|
|
Geroglifici di un gioco cosmico: Ioan Petru Culianu e il suo Iocari serio
Domenica 13 maggio, alle ore 11, presso lo stand della Romania allestito al Salone del Libro di Torino è in programma la presentazione dell'opera di Ioan Petru Culianu, Iocari serio. Il volume sarà presentato da Marco Pasi, dell'Università di Amsterdam, e da Roberto Scagno, dell'Università di Padova.
Uno dei fili conduttori dell’opera di Ioan Petru Culianu – storico delle religioni e filosofo rumeno, le cui riflessioni hanno coinvolto un vasto pubblico nella seconda metà del Novecento – è lo studio del controverso rapporto tra scienza e magia nella tradizione occidentale. Allo sguardo contemporaneo, la storia di questo binomio si traduce nelle contrapposizioni teoriche tra l’oggettività di ciò che è scientifico e l’illusorietà di ciò che è fantastico; inoltre, da un certo punto di vista, sembrerebbe che il perfezionamento del metodo scientifico moderno abbia comportato, come conseguenza, un progressivo allontanamento dalla visione magica del mondo. Laddove ci sono i processori informatici e le sonde spaziali, degli stregoni non c’è più bisogno – con buona pace delle stelle.
Culianu esamina precisamente le vicende storiche e filosofiche che hanno portato alla scissione tra scienza e magia, tra la neutralità del segno e l’esoterismo del simbolo, tra la serietà del vero e la superstizione del fantastico. In termini generali, egli crede che il «magico»e lo «scientifico» non siano termini antitetici o, perlomeno, che lo siano diventati solo a partire dalla modernità. Nella sua opera principale, Eros e magia nel Rinascimento (1984; ed. it. 1986), il momento iniziale di tale modernità è identificato con la Riforma luterana e la Controriforma cattolica, la cui intolleranza e la cui censura sono state responsabili di un consapevole atto storico di «castrazione» dell’immaginazione creatrice. Nei canoni del sapere rinascimentale, infatti, lo studio «scientifico» della realtà presuppone una visione magica del cosmo, poiché lo stesso cosmo si configura come una struttura verticale suddivisa in differenti gradi ontologici connessi gerarchicamente tra loro, in cui ogni singolo elemento appartenente a un certo grado è un simbolo che rinvia ad un altro elemento situato a un livello differente. In questo senso l’universo è davvero un libro che deve essere interpretato, poiché il vero sapere consiste nella decifrazione dell’occulta scrittura del mondo – che, in buona parte, è una scrittura fantastica. In seguito alla Controriforma, invece, gli aspetti magici del corpus sapienziale vengono amputati in nome di una visione orizzontale della realtà materiale, fondata su una conoscenza pratica, strumentale e più facilmente controllabile da chi detiene il potere: una scienza «tecnologica», nel senso moderno del termine. Una transizione che Culianu spiega grazie alla metafora della «mosca aptera»: proprio come la mosca aptera, dotata di un portentoso e «mostruoso» apparato per il volo, è l’unica mosca delle Galapagos capace di sopravvivere ai forti venti dell’oceano, così la scienza tecnologica è stata l’unica forma di sapere sufficientemente neutro da poter sopravvivere ai ventidella censura riformista e controriformista. Con l’inconveniente, però, di essere diventata una scienza ipertrofica, inconsapevole della sua eredità magica e metafisica.
Per giustificare la teoria del cambiamento culturale esposta in Eros e magia, Culianu si richiama alle dottrine della cosiddetta «pneumofantasmologia» – la manipolazione dei fantasmi dello spirito e dell’immaginazione – e mostra come questa tradizione secolare, che lega il Rinascimento al sapere medioevale e greco, sia stata gradualmente abbandonata dopo l’emblematico rogo di Giordano Bruno: una condanna che segna in modo drastico il punto di non ritorno dalla Controriforma. Tuttavia, prima di giungere a questa conclusione, Culianu si occupa di pneumofantasmologia rinascimentale già verso la fine degli anni Settanta, anche se da una prospettiva diversa: per indagare, cioè, lo statuto ontologico della magia nel mondo rinascimentale, prima ancora di individuare le cause del declino del sapere magico.
