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L’incantevole leggerezza della storia: l’ultimo romanzo di Dario Fo
Come tutti sanno, nei suoi ultimi anni Dario Fo – protagonista senza pari del teatro e della teatralità – aveva scoperto il piacere del romanzo, più precisamente del romanzo storico: cercava negli archivi per scovare personaggi, trame, atmosfere, per restituirgli, tramite la narrazione, la freschezza della vita. Ma in primo luogo cercava personaggi: perché per Dario Fo al centro dei fatti storici sta, come nel teatro, la personalità umana, il modo in cui essa modella la storia e ne viene modellata, ma soprattutto nel suo nocciolo duro: quello che non può essere modellato e che costituisce proprio l’essenza della personalità, attinente non tanto alle sue idee, alla sua formazione, educazione o ambiente, bensì all’indole, agli impulsi incontrollati e al carattere. I tre romanzi storici, che Fo ha cominciato a scrivere dopo gli 88 anni e che ha finito solo con la sua morte, sono incentrati ciascuno in un personaggio molto speciale della storia e nella sua personalità guardata in una tale prospettiva. La popolarità dello scrittore e il fascino della sua scrittura hanno indotto la rapida traduzione dei suoi tre romanzi storici in molte lingue di molti paesi e, naturalmente, la loro immediata apparizione anche in versione romena presso la casa editrice Humanitas, nella prestigiosa collana di «Raftul Denisei» nella bella traduzione di Vlad Russo. I tre romanzi sono: La figlia del papa, apparso in Italia nel 2014 e in Romania nel 2016, dedicato all’affascinante quanto discussa personalità di Lucrezia Borgia nel travolgente e stravagante Rinascimento italiano; a questo primo romanzo è seguito C’è un pazzo in Danimarca, pubblicato in Italia nel 2015 e in Romania nel 2017, che, con un titolo che allude a Amleto e a Shakespeare, è focalizzato sul Settecento scandinavo e sulla personalità contradittoria del re Cristiano VII di Danimarca; il terzo, uscito nel 2017, a pochi mesi dalla morte del suo autore, è Quasi per caso una donna. Cristina di Svezia, apparso di recente anche in romeno presso la stessa casa editrice e sempre nella traduzione di Vlad Russo. Il romanzo è dedicato a questa personalità che ha destato scalpore non solo durante la vita, ossia nella seconda metà del Seicento, e non solo in Europa, bensì ha suscitato ammirazione e perplessità anche dopo molto tempo, arrivando persino alla Hollywood del ventesimo secolo. Su quest’ultimo romanzo intendo soffermarmi, non solo perché bene accolto in Romania ma anche perché, secondo me, esso offre la quintessenza della scrittura storico-romanzesca di Dario Fo.
L’incontro con la storia di Dario Fo – premio Nobel per la letteratura, ma in realtà per l’originalità e la generosità della sua attività teatrale – è di lunga data: con la storia recente, nei suoi interventi civili e nelle sue pièces di virulente satira politica; con la storia lontana, con la stessa virulenza politica ma anche con intensa umanità in quella creazione senza uguale che è Il mistero buffo. Là, in un miscuglio di commedia dell’arte, one man’s show, workshop teatrale e carnevale sfrenato, Dario Fo penetrava nel profondo della tradizione dei misteri medioevali e nella poesia medievale italiana riinterpretandoli in chiave buffonesca, ma non per dissacrarli bensì per restituire loro l’umanità e il potere liberatorio che avevano allora e che possono avere anche adesso. Dunque la curiosità di penetrare il passato per parlare, tramite esso, a noi moderni dei nostri problemi odierni e tramite le nostre emozioni è costantemente esistita in lui. In questo senso i tre romanzi storici scritti da vecchio si inseriscono in modo naturale e coerente nel progetto della sua vita. In modo meno naturale si inseriscono nella tradizione del romanzo storico classico oppure in quella contemporanea di sapore postmoderno di moda oggidì. Della tale singolarità di Dario Fo e soprattutto di quella del suo ultimo romanzo intendo parlare qui.
