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Gabriel Liiceanu, «In attesa di un’altra umanità». Uno sguardo filosofico-etico sull’uomo attuale
In attesa di un’altra umanità (Așteptând o altă umanitate, Humanitas, București 2018), il 26 volume d’autore di Gabriel Liiceanu, ci propone uno sguardo filosofico-etico sull’uomo attuale nella sua interazione con la società – intendendo per «uomo attuale» quello che non ha ancora forzato i suoi limiti biologici grazie alla scienza e tecnologia moderne (come immaginato da Yuval Noah Harari nel suo Homo Deus), cioè quello che, entro i limiti obbligati dei condizionamenti iniziali (il colore della pelle, il sesso, la propria fisionomia, le proprie origini familiari con tutto quello che esse comportano ecc.), continua ad agire liberamente, ossia secondo le proprie scelte. E ci si interroga sul perché e secondo quali meccanismi interni ed esterni, l’uomo, in questa sua libertà limitata, continua a scegliere di uccidere, di opprimere, di spiare, di tradire i propri simili, di sottomettersi vigliaccamente a loro ecc., e tutto questo manipolando il linguaggio sì da giustificarsi, nascondersi, autoassolversi. Il volume reca le impronte specifiche del loro autore, un intellettuale umanista di prima grandezza nella Romania dei nostri giorni, filosofo, scrittore, saggista, editore, traduttore, professore universitario e opinionista scomodo nel paesaggio politico romeno. E queste impronte sono: adoperare un linguaggio quotidiano limpido e plastico, guardare la filosofia dal lato etico e pratico, navigare liberamente nelle acque della storia e della cultura universale per cogliere gli esempi più significativi esprimenti, rimettere in questione se stessi e, soprattutto, proporre, al di là delle proprie interpretazioni, delle domande che continuano ad agire dentro il lettore oltre la lettura del testo. Come altri suoi libri, anche questo meriterebbe di essere conosciuto dagli italiani e dunque tradotto e pubblicato in Italia.
Ho scelto per i nostri lettori, fra i tanti problemi dell’uomo prospettati nel volume (fra cui il dovere di capire, la tendenza al tribalismo, il bisogno di libertà versus il bisogno di protezione, i rapporti con la propria coscienza morale ecc.), alcuni frammenti dal capitoletto I sicofanti. L’abiezione nello spazio pubblico: perché tratta un tema ancora scottante per ogni popolo uscito di recente da un regime non democratico e lo tratta proprio in questa ottica: la delazione.
«Fermiamoci un momento sulla sceneggiatura della delazione. A prima vista, essa suppone una struttura apparentemente semplice. Perché la delazione si manifesti, c’è bisogno che prima esista un’istanza repressiva (politica, ideologica o religiosa). L’istanza repressiva è la secrezione di ogni potere diventato abusivo. Illegittimo, questo sarà incessantemente ossessionato dalla minaccia del «nemico interno». Esso va identificato, conosciuto, descritto, individuato nei minimi particolari, penetrato nell’intimità della sua vita e, se possibile, totalmente sorvegliato. Ciò significa: accedere a tutto ciò che il sorvegliato dice, pensa, fa, intende; conoscere la sua indole, le sue abitudini, i suoi gusti, amori, amici, familiari, stati d’animo più nascosti. Per avere via libera a questo tutto è lecito: pedinarlo, ascoltarlo con le tecniche di ascolto, violargli la corrispondenza, l’abitazione, fotografarlo, filmarlo ecc. Il delatore fa parte di questo immenso scenario della sorveglianza e, agli occhi dell’istanza repressiva, ne rappresenta il pezzo di resistenza: grazie a chi sorveglia si può «penetrare nell’entourage dell’obiettivo». Perciò l’istanza repressiva è l’istituzione (o il luogo o la persona) dove il delatore scarica tutto quello che ha raccolto e per la quale, nel momento in cui ha firmato un accordo con essa, lui ha rotto il contratto della convivenza con i suoi simili.