Testimonianza di questa ricerca è un saggio incompiuto del 1979, quando Culianu insegnava all’Università di Groeningen, e intitolato Iocari serio. Scienza e arte nel pensiero del Rinascimento: un volume inedito recentemente pubblicato in Italia dall’editore torinese Lindau (2017), con traduzione e curatela di Horia Corneliu Cicortaş. Per quanto non sia stato portato a termine, si tratta di un saggio fondamentale nell’evoluzione del pensiero di Culianu, che fornisce al lettore strumenti preziosi per comprendere il percorso intellettuale che ha preceduto (e generato) la stesura di Eros e magia.
Il presupposto storico e filosofico di Iocari serio è che il mistero della creazione risieda «nel suo carattere ludico, gratuito», e che tale gratuità sia costantemente presente nel gioco metafisico della ricerca della verità: poiché, per svelare l’essere, bisogna essere disposti a giocare con esso. Non casualmente, il saggio di Culianu è un lungo commento al frammento 52 di Eraclito, nel quale l’autore vede celarsi il limite stesso del pensiero moderno: «Il tempo è un bambino che gioca, spostando continuamente le pedine del gioco; è il regno di un bambino».
Questo frammento, spesso relazionato al mito del Dioniso fanciullo sbranato dai Titani mentre gioca a dadi, pone la questione del senso del gioco; una questione che, come osserva Culianu nella sua introduzione, precede immancabilmente il silenzio di chi osa porla: Nicola Cusano compone il De ludo globi un anno prima della morte, Nietzsche si dedica ad Eraclito l’anno stesso in cui perde il senno, e Heidegger consacra ad Eraclito uno dei suoi ultimi seminari. Sembrerebbe che, al di là del gioco, ci sia poco da aggiungere. E Culianu, coerentemente a questo presupposto, considera il gioco come l’essenza ultima del mondo. Il che non significa che non se ne debba parlare, ma che ci si debba chiedere come mai, nella modernità, se ne parli così poco e con tanta difficoltà.
Il motivo fondamentale, rintracciabile poi in Eros e magia, è che la modernità abbia relegato il sapere magico nella sfera dell’assurdo e dell’irrazionale, di un fantastico sconfinante nel menzognero, al modo di una via mistica verso la falsità, che conduce chi la persegue all’illusione e all’inganno. Per questo la magia non rappresenta una questione seria allo sguardo dei moderni, perché è esclusa a priori dai canoni del razionalismo; contrariamente a quanto accade nel Rinascimento, dove la metafora del gioco è relazionata invece alla maestria nelle discipline considerate più serie e più difficili, come la filosofia, l’alchimia, l’astrologia – e in particolare la magia, la cui arte consiste nel mediare le corrispondenze tra i diversi ambiti del sapere e i diversi ambiti della realtà.
Quello dei rinascimentali è un mondo magico; più precisamente, un mondo che eleva l’allegoria a principio magico e che, di conseguenza, fa della magia stessa la chiave imprescindibile per interpretare la realtà. Come abbiamo già detto, se ogni cosa è simbolo di qualcos’altro, l’universo diventa un libro scritto in caratteri fantastici e indecifrabili, in cui gli enti visibili riflettono i fantasmi dell’invisibile e in cui la trascendenza divina emana la propria luce nelle ombre immanenti della materia: ciò significa, come si sottolinea nel primo capitolo del libro, che sussiste una «solidarietà mistica tra le varie parti del mondo», grazie alla quale in ogni singolo ente sono rintracciabili delle similitudini con la totalità dell’organismo cosmico a cui esso appartiene. Richiamandosi a Le parole e le cose di Foucault, Culianu ricorda che il medico rinascimentale, per curare le malattie agli occhi, usa una pianta i cui frutti assomigliano all’occhio, perché, «conformemente a questo principio analogico, il referente del frutto che somiglia a un occhio è l’occhio stesso». Il medico non compie una scelta scriteriata o superstiziosa, ma sceglie seguendo un preciso criterio metodologico, stando al quale la somiglianza è un fattore decisivo per la diagnosi: «Non va dimenticato che l’occhio appartiene all’essere umano, e nella filosofia del Rinascimento la condizione dell’uomo è peculiare: egli si trova al centro di un universo gerarchico, avendo al di sopra un aspetto superiore dell’essere, e al di sotto un aspetto inferiore. L’uomo è la sintesi di queste due metà del cosmo, in lui sono racchiusi il mondo superiore e quello inferiore. In tal modo, il frutto che somiglia a un occhio è solidale con l’occhio umano poiché, in un certo senso, fa già parte dell’organismo esteso dell’uomo» (p. 38).
