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Emil Cioran. «L’insonnia dello spirito Lettere a Petre Ţuţea (1936-1941)»
Nessun uomo è un’isola. Tutti noi siamo continuamente riplasmati dalla nostra vita di relazione, da incontri, frequentazioni, discorsi. Quanto si può conoscere di un uomo dalla sua rete relazionale, amicale? Quanto dalle sue stesse parole, espresse nell’intimo esporsi ad una persona con la quale si avvertono affinità o, addirittura, scritte in libertà ad un amico? È quello che Antonio Di Gennaro e la casa editrice Mimesis stanno ricostruendo, minuziosamente e magistralmente, dai carteggi di Emil Cioran.
A quello con Linde Birk e Dieter Schlesak segue ora quello con Petre Ţuţea nel volume Emil Cioran – L’insonnia dello spirito, che presenta nove lettere che il filosofo invia all’amico dal 1936 al 1941 da Ineu, da Sibiu, da Parigi, da Mentone e da Vichy e quattro lettere che Ţuţea gli invia da Bucarest nel 1936, nel 1974, nel 1990 e nel 1991, anno della propria morte.
Petre Ţuţea, che Cioran, nella prima lettera del 25 luglio 1936 da Ineu, definisce il pontifex maximus del pensiero e cui si rivolge con la frase «tu e altre due o tre persone fate parte della categoria di coloro a cui penso ogni giorno – che lo voglia o no», per poi dirgli, altrettanto significativamente, «L’amicizia mi lega al mondo molto più di tutti gli istinti. Essa sola salva un principio spirituale nell’ordine del visibile», è un intellettuale simbolo del travaglio ideologico e politico del ‘900.
La loro amicizia nasce nella Bucarest degli anni trenta nel Caffè Capşa, sfera di influenza di Nae Ionescu e della rivista «Cuvântul». Petre Ţuţea sarà cofondatore della rivista marxista «Stânga: linia generală a vremii» nel 1932, ma aderirà ben presto al sogno nazionalista, diventerà legionario della Garda de fer e firmerà il Manifestul revoluţiei nationale nel 1935. Diventerà così alto funzionario fra il 1940 e il 1947, impegno che pagherà duramente con l’avvento della dittatura comunista: accusato di spionaggio a favore degli angloamericani nel 1948, sarà vittima dell’epurazione a danno degli intellettuali, subirà infamanti processi e internamento nei gulag con relativo trattamento di rieducazione, dai quali uscirà profondamente debilitato, e verrà perseguitato fino alla caduta del regime nel 1989. Due soli gli anni di libertà che la vita gli concederà prima della morte.
Postumi verranno pubblicati i suoi manoscritti, confiscati dalla Securitate, tra cui il Trattato di antropologia cristiana. Infatti, in maniera diametralmente opposta rispetto Cioran, in carcere si avvicinerà a Dio approdando ad una profonda spiritualità mistica.
Con lui Cioran aveva espresso profondamente la propria visione della vita. Sempre nella prima lettera leggiamo il suo grido di sofferenza: «Soltanto nel disprezzo di Dio mi sono sentito bene e a casa mia. Vorrei essere un politico solo per poter verificare ogni giorno e concretamente il disgusto per gli uomini». Del resto Ţuţea gli aveva scritto il 7 dello stesso mese «veniamo dal nulla e andiamo verso il nulla».
L’anno dopo, da Sibiu, Cioran scrive all’amico «condividiamo la maledizione della stessa sorte: Entrambi siamo destinati a protestare in quest’anfratto sperduto del mondo e a conservare, attraverso la sofferenza, l’insonnia dello spirito. Non perché in un altro angolo dell’Universo potremmo essere felici (dato che non troveremmo Dio da nessuna parte, tuttavia ovunque sapremmo cos’è la morte)» e, poco dopo, aggiunge «Siamo così soli che possiamo confrontarci soltanto con Dio. È il mio unico pensiero e la mia unica via di fuga».
Ed è proprio qui che il libro si fa interessante, determinante, nello svelare la passionalità balcanica di Cioran nell’amicizia e l’assolutezza della sua visione tragica del vivere.
La lettera successiva è da Parigi, e data il 25 novembre 1937: Emil definisce l’assoluta solitudine come il miglior complimento che si possa rivolgere a un uomo e tale sarebbe la condizione di Ţuţea, del quale afferma di aver compreso la «dimensione shakespeariana» dell’essere. Cioran gli fa da specchio, dicendosi felice di essere anch’egli «da solo, terribilmente solo», lontano dai Balcani, dove, dice all’amico, «solo tu giustifichi il sorgere del sole».