Il delatore è, dunque, il secondo elemento della sceneggiatura. Ma se il sicofante è eterno, se la sua figura accompagna tutta la storia dell’umanità, vuol dire che esiste nell’uomo un potenziale di delazione sempre in agguato. Come spiegare la sua esistenza nell’essere umano? Qui ci interessa poco la delazione indotta dalla paura o da certi interessi precisi del delatore. Certo, uno può diventare delatore se minacciato o ricattato (attivando in lui la paura) o allettandolo con ricompense, vantaggi, benefici (soldi, beni materiali, promozione professionale, viaggi all’estero, titoli accademici ecc.). Ma veramente interessante per il suo potenziale di delazione, proprio perché impegna la natura umana, è la delazione compulsiva, quella che risponde a una spinta interna, dunque autoimposta. La principale premessa di questa è la copia di rancore, di invidia e di odio accumulata dai membri della società, copia che richiede uno sbocco, una rivalsa, una vendetta. [...]
In fine, nella «sceneggiatura della delazione» entra a far parte anche la vittima, l’oggetto della delazione. Non appena l’istanza repressiva comincia a interessarsene, esso diventa «l’obiettivo» e riceve un «nome in codice». A differenza del delatore, che conosce il proprio nome «cospirativo», l’obiettivo non conosce il proprio nome in codice. Lui viene catalogato sotto un nome che lui stesso ignora e la sua vita viene ricostituita secondo l’ottica dell’informatore e dell’istanza repressiva. Lui diventa in effetti un altro, quello del Dossier. Lui nasce, per così dire, una seconda volta. Certo, la vittima non sa niente della sua nuova vita (diventata top secret), del suo doppio che si sta fabbricando in una stanza della repressione e del modo in cui questo si configura a ogni foglio nuovo aggiunto al dossier. Se, per chissà quale azzardo della storia, la vittima arriva a vedere il proprio dossier e a visitare, in tal modo, la vita di questo suo doppio, ciò che più la sbalordisce, disgusta, indigna è scoprire, oltre il male che le è stato fatto e che magari le ha rovinato il destino, è il modo in cui le è stata violata l’intimità. Il mito dell’intimità, in cui ognuno di noi crede e che passa per inviolabile, quella parte di noi che ci rassicura in quanto atomi della società, che è il nostro rifugio, il nostro «nascondiglio», il nostro mezzo per isolarci dal mondo e dove nessuno può penetrare senza il nostro accordo, svanisce nel momento in cui l’«obiettivo» legge il proprio dossier. [...] Ma la delazione, in quanto atto condiviso, nato dalla complicità del delatore con l’istanza repressiva, non è un «delitto perfetto». Tanto il delatore quanto chi lo strumentalizza si fondano sull’irreversibilità della storia. Nessuno dei due tiene conto del suo andamento imprevedibile, del fatto che l’archivio possa essere aperto e la delazione possa venire alla luce, trasformando, per entrambi, in un incubo ciò che fino allora era rimasto nascosto e attentamente occultato nel dossier segreto o nei bassifondi della coscienza. […]
Ma perché, nell’ordine dell’abiezione, la delazione occupa un posto privilegiato? Perché essa ha come risultato, come già detto, la perdita della fiducia nei propri simili e la trasformazione della società in un territorio di permanente sospetto, dell’agguato e della paura. Essa abbatte il progetto comunitario, la convergenza dei fini comuni, portando in primo piano non il bene comune, ma quello del singolo, ottenuto tramite l’esclusione e la distruzione dell’altro» (pp. 165-169).
E, analizzando la reazione di numerosi delatori recenti le cui delazioni sono state innegabilmente provate (fra cui anche quella di Julia Kristeva con la recente scoperta del dossier «Sabina»), Liiceanu si domanda: «Come mai, una volta portata alla luce tale collaborazione, essa, a dispetto dell’evidenza, viene contestata con la massima veemenza o riceve spiegazioni puerili?», domanda che lo porta a supporre che, essendo la coscienza morale elemento costitutivo della natura umana, «nessuno vuole ritornare sul luogo e al tempo della propria abiezione, per guardarla negli occhi e per farne atto di ammissione» (pp. 199-200).
Lascio ai lettori pesare queste parole e adattarle alla propria esperienza storica e umana.
Smaranda Bratu Elian
(marzo 2019, anno IX)
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