Questo passo, in cui ci si riferisce al rapporto tra micro e macrocosmo, è estremamente importante perché ci indica indirettamente le ragioni che spingono Culianu ad occuparsi della filosofia rinascimentale. Nel Rinascimento, la tradizione platonica – che vedeva nel mondo materiale un’ultima derivazione, inferiore, del mondo intelligibile – viene recuperata in chiave esoterica, poiché tutto ciò che accade «quaggiù» è interpretato come una trascrizione oscura di quanto permane eternamente «lassù»: in questo senso il mondo è una cifratura che va interpretata; e sempre in questo senso, tale interpretazione può essere affidata soltanto a colui che si trova nel punto mediano tra la dimensione inferiore e quella superiore dell’universo – all’essere umano.
Da questa constatazione derivano due conseguenze. In primo luogo, la visione metafisica del Rinascimento implica un cosmismo antropologico, stando al quale l’uomo non può realizzare se stesso indipendentemente dalle dinamiche universali; in secondo luogo, per non fallire il suo destino, l’uomo deve apprendere a interpretare i segni «nascosti» in queste dinamiche superiori. Ed è proprio qui che subentra la magia: perché la magia è l’arte di usare «l’occhio della mente» per riconoscere i segni invisibili impressi nella natura e poterli evocare, attirando a sé «la protezione delle entità sovraumane, dei demoni dell’aria e degli astri divini». Culianu sottolinea, dunque, quanto l’astrologia sia indispensabile per la scienza rinascimentale, la quale è innanzitutto il tentativo di «decifrare la scrittura ingarbugliata del mondo per captare le forze celesti e sovracelesti corrispondenti». Esattamente il contrario della scienza moderna, la quale, sviluppandosi su un piano puramente verticale e quantitativo, pone i presupposti per un acosmismo antropologico, secondo il quale l’uomo è un’apparizione isolata nella scena iperuranica.
Questa differenza, tra visione cosmica e acosmica dell’uomo, crea le premesse per uno dei tratti più originali sviluppati da Culianu in Iocari serio. Infatti, se la salvezza dell’uomo dipende dall’interpretazione magica dell’universo, ne risulta che per la scienza rinascimentale la figura principale di riferimento non sia (come si è soliti credere) il dotto umanista, bensì il mago astrologo e alchimista. Culianu al riguardo è esplicito, al punto da definire il mago come «lo scienziato» della cultura cinquecentesca – la quale sarebbe una cultura «magica» ancor prima che «umanista». In altri termini, l’umanesimo rinascimentale è tale nella misura in cui la sua rivalutazione dell’esistenza umana è l’effetto di una riconfigurazione magica del cosmo, in virtù della quale l’uomo si trova ad occupare la posizione di intermediario ontologico tra la dimensione intelligibile e quella materiale. Tutto questo, però, può accadere esclusivamente in universo infinito, immaginato secondo una cosmografia del tutto differente da quella medioevale, dove la Terra era situata al centro di universo finito e concentrico, calibrato sulla teoria aristotelica degli elementi (per la quale la Terra rappresenta il gradino ultimo – «più basso» – della corruzione e degradazione ontologica).