L’amaro giudizio sulla patria ritorna nella lettera del 19 gennaio 1938, dove domanda a Ţuţea «Perché (…) sperperi i tuoi slanci di genio sotto un cielo privo di infinito?» e, con pari amarezza, profetizza «gli uomini non ti perdoneranno mai di aver detto loro tutto gratuitamente». Opinione che Cioran non muterà mai, come la stima assoluta per Ţuţea, tanto da dire nel 1991, l’anno stesso della morte di Ţuţea, «il fatto che non abbia prodotto un’opera non ha importanza (…) è un genio verbale».
Invece, postume, usciranno, come abbiamo visto, le opere sequestrate dalla Securitate. Opere aperte a una visione spirituale che porterà Ţuţea a quella comunione con Dio che riscatta ogni sofferenza che fu interdetta a Cioran.
Sembra così profetica, pur se scritta con tutt’altra intenzione, la frase che troviamo nella missiva successiva, datata 6 gennaio 1939, da Mentone «E così fra di noi si frappone l’infinito».
Dopo una breve lettera, ancora da Mentone, in un suo rientro nel periodo pasquale e datata con la semplice ed evocativa indicazione di Venerdì Santo, l’ultima missiva di Cioran all’amico è da Vichy, il 24 marzo 1941. Cioran gli dice « Caro Petriça, avrei voluto scriverti in russo, ma non conosco nemmeno gli appellativi “divino” e “geniale” con cui abitualmente inizio le mie lettera indirizzate a te».
A prescindere dalla sicura perdita di parte della corrispondenza del filosofo, lo scambio epistolare trova una brusca interruzione nell’arresto e nell’internamento di Petre Ţuţea e la lettera successiva in nostro possesso è del 7 luglio 1974. È Ţuţea a scrivere a Cioran e, dopo aver iniziato dicendo «ti prego di credere alla mia costante amicizia» gli rivela: «Ricordo una situazione in prigione. Mi fu chiesto di attaccarti per iscritto, cosa che sarebbe stata decisiva per il mio rilascio. Rifiutai con queste parole: “Preferisco morire in carcere, piuttosto che attaccare un amico sacro e illustre!”». È una significativa documentazione dei sistemi della Securitate, che ricattava i prigionieri, spingendoli anche alla delazione per salvarsi. La disumanizzazione dell’individuo procedeva attraverso la distruzione delle relazioni amicali non meno che attraverso le violenze fisiche. Tutti gli intellettuali arrestati venivano spinti a spiare i propri amici. È in quella lettera, precedente la conversione, che, come abbiamo visto, Ţuţea ancora scriveva: «veniamo dal nulla e andiamo verso il nulla».
Nell’ultima, datata 3 marzo 1991, da Bucarest invece confessa: «Senza la religione cristiana, l’uomo vivrebbe l’inquietudine causata dai limiti esistenziali e dalla morte assoluta. (…) Quanto è magnifica la visione cristiana dell’uomo in cui i folli, i falliti e i geni si incontrano fraternamente, qui e al di là!».
La raccolta si completa con la trascrizione di un’intervista televisiva di Gabriel Liiceanu a Petre Ţuţea del 1990. In essa l’intellettuale sostiene che «la via umana deve ritrarsi dinanzi a quella divina, che assume due forme: l’ispirazione – la grazia divina – e la rivelazione – l’azione diretta della divinità» e ricorda che «Newton, interrogato su come avesse scoperto la legge di gravitazione universale, rispose: “Sono stato ispirato!”». Sostiene anche «la conoscenza dei fenomeni da parte del presunto uomo autonomo è illusoria» e ancora cita lo scienziato che, quando gli si venne chiesto cosa sia la gravità, rispose: “Dio!”.
Tuttavia l’autorivelazione dell’intervista raggiunge il suo culmine quando Ţuţea afferma «Io mi muovo, secondo la dogmatica cristiana, nell’“orizzonte del mistero”, come ha detto Blaga a proposito dell’uomo» e sostiene di aver fatto sua l’affermazione di Lalande che “il dogma è un mistero rivelato”. «Il mistero è l’ultima forma di liberazione dall’inquietudine dei limiti personali, dai vincoli cosmici e comunitari e dalla prospettiva dell’infinito e della morte». Per lui, la religione è libertà e confida che il suo grande amico Emil Cioran, attraverso l’inquietudine metafisica, arriverà a sottomettersi all’Assoluto Divino.
Vivetta Valacca
(n. 5, maggio 2019, anno IX)
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