Auschwitz e il «balbettio» di Schlesak Sono solita introdurre la lettura del libro Il farmacista di Auschwitz di Dieter Schlesak con la frase: L’orrore mi passa addosso/adesso l’abisso è dentro di me. Vediamone i motivi. Hannah Arendt disse: «Per essere criminali non occorre infrangere la legge, basta osservarla alla lettera». Questo paradosso è la definizione sintetica di quello che Dieter Schlesak ha ricostruito nel suo libro. Dico «ha ricostruito» perché sarebbe riduttivo definire questo libro un romanzo, in quanto la ricostruzione dei fatti parte dai suoi ricordi dell’infanzia. Dieter Schlesak, nato nel 1934, era bambino all’epoca dei fatti. Un bambino nato in Transilvania, da una famiglia tedesca. Non è una rarità quest’estrazione. Da ben otto secoli in Transilvania un’operosa minoranza tedesca manteneva la propria lingua e la propria identità. Erano «tedeschi in Romania», non «romeni di origine tedesca». Esattamente quello che oggi definiremmo integrazione nel rispetto della propria cultura. E in Transilvania c’erano anche ebrei. Per il bambino era normale parlare il tedesco e il romeno. Era normale incontrare parenti e amici tedeschi, incontrare amici romeni e amici ebrei. Ed era normale che tedeschi, romeni, ebrei si frequentassero. Ma la seconda guerra mondiale divise inesorabilmente i cittadini tedeschi, che furono invitati a collaborare con le truppe d’occupazione naziste, dai cittadini romeni e dagli ebrei. E se anche gli ebrei erano e si sentivano prima di tutto tedeschi, i nazisti non riconoscevano loro quest’identità, o meglio la ritenevano un’aggravante, un motivo in più per la pulizia etnica. Fu allora che Dieter Schlesak, bambino, ma non tanto da non percepire l’orrore di quanto accadeva, fece l’esperienza traumatica di quegli zii amorevoli, di quei vicini di casa sorridenti che – come gli venne confermato man mano che, fattosi adulto, con il rigore tipico del saggista, accumulava risposte e documenti, intervistava i sopravvissuti – collaboravano avviando ai forni, ai gas letali quelli che prima erano concittadini/amici. Dieter Schlesak sostiene che nulla è più stato lo stesso dopo Auschwitz. Nulla. E nulla, prima, è mai stato come Auschwitz. Non c’è solo il genocidio. Non c’è solo il modus operandi portato avanti con metodo scientifico. Non c’è solo l’annullamento della dignità e della speranza, lo spogliare gli internati di tutti i segni dell’umanità. Ci sono i mostri, gli esecutori, che non appartengono a una particolare categoria, non sono soldati di professione, sacerdoti che operano per rinsaldare il potere, ma uomini e donne invitati a collaborare che dicono «obbedivamo agli ordini», «era la legge», «noi osservavamo la legge». Questa è la mostruosità. Questo è il paradosso della Arendt. Questa è la «banalità» del male. Ma c’è una coordinata, se possibile ancor più importante per capire questo libro sconvolgente. Nessun libro ci tocca davvero, nessun libro ha questa forza se chi scrive non soffre profondamente per i fatti che racconta, se non è, lui, in prima persona, mentre scrive, a vivere/rivivere i fatti narrati. Il lettore non è insensibile, non è ingannabile, sente se un libro passa attraverso la nostra vita, la nostra verità o no. Victor Capesius, questo è il nome del farmacista di Auschwitz. Farmacista nella città transilvana, abituato a frequentare concittadini ebrei, avvierà ai forni quegli stessi uomini coi quali si era intrattenuto, come commensale, come buon vicino. Victor Capesius, quello stesso farmacista sorridente che dava caramelle a Schlesak bambino, riforniva ufficialmente lo Zyklon B, il gas letale al lager. E non sempre la Legge è sinonimo di Giustizia: finita la guerra, Capesius fu condannato a soli nove anni di carcere. Anche per questo quindi è riduttivo definire Il farmacista un romanzo; Il farmacista è verità a partire dai personaggi. Ed è verità perché, come abbiamo detto, lacera chi lo scrive. Non si scrive Il farmacista senza soffrire. Non si scrive neppure l’introduzione a Il farmacista senza soffrire. E non si legge Il farmacista senza soffrire. «Le esperienze di Adam non si lasciano raccontare: “Succede così per tutti,diceva Adam, noi che l’abbiamo vissuto… veniamo da un altro mondo… un abisso separa noi e voi, e questo abisso è una sorta di vuoto dell’orrore, ha a che fare con la nuda vita, non ha molto a che fare con l’abisso tra i carnefici e le vittime, a meno che tutti coloro che non lo sanno o continuano a pensare come fino ad ora non appartengano anch’essi ai carnefici!Perché da quando è accaduto è cambiato tutto sulla terra!”». Questo libro, dunque, sconvolge anche per la lingua, chi scrive prima, chi legge poi. Dieter Schlesak ha dedicato un acutissimo saggio a Paul Celan, poeta testimone dello stesso orrore. Titolo del saggio è un verso dello stesso Celan: Il mondo da riprodurre balbettando. Il sottotitolo: La follia di Paul Celan – Dolore e conoscenza di una millenaria frattura del tempo. Questo è stato Auschwitz, una millenaria frattura nel tempo, questa la lingua accostandosi ad Auschwitz, un balbettio, laddove la lingua viene meno.
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