Culianu puntualizza ancora una volta che, anche in questo frangente, lo sguardo moderno ha falsato una particolarità del sapere rinascimentale, giudicandola attraverso un criterio che non le apparteneva. Quando Nicola Cusano e, dopo di lui, Giordano Bruno affermano l’infinità dell’universo, non stanno difendendo una tesi relativa all’ampiezza fisica del cosmo (uno spazio che non ha né inizio né fine, privo di qualsiasi punto di riferimento), bensì una tesi metafisica, relativa all’infinita potenza di Dio, il vero centro di tutte le cose (una sfera infinita, il cui centro è ovunque e la circonferenza in nessun luogo). Questa idea di infinito, lungi dal voler marginalizzare la sfera terrestre, «tenta semplicemente di ridare alla Terra il prestigio metafisico che la cosmologia aristotelica le aveva tolto» (p. 68). Da questa prospettiva, risulta ingiustificabile l’accusa che i moderni hanno spesso rivolto a Bruno e Copernico, le cui teorie avrebbero distrutto l’equilibrio medioevale tra uomo e mondo, abbandonando la stirpe adamica in universo angosciante perché infinito. In realtà, come scrive Culianu, per i medioevali era proprio il centro a non avere alcuna rilevanza ontologica, poiché il vero essere si trovava nella «periferia» iperuranica delle stelle fisse: «Questa rinuncia [rinascimentale] alla posizione centrale della Terra non equivaleva affatto a una perdita di dignità ma, al contrario, si trattava di abbandonare l’idea di derivazione aristotelica secondo cui la Terra era un luogo inferiore della decadenza, del male rappresentato dalla materia, una pattumiera dell’universo armonico» (p. 69).
Una sfera dotata di infiniti centri e nessun perimetro è una sfera magica. E l’uomo, abitando sulla stella terrena, si trova al centro di questa magia, poiché la Terra diventa il punto privilegiato di occulte corrispondenze cosmiche. Il mago, da questa prospettiva, diventa colui nel quale si manifesta con la massima intensità «la coscienza magica del mondo».
Nel secondo capitolo del libro Culianu esamina l’opera di Marsilio Ficino, per dimostrare che anche la seriosissima sistematizzazione ficiniana del neoplatonismo è fondata sulla medesima concezione metafisica della magia. Anzi, Culianu opera precisamente «una de-filosofizzazione sistematica del pensiero ficiniano», al fine di recuperare la radice esistenziale e non speculativa della sua filosofia. Ficino, infatti, viene ritratto come il più accademico e il meno affascinante dei personaggi, una sorta di «anti-mago» tedioso e maniacale, che scherza poco, non gioca mai e scrive troppo; eppure Culianu lo sceglie come oggetto della sua ricerca, non solo perché il neoplatonismo ficiniano è un momento imprescindibile della cultura rinascimentale, ma perché in esso traspare in modo incontrovertibile la visione di un mondo che respira, «in cui simpatie invisibili uniscono le pietre ai cieli, in cui la morte è una rinascita e l’ombra di una nuvola, l’ala di un demone» (p. 80).
Nel sistema di Ficino, come è noto, la bipartizione platonica tra mondo celeste e materiale si inserisce nella gerarchia neoplatonica dei cinque gradi ontologici, così suddivisa: Dio, Angelo, Anima, Qualità o natura, Corpo o materia. Come si vede anche schematicamente, si tratta di una processione che segna un graduale allontanamento dalla luce divina, la quale risplende però ovunque nel mondo come bellezza. L’anima svolge un ruolo chiave in questo processo, in quanto assomiglia a «un Giano bifronte», che garantisce il collegamento tra mondo intelligibile e sensibile; inoltre, e parallelamente, è sempre l’anima che consente all’uomo di riconoscere la bellezza divina già nella sfera sensibile, per poter intraprendere successivamente il percorso inverso di «conversione» e riavvicinamento alla sfera intelligibile.
L’anima che riconosce la luce di Dio è un’anima che desidera ritornare dal suo Creatore. E il desiderio (appetitus) è un concetto fondamentale per Ficino, perché indica la tensione naturale in virtù della quale ogni cosa si muove verso ciò che la completa e perfeziona: le radici degli alberi cercano l’umidità della terra, le foglie degli alberi la luce del sole, il maschio la femmina, e l’essere umano il suo Creatore. Si tratta di un «moto naturale» (naturalis motus), che lega l’amante all’amato e che, se soddisfatto, conduce entrambi a uno stato di quiete. Dunque, la luce che avvolge il mondo è in realtà composta da «sottili linee di forza dei desideri», che attraggono l’anima e che la possono orientare tanto verso la sorgente divina quanto verso il simulacro materiale, perché l’anima, essendo a metà fra le due dimensioni, «desidera sia le cose inferiori che quelle superiori» (p. 108). Nel primo caso essa seguirà un appetito vizioso, nel secondo caso un appetito virtuoso: tutto dipende da come l’anima, durante le sue transizioni dal cielo alla materia, abbia imparato a volgere il proprio desiderio verso la giusta direzione.
