parrocchiale di Castionetto (SO) – dove lo spettacolo ha debuttato – vivono più intensamente questi momenti di scambio, entrando in relazione diretta con l’attore e rispondendo con una vivacità a volte quasi sfrontata. Forse non hanno piena consapevolezza della quarta parete, e di cosa il suo abbattimento implichi a livello teorico; probabilmente non gli interessa nemmeno saperlo. Ma proprio per questo, essi non si limitano a registrare l’artificio tecnico e a considerarlo parte del tessuto drammaturgico, bensì lo vivono: entrano nella dinamica della scena, prendono parte al gioco teatrale, diventano parte dello spettacolo. E una volta finiti gli applausi, sentono l’intimità che questo gioco ha creato, e parlano con De Nova e Zucchi senza timori reverenziali. Punto d’onore del loro lavoro, infatti, è il non aver mai perso o lasciato in secondo piano la vocazione sociale dell’opera: la storia di Roberto e di suo padre non muore con l’esaurirsi degli applausi, ma resta viva in questo passaggio dal rapporto spettatoriale a quello dialogico, in un’apertura del rito teatrale che è quanto di meglio un’opera come questa può costruire.


















Benedetta Carrara
(n. 4, aprile 2023, anno XIII)