Prima di tutto i romanzi storici di Dario Fo sono brevi, fanno parte di quella categoria che mi piace chiamare, affettuosamente, romanzi da autobus – perché si leggono rapidamente, facilmente e non richiedono molta concentrazione. La lettura di ciascuno di questi tre romanzi dura più o meno quanto uno spettacolo teatrale. Questo li rende più cordiali della maggioranza dei romanzi storici. Poi quasi tutto il romanzo e tutta la trama vengono assorbiti dalla costruzione del personaggio principale che – come nei romanzi storici tradizionali, ossia anteriori al capolavoro assoluto del Manzoni – è un protagonista della storia; solo che in tale protagonismo Fo non indaga il suo ruolo nei grandi eventi storici che hanno attraversato la sua esistenza, cioè non cerca l’interesse storico che il personaggio rappresenta in genere per tutti noi, bensì il suo temperamento, i suoi sentimenti, le manifestazioni della sua eccezionalità umana, quelle che fanno di lui un essere interessante, un unicum e un carattere. I suoi romanzi ci mettono davanti indoli e opzioni che ci fanno pensare, che ci obbligano a paragonarci a essi e ad interrogarci. Gli eventi storici appaiono solo il tempo necessario per suggerire l’atmosfera in cui si muovono i personaggi, cioè essi, in un certo modo, sfumano alle spalle del personaggio principale. Ma la domanda è: come penetra Dario Fo nell’intimità del suo protagonista, in quella intimità che gli archivi storici non rivelano quasi mai? Semplice: se la immagina. Con la fantasia e con l’acuità psicologica dello scrittore. In questo non differisce da tutti i bravi scrittori di romanzi storici. Ne differisce però nel modo in cui la rende: perché Fo penetra nel suo personaggio tramite il teatro e il dialogo. Il personaggio si rivela soprattutto attraverso i suoi dialoghi con gli altri, trasformando noi, lettori, in spettatori, partecipi di un’azione teatrale che si svolge sotto i nostri occhi. E, come già detto, in genere l’azione non riguarda i grandi gesti storici, bensì il vissuto spontaneo e immediato del protagonista. Un’altra caratteristica dei brevi romanzi storici di Dario Fo è l’inserzione nel tessuto dell’intreccio e dei dialoghi di frammenti di documenti d’epoca autentici ma liberamente interpretati. Neanche questa strategia, che aggiunge veridicità e conquista la fiducia del lettore, è nuova. Manzoni l’ha usata con ben altra serietà e profondità. Gli inserti documentari in Fo vengono invece per accentuare ciò che più preme a lui: il legame del personaggio con il teatro e la presenza del teatro ai tempi del suo personaggio.
Il suo ultimo romanzo ha anch’esso tutte queste caratteristiche. Vi si aggiungono però alcune altre che, secondo me, sono addirittura le linee direttrici del romanzo e che redimono l’apparente leggerezza con cui viene trattata la storia. Partiamo dal personaggio: la regina Cristina è stata non solo un personaggio eccezionale ma anche scandaloso in un momento di grandi turbamenti storici in cui lei ha fatto incredibili gesti politici: l’abdicazione al trono subito dopo la sua sfarzosa incoronazione, la sua conversione al cattolicesimo, i giochi politici dopo la conversione fra cui le manovre per impadronirsi del regno di Napoli e il progettato incontro con Oliver Cromwell ecc. Dario Fo ci informa solo di sfuggita su di essi, perché ciò che interessa a lui non è il mistero di queste scelte, le motivazioni politiche nascoste e cangianti di Cristina, bensì la costruzione di un personaggio che rompe tutti i canoni dell’epoca: politici, religiosi, morali, sessuali e culturali; di un personaggio che fa della libertà di sé il fine supremo della propria esistenza e lo fa respingendo ogni ipocrisia e ogni dissimulazione. In questo senso, nel suo terzo romanzo storico Dario Fo propone un messaggio preciso: non tanto un modello di persona umana quanto un modello di opzione esistenziale.
In secondo luogo c’è l’insistenza con cui interviene a nome proprio nella presentazione dei fatti: Fo dice spesso che le storie raccontano i fatti in un certo modo, ma che lui li vede diversamente e che questo suo modo di vederli merita di essere comunicato ai lettori. Fo tratta, dunque, apertamente e sbrigativamente il grande dilemma riguardante l’oggettività della storia. La sua storia non aspira a essere oggettiva e non pretende di essere veramente storia. Essa cerca soltanto di mettere davanti a noi delle persone e delle opzioni di vita per far scattare delle reazioni. Come nel teatro.
In terzo luogo c’è il suo desiderio palese di vedere la storia come teatro e attraverso il teatro. Presente sporadicamente anche nei due romanzi precedenti, in quest’ultimo tale desiderio è permanente e sopraffacente: oltre all’abbondanza dei dialoghi, storicamente poco verosimili, il romanzo è pieno di digressioni relative al teatro: assistiamo così alla presentazione dettagliata dell’episodio sulla recita di una commedia dell’arte e all’interferenza fittizia di Cristina nello spettacolo, o ci sorbiamo il lungo racconto sulla commedia presentata ad Innsbruck. Oltre a ciò, la protagonista si definisce in grande misura attraverso i suoi legami continui e profondi con il teatro: così un posto preminente nel romanzo spetta alla corrispondenza di Cristina con Molière, agli interventi e alle reazioni di Cristina in difesa degli attori e soprattutto al suo manifesto finale sulla libertà del teatro e sui diritti civili. L’insistenza sulla relazione della regina con il teatro la interpreto come il secondo messaggio forte che, prima della morte, Dario Fo intende trasmettere ai posteri e che sarebbe questo: fate attenzione al teatro! Fo sembra dirci che il teatro è la quintessenza dell’esistenza sociale e individuale; e il valore che gli assegniamo nella nostra vita, consapevolmente o meno, ci definisce in quanto persone umane. Non so se questa convinzione di Dario Fo esprima o meno una verità. Ma è sicuro che a questa verità egli credeva pienamente e che ci ha tenuto fino all’ultimo a trasmettercela. Anche per questa via, del romanzo storico.
Smaranda Bratu Elian
(n. 5, maggio 2019, anno IX)
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