Nel dialogo Sopra lo amore (VI, 4) Ficino narra di come l’anima possa finire nella prigione corporea. Ovviamente essa deve discendere dagli astri e, più precisamente, passare «attraverso la Via Lattea nella costellazione del Cancro, dove riceve un involucro celeste brillante, un corpo eterico chiamato “spirito” (spiritus), che le consente di incarnarsi nel corpo fisico». Tale spirito, come viene poi detto nella Theologia Platonica (VII, 6), è un rivestimento molto sottile e luminoso, «generato dal calore del cuore e nato dalla parte più leggera del sangue, da dove poi si diffonde in tutto il corpo». Questa specie di «veicolo pneumatico» è il vero mediatore tra l’anima immortale e il corpo corruttibile, e la sua funzione ricorda quella dell’organo aristotelico dell’immaginazione (phantasia), situato nel cuore e chiamato spiritus phantasie o phantastikon pneuma (cfr. De anima, 428a-432a). Infatti, prosegue sempre Ficino, «ogni reazione che si trasmette dal corpo a questo spirito è immediatamente percepita dall’anima che vi è presente: è l’atto che chiamiamo percezione. In seguito, l’anima osserva e valuta la percezione: a questa osservazione diamo il nome di fantasia» (Theol. Plat. VII, 6).
La fantasia, dunque, è il risultato di un’operazione immaginifica dell’anima, che rielabora le percezioni precedentemente ricevute dallo spirito, il quale è a sua volta esposto sia alla luce divina del mondo superiore che a quella derivata del mondo inferiore. Se la scelta operata dall’anima dipende dalla direzione in cui è rivolto lo spirito, si comprende che il tema della conoscenza, della fantasia e del desiderio sono strettamente connessi nel sistema di Ficino, che si traduce infine in una elaborata pneumofantasmologia. Aspetto che emerge chiaramente nella ficiniana teoria dell’amore, esaminata da Culianu nel terzo capitolo di Iocari serio.
Richiamandosi a Stanze di Giorgio Agamben, Culianu mostra che la pneumofantasmologia ficiniana si fa erede di una lunga tradizione, che lega l’antichità greca alla poesia del dolce stil novo, passando per le teorie mediche dello pneuma, la teoria aristotelica e averroistica dell’immaginazione, il veicolo astrale neoplatonico, la dottrina cristiana della salvezza e il sapere magico del Rinascimento. In particolare, Culianu menziona sia Sinesio di Cirene (IV-V sec.), per il quale il sintetizzatore fantastico è situato nel cervello e svolge «un ruolo intermediario fra il mondo superiore e quello inferiore, diventando il territorio per eccellenza delle operazioni della magia e della teurgia, della divinazione mediante i sogni e ogni altro mezzo»; sia Averroè (XI sec.), per il quale «il luogo e la radice del senso comune (fantasia) sono nel cuore» (pp. 132-134). Combinando queste diverse suggestioni, Ficino crede che nell’anima vi sia scolpita un’immagine astrale che, al momento della nascita, si incarna più o meno perfettamente nel corpo a seconda delle qualità presenti nel seme paterno e nell’utero matero. Questa «impronta animica», con il suo correlato di corrispondenze e divergenze astrali legate al momento della nascita, determina la simpatia e l’antipatia spontanea fra individui, così come i sentimenti di odio e amore. Nel caso dell’amore, si crea una sorta di affinità inconscia tra l’immagini astrale dell’amante con quello dell’amato; un’affinità che spinge l’amante ad armonizzare consapevolmente le sue aspirazioni segrete con le aspettative che egli nutre verso il suo oggetto d’amore. In tal modo, l’amante imprime nella sua anima un’immagine fantastica e idealizzata del suo amato: un’immagine interiore che, in ultima istanza, sarebbe il vero oggetto d’amore. Se, però, si verifica la circostanza che l’amato non ricambi l’amante, l’amante se ne resta da solo con questa immagine interiore, rischiando di inabissarsi nella propria psiche – e di precipitare nella malinconia e nella follia. Per evitare questo pericolo, è dunque essenziale conquistare l’amato; e di fatti, scrive Culianu, tutte «le azioni e le parole dell’amante hanno uno scopo prettamente magico: attraverso canti, doni, favori, egli crea le maglie di una rete magica in cui cerca di afferrare l’amato. Eros è il grande mago, un daimon a cavallo dei mondi, che può condurre l’anima sia verso le soavi alture dell’Afrodite celeste, sia verso le tenebre della procreazione rappresentata dall’Afrodite comune» (p. 140).
Se Platone, nel Simposio, ritrae Eros quale demone mediatore tra la verità divina e l’ignoranza umana, Ficino vede a sua volta in Amore un desiderio cosmico che unisce cielo e natura; una forza magica grazie a cui le varie parti del mondo si attraggono reciprocamente, concorrendo «all’amicizia tra le cose naturali» e all’armonia universale. La magia, l’arte e l’amore – da questa prospettiva – tendono a confondersi: la magia è l’arte di decifrare le similitudini cosmiche e i rapporti di simpatia-antipatia tra le cose naturali, mentre l’amore è la forza che consente alle cose di compenetrarsi vicendevolmente. La prima forma d’arte è stata un gesto d’Amore, ossia la Creazione divina, mentre l’arte umana non è che l’emulazione di tale Creazione: in entrambi i casi, è l’amore ad assicurare l’unità tra arte e cosmo, perché sia il cosmo che l’arte partecipano dello stesso mistero – del gratuito enigma divino.
La scienza, l’etica e l’estetica, in questo frangente, sono forme di una stessa arte. E il gesto dell’amante, che cerca di rintracciare nell’immagine dell’amato i riflessi di un’ombra astrologica, partecipa del medesimo gioco di allegorie e corrispondenze universali. L’amore implica la risoluzione di un enigma di ascendenza celeste, e tale enigma ci trascina nell’affascinante gioco del mondo. Per questo, come osserva Culianu, la «conseguenza più radicale del ruolo dell’immaginazione nella pneumatologia ficiniana è la rivalutazione del gioco» (p. 180), poiché Ficino ha relazionato la speculazione metafisica al gioco amoroso dei fantasmi: così facendo, egli ha trasfigurato la seria (e talvolta malinconica) ricerca della verità in un gioco creativo, in un’allusione che deve essere decifrata con malizia e intelligenza. Il gioco di Ficino, in altri termini, è «un’attitudine misterica», che si concretizza nella capacità di dire scherzando cose serie, perché il gioco del mondo va sempre giocato seriamente: una regola dialettica che sarà una specie di imperativo per i grandi pensatori rinascimentali – da Erasmo a Bruno, passando per Moro, Agrippa e Montaigne.
Nella postfazione di Iocari serio, il filosofo rumeno Horia-Roman Patapievici spiega che Culianu ha dimostrato che la pneumatologia rinascimentale «costituiva il fondamento dell’intelligibilità di tutte le scienze tradizionali (astrologia, magia, Cabala ecc.), irreversibilmente screditate dalla rivoluzione scientifica del XVII secolo, in quanto ha reso non plausibile e ridicola l’immagine del mondo codificata da tale teoria» (p. 248). Secondo Patapievici, la peculiarità di Iocari serio è stata di aver trattato seriamente una questione considerata ridicola come la magia, fino al punto da porre al mondo magico rinascimentale una domanda talmente seria da risuonare kantiana: «Come dovrebbe essere articolato l’apparato cognitivo umano (ovvero il soggetto trascendentale di Kant) e quali dovrebbero essere i principi ontologici del mondo affinché la magia non sia una superstizione, bensì una realtà simile alla moderna scienza della natura?» (p. 232).
Che la parola mago sia una parte decisiva della risposta a questo dubbio kantiano, fa parte dell’ironica alchimia del pensiero di Culianu.
Paolo Vanini
(maggio 2018, anno VIII